Io cominciando a sentire l’impero
della bellezza, da più d’un anno desiderava di parlare e
conversare, come tutti fanno, con donne avvenenti, delle
quali un sorriso solo, per rarissimo caso gittato sopra di
me, mi pareva cosa stranissima e meravigliosamente dolce e
lusinghiera; e questo desiderio della mia forzata
solitudine era stato vanissimo fin qui. Ma la sera
dell’ultimo Giovedì, arrivò in casa nostra, aspettata con
piacere da me, né conosciuta mai, ma creduta capace di
dare qualche sfogo al mio antico desiderio, una Signora
Pesarese nostra parente più tosto lontana, di ventisei
anni, col marito di oltre a cinquanta, grosso e pacifico,
alta e membruta quanto nessuna donna ch’io m’abbia veduta
mai, di volto però tutt’altro che grossolano, lineamenti
tra il forte e il delicato, bel colore, occhi nerissimi,
capelli castagni, maniere benigne, e, secondo me,
graziose, lontanissime dalle affettate, molto meno lontane
dalle primitive, tutte proprie delle Signore di Romagna e
particolarmente delle Pesaresi, diversissime, ma per una
certa qualità inesprimibile, delle nostre Marchegiane.
Quella sera la vidi, e non mi dispiacque; ma le ebbi a
dire pochissime parole, e non mi ci fermai col pensiero.
Il Venerdì le dissi freddamente due parole prima del
pranzo: pranzammo insieme, io taciturno al mio solito,
tenendole sempre gli occhi sopra, ma con un freddo e
curioso diletto di mirare un volto più tosto bello,
alquanto maggiore che se avessi contemplato una bella
pittura. Così avea fatto la sera precedente, alla cena. La
sera del Venerdì, i miei fratelli giuocarono alle carte
con lei: io invidiandoli molto, fui costretto a giuocare
agli scacchi con un altro: mi ci misi per vincere, a fine
di ottenere le lodi della Signora (e della Signora sola,
quantunque avessi dintorno molti altri) la quale senza
conoscerlo, facea stima di quel giuoco. Riportammo
vittorie uguali, ma la Signora intenta ad altro non ci
badò; poi lasciate le carte volle ch’io l’insegnassi i
movimenti degli scacchi: lo feci ma insieme con gli altri,
e però con poco diletto, ma m’accorsi ch’Ella con molta
facilità imparava, e non se le confondevano in mente quei
precetti dati in furia (come a me si sarebbero senza
dubbio confusi) e ne argomentai quello che ho poi inteso
da altri, che fosse Signora d’ingegno. Intanto l’aver
veduto e osservato il suo giuocare coi fratelli, m’avea
suscitato gran voglia di giuocare io stesso con lei, e
così ottenere quel desiderato parlare e conversare con
donna avvenente: per la qual cosa con vivo piacere sentii
che sarebbe rimasa fino alla sera dopo. Alla cena, la
solita fredda contemplazione. L’indomani nella mia
votissima giornata aspettai il giuoco con piacere ma senza
affanno né ansietà nessuna: o credeva che ci avrei trovato
soddisfazione intera, o certo non mi passò per la mente
ch’io ne potessi uscire malcontento. Venuta l’ora, giuocai.
N’uscii scontentissimo e inquieto. Avea giuocato senza
molto piacere, ma lasciai anche con dispiacere, pressato
da mia madre. La Signora m’avea trattato benignamente, ed
io per la prima volta avea fatto ridere colle mie burlette
una dama di bello aspetto, e parlatole, e ottenutone per
me molte parole e sorrisi. Laonde cercando fra me perché
fossi scontento, non lo sapea trovare. Non sentia quel
rimorso che spesso, passato qualche diletto, ci avvelena
il cuore, di non esserci ben serviti dell’occasione. Mi
parea d’aver fatto e ottenuto quanto si poteva e quanto io
mi era potuto aspettare. Conosceva però benissimo che quel
piacere era stato più torbido e incerto, ch’io non me
l’era immaginato, ma non vedeva di poterne incolpare
nessuna cosa. E ad ogni modo io mi sentiva il cuore molto
molle e tenero, e alla cena osservando gli atti e i
discorsi della Signora, mi piacquero assai, e mi
ammollirono sempre più; e insomma la Signora mi premeva
molto: la quale nell’uscire capii che sarebbe partita
l’indomani, né io l’avrei riveduta. Mi posi in letto
considerando i sentimenti del mio cuore, che in sostanza
erano inquietudine istintiva, scontento, malinconia,
qualche dolcezza, molto affetto, e desiderio non sapeva né
so di che, né anche fra le cose possibili vedo niente che
mi possa appagare. Mi pasceva della memoria continua e
vivissima della sera e dei giorni avanti, e così vegliai
sino al tardissimo e addormentatomi, sognai sempre come un
febbricitante, le carte il giuoco la Signora; contuttoché
vegliando avea pensato di sognarne, e mi parea di aver
potuto notare che io non avea mai sognato di cosa della
quale avessi pensato che ne sognerei: ma quelli affetti
erano guisa padroni di tutto me e incorporati colla mia
mente, che in nessun modo né anche durante il sonno mi
poteano lasciare. Svegliatomi prima del giorno (né più ho
ridormito), mi sono ricominciati, com’è naturale, o più
veramente continuati gli stessi pensieri, e dirò pure che
io avea prima di addormentarmi considerato che il sonno mi
suole grandemente infievolire e quasi ammorzare le idee
del giorno innanzi specialmente delle riforme e degli atti
di persone nuove, temendo che questa volta non mi
avvenisse così. Ma quelle per lo contrario essendosi
continuate anche nel sonno, mi si sono riaffacciate alla
mente freschissime e quasi rinvigorite. E perché la
finestra della mia stanza risponde in un cortile che dà
lume all’androne di casa, io sentendo passar gente così
per tempo, subito mi sono accorto che i forestieri si
preparavano al partire, e con grandissima pazienza e
impazienza, sentendo prima passare i cavalli, poi arrivar
la carrozza, poi andar gente su e giù, ho aspettato un
buon pezzo coll’orecchio avidissimamente teso, credendo a
ogni momento che discendesse la Signora, per sentirne la
voce l’ultima volta; e l’ho sentita. Non m’ha saputo
dispiacere questa partenza, perché io prevedeva che avrei
dovuto passare una trista giornata se i forestieri si
fossero trattenuti. Ed ora la passo con quei moti
specificati di sopra, e aggiungici un doloretto acerbo che
mi prende ogni volta che mi ricordo dei dì passati,
ricordanza malinconica oltre a quanto io potrei dire, e
quando il ritorno delle stesse ore e circostanze della
vita, mi richiama alla memoria quelle di que’ giorni,
vedendomi dintorno un gran voto, e stringendomisi
amaramente il cuore. Il quale tenerissimo, teneramente e
subitamente si apre, ma solo solissimo per quel suo
oggetto, ché per qualche altro questi pensieri m’hanno
fatto e della mente e degli occhi oltremodo schivo e
modestissimo, tanto ch’io non soffro di fissare lo sguardo
nel viso sia deforme (che se più o manco m’annoi, non lo
so ben discernere) o sia bello o chicchessia, né in figure
o cose tali; parendomi che quella vista contamini la
purità di quei pensieri e di quella idea ed immagine
spirante e visibilissima che ho nella mente. E così il
sentir parlare di quella persona, mi scuote e tormenta
–come a chi si tastasse o palpeggiasse una parte del corpo
addoloratissima, e spesso mi fa rabbia e nausea; come
veramente mi mette a soqquadro lo stomaco e mi fa
disperare il sentir discorsi allegri, e in genere io
tacendo sempre, sfuggo quanto più posso il sentir parlare,
massime negli accessi di quei pensieri. a petto ai quali
ogni cosa mi par feccia, e molte ne disprezzo che prima
non disprezzava, anche lo studio, al quale ho l’intelletto
chiusissimo, e quasi anche, benché forse non del tutto, la
gloria. E sono sorvegliatissimo al cibo, la qual cosa noto
come non ordinaria in me né anche nelle maggiori angosce,
e però indizio di vero turbamento. Se questo è amore, che
io non so, questa è la prima volta che io lo provo in età
da farci sopra qualche considerazione; ed eccomi di
diciannove anni e mezzo, innamorato. E veggo bene che
l’amore dev’esser cosa amarissima, e che io purtroppo
(dico dell’amor tenero e sentimentale) ne sarò sempre
schiavo. Benché questo presente (il quale, come ieri sera
quasi subito dopo il giuocare, pensai, probabilmente è
nato dall’inesperienza e dalla novità del diletto) son
certo che il tempo fra pochissimo lo guarirà: e questo non
so bene se mi piaccia o mi dispiaccia, salvo che la
saviezza mi fa dire a me stesso di sì. Volendo pur dare
qualche alleggiamento al mio cuore, e non sapendo né
volendo farlo altrimenti che collo scrivere, né potendo
oggi scrivere altro, tentato il verso, e trovatolo restio,
ho scritto queste righe, anche ad oggetto di speculare
minutamente le viscere dell’amore, e di poter sempre
riandare appuntino la prima vera entrata nel mio cuore di
questa sovrana passione.
La Domenica 14 di Decembre 1817.
Ieri, avendo passata la seconda notte con sonno interrotto
e delirante, durarono molto più intensi ch’io non credeva,
e poco meno che il giorno innanzi, gli stessi affetti, i
quali avendo cominciato a descrivere in versi ieri notte
vegliando, continuai per tutto ieri, e ho terminato questa
mattina stando in letto. Ieri sera e questa notte c’ho
dormito men che pochissimo, mi sono accorto che quella
immagine per l’addietro vivissima, specialmente del volto,
mi s’andava a poco a poco dileguando, con mio sommo
cordoglio, e richiamandola io con grandissimo sforzo,
anche perché avrei voluto finire quei versi de’ quali era
molto contento, prima d’uscire del caldo della malinconia.
Avanti d’addormentarmi ho previsto con gran dispiacere che
il sonno non sarebbe stato così torbido come le notti
passate, e così è successo, ed ora tutti quegli affetti
sono debolissimi, prima per la solita forza del tempo,
massimamente in me, poi perché il comporre con grandissima
avidità quei versi, oltre che m’ha e riconciliato un poco
colla gloria, e sfruttatomi il cuore, l’avere poi con ogni
industria ad ogni poco incitati e richiamati quegli
affetti e quelle immagini, ha fatto che questi non essendo
più così spontanei si sieno infievoliti. Ma perché essi mi
vadano abbandonando, non me ne scema il voto del cuore,
anzi più tosto mi cresce, ed io resto inclinato alla
malinconia, amico del silenzio e della meditazione; e
alieno dai piaceri che tutti mi paiono più vili assai di
quello c’ho perduto. E insomma io mi studio di rattenere
quanto posso quei moti cari e dolorosi che se ne fuggono:
per li quali mi pare che i pensieri mi si sieno più tosto
ingranditi, e l’animo fatto alquanto più alto e nobile
dell’usato, e il cuore più aperto alle passioni. Non però
in nessun modo all’amore (se non solamente verso il suo
oggetto), che il fastidio d’ogni altra bellezza umana è,
posso dire, dei moti descritti di sopra quello che più
vivo e saldo mi si mantiene nella mente. E una delle
cagioni di ciò (oltre l’essere ora il cuor mio troppo
signoreggiato da un sembiante), come anche di tutta questa
mia crisi, è, come poi pensando m’è parso di poter
affermare, l’impero che, se non fallo, per natura mia,
hanno e debbono avere nella mia vita sopra di me due cose.
Prima i lineamenti forti (purché sieno misti col delicato
e grazioso e non virili), gli occhi e capelli neri, la
vivacità del volto, la persona grande: e però io aveva già
prima d’ora con molta incertezza osservato che le facce
languide e verginali e del tutto delicate, capelli o
biondi o chiari, statura bassa, maniere smorte, e così
discorrendo, mi faceano molto poca forza, e forse forse
qualche volta niuna, quando queste qualità davano in
eccesso, e per avventura in altri facevano più gran presa.
Secondo, le maniere graziose e benigne ma niente
affettate, e soprattutto nessun torcimento notabile,
nessun moto troppo lezioso, nessunissima smorfia, insomma,
come di sopra ho detto, le maniere pesaresi, che hanno
anche quanto alla grazia e alla vivacità modesta un altro
non so che ch’io non posso esprimere; e per questo e per
la disinvoltura e fuga dell’affettazione (almeno in quella
di cui scrivo), vantaggiano a cento doppi le marchegiane;
le quali ora conosco essere molto più affettate e
smorfiose e meno leggiadre. Per queste due cagioni, il
guardare o pensare ad altro aspetto (poiché io non vedo
né, posso dire, ho veduto altro che marchegiane) mi par
che m’intorbidi e imbruttisca la vaghezza dell’idea che ho
in mente, di maniera che lo schivo a tutto potere.
Il Martedì 16 Decembre 1817.
Ieri dopo liberatomi dal peso dei versi, quegli affetti
non mi parvero né così deboli né così vicini a lasciarmi
come m’erano paruti la mattina, in ispecie quella dolorosa
ricordanza spesso accompagnata da quell’incerto scontento
e dispiacere o dubbio di non aver forse goduto
bastantemente, che fu il primo sintoma della mia malattia,
e che ancor dura, e quasi non so vedere come mi possa
passare, eccetto che per la natural forza del tempo non è
così intenso come da principio, ma né anche così
indebolito come si potrebbe credere e come io credeva che
sarebbe stato. Ieri sera la continua malinconia di tre
giorni, la spessa e lunga tensione del cervello, tre notti
non dormite, l’inquietudine, il mangiar meno del solito,
m’aveano alquanto indebolito, e istupiditami la testa;
nondimeno io era e sono contento di questo stato di
malinconia uguale uguale, e di meditazione, vedendomi
anche l’animo più alto, e non curante delle cose mondane e
delle opinioni e dei disprezzi altrui, e il cuore più
sensitivo molle e poetico. Questa notte per la prima volta
son tornato al sonno così lungo com’è d’ordinario, e ho
sognato della solita passione, ma per poco nel fine, e
senza turbamento. Oggi durano appresso a poco gl’istessi
pensieri e sentimenti di ieri e di ieri sera, la stessa
svogliatezza al cibo e ad ogni diletto, in particolare
alla lettura, e massime di cose d’amore, perché come io
non posso vedere bellezze umane reali, così né anche
descritte, e mi fa stomaco il racconto degli affetti
altrui. In genere questa svogliatezza a ogni cosa e
specialmente allo studio, mi pare così radicata in me, che
io non so vedere come ne uscirò, non facendo con piacere
altra lettura che quella de’ miei versi su questo
argomento, e di queste righe. Alle ragioni del presente
mio stato addotte di sopra mi pare che vada aggiunta
quella dell’essermi riuscite nuove ed insolite le maniere
della Signora, cioè le pesaresi (vedute da me di raro), se
bene non conversando io punto mai con donne, parrebbe che
anche le maniere marchegiane dovessero riuscirmi pressoché
nuove, e però da questa parte non ci fosse ragione perché
non m’avessero a fare l’istesso effetto. Nondimeno credo
che bisogni fare qualche caso anche di questa
osservazione, perché è naturale che la maggior novità mi
dovesse riuscire più grata, ed eccitarmi maggiormente
all’attenzione: e mi par poi che la speranza lo confermi.
Il Mercoledì 17 di Decembre.
La sera d’avanti ieri mi parve che il mio caro dolore
stesse veramente per licenziarsi, e così ieri mattina.
Tornavami l’appetito, passavami per la mente un pensiero
che avrei fatto bene a ripigliare lo studio, pareami
d’esser fatto meno restio al ridere e meno svogliato a
certi dilettucci della giornata, ricominciava a ragionare
tra me stesso così di questa come d’altre cose
tranquillamente come soglio, di maniera che io con molto
dispiacere n’argomentava che presto sarei tornato come
prima. I sogni di ieri notte due o tre volte mi
mentovarono il solito oggetto, ma per pochissimo e
placidamente. Ieri però quasi a un tratto, principalmente
per aver udito parlare della Signora, mi riprese l’usata
malinconia, e n’ebbi degli accessi così forti che quasi mi
parea d’esser tornato al principio della malattia. Lo
stesso turbamento di stomaco, nel sentir parole allegre,
lo stesso dolore, la stessa profonda e continua
meditazione, e quasi anche la stessa smania e lo stesso
affanno, le quali due cose in genere non mi parea d’aver
mai provate veramente fuori che la sera e notte del
Sabato, tutta la Domenica, e (ma già molto rintuzzate) la
prima parte del Lunedì. E in verità in questi ultimi
giorni non potendo più la malinconia per cagione del tempo
durare così calda ed intensa come ne’ primi, s’è risoluta
in parecchi accessi, ora più lunghi ed ora meno, ora più
ora meno forti, e talvolta così gagliardi che la cedono a
pochi di que’ primi. E in particolare mi dura quello
scontento, sul quale io riflettendo, m’è paruto
d’accorgermi ch’egli appartenga al tempo, cioè che io
avrei voluto giuocare più a lungo; non già che
propriamente mi paresse d’aver giuocato poco, o vero meno
ch’io non m’aspettava; né pure che mentre ch’io giuocava,
fossi contento, e non mi dolesse altro che il dover presto
lasciare; né manco finalmente che io giuocando più a lungo
e giuocando un mese e un anno, avessi potuto mai uscirne
pago, che m’accorgo bene ch’io non sarei stato mai altro
che scontentissimo; ma tuttavia mi pare che questo
scontento mi s’affacci alla mente con un colore d’avidità,
come se venisse da un desiderio di godere più a lungo, e
da una cieca ingordigia incontentabilissima, che nel tempo
del giuoco, quanto maggior diletto ci provava tanto più
m’affannava e m’angosciava, quasi che mi facesse fretta di
goder di quel bene che presto e troppo presto avrei
perduto. Già la sera del Lunedì quella vagheggiatissima
immagine del volto, forse per lo averla troppo avidamente
contemplata, m’era pressoché del tutto svanita di mente; e
quindi in poi con gran cordoglio posso dire di non averla
più veduta se non come un lampo alle volte e sbiadatissima,
e questo, mentre l’immagine del suo compagno ch’io non
ricerco per niente, mi si fa innanzi viva freschissima e
vegeta sempre ch’io me ne ricordo. Ogni sera, stando in
letto e vegliando a lungo, con ogni possibile industria,
m’adopero di richiamarmi alla mente la cara sembianza, la
quale probabilmente per questo appunto ch’io con tanto
studio la cerco, mi sfugge, ed io non arrivo a vederne
altro che i contorni, e ci affatico tanto il cervello che
alla fine mi addormento per forza colla testa annebbiata
infocata e dolente. Così m’accadde ieri sera, ma questa
mattina svegliatomi per tempissimo, in quel proprio punto
di svegliarmi, tra il sonno e la veglia spontaneamente m’è
passata m’è passata innanzi alla fantasia la desiderata
immagine vera e viva, onde io immediatamente riscosso e
spalancati gli occhi, subito le son corso dietro colla
mente, e se non sono in tutto riuscito a farla tornare
indietro, pure in quella freschezza di mente mattutina,
tanto ne ho veduto e osservato e dell’aria del volto, e
dei moti e dei gesti e del tratto e dei discorsi e della
pronunzia, che non m’abbia fatto maraviglia l’esserne
stato una volta preso, ho anzi considerato che se io
avessi quelle cose tuttora presenti alla fantasia, sarei
ben più smanioso e torbido ch’io non sono. Ora appresso a
poco io duro come ne’ giorni innanzi, parendomi che il
solo mio vero passatempo sia lo scrivere queste righe;
coll’animo voto o più tosto pieno di tedio (eccetto nel
caldo di quei pensieri), perché non trovo cosa che mi paia
degna d’occuparmi la mente né il corpo, e guardando come
il solo veramente desiderabile e degno di me quel diletto
che ho perduto, o almeno come maggiore di qualunque altro
ch’io mi potrei procacciare, ogni cosa che a quello non mi
conduce, mi par vana; e però lo studio (al quale pure di
quando in quando ritorno svogliatissimamente e per poco)
non m’adesca più, e non mi sa riempire il voto dell’animo,
perché il fine di questa fatica che è la gloria, non mi
par più quella gran cosa che mi pareva una volta, o certo
io ne veggo un’altra maggiore, e così la gloria divenuto
un bene secondario non mi par da tanto ch’io ci abbia da
spender dietro tutta la giornata, distogliendomi dal
pensare a quest’altro bene; oltrech’ella per avventura mi
pare una cosa più lontana, e questo in certa guisa più
vicino, forse perché nell’atto di leggere e di studiare
non s’acquista gloria, ma nell’atto di pensare a quest’altro
bene s’acquista quel doloroso piacere, che pure il cuor
mio giudica il più vero e sodo bene ch’io ora posso
cercare. Ed anche quando non penso a questo bene, non però
mi so risolvere di darmi allo studio, per quella ragione
ch’io ho detto, che mi par poco degno di me e poco
importante e perché insomma ho in testa un oggetto che più
mi preme, e o ci pensi o non ci pensi, sempre m’impedisce
ogni seria applicazione di mente a cosa ch’esso non sia. E
però non so vedere come ripiglierò l’antico amore allo
studio, perché mi pare che anche passata questa infermità
di mente, sempre mi dovrà restare il pensiero che c’è una
cosa più dilettosa che lo studio non è, e ch’io n’ho fatto
una volta lo sperimento
Il Venerdì 19 Decembre 1817.
Il tempo pigliò avanti ieri sera e tutto ieri gran
vantaggio sulla mia passione, la quale va adesso veramente
scadendo e mancando, né io ripugnava più tanto alla
lettura, anzi tra la passione e l’amore dello studio,
parea che quella a poco a poco scemando tuttavia di peso,
questo cominciasse a dare il crollo alla bilancia; e
ammansato l’animo mio e fatto men severo e nemico de’
piaceruzzi, e accostumatomi a quei pensieri e però non mi
facendo più quell’effetto, e potendogli assaporare senza
inquietudine e con meno diletto e più tranquillo, e
diradati e indeboliti gli accessi di malinconia;
l’appetito già dalla sera di Mercoledì cominciatosi a
raggiustare, tornavami al suo sesto, ed io quasi
ripigliava le costumanze di prima, se ben sempre mi pareva
e mi pare che qualche cosa mi manchi, e ch’io potrei star
meglio che non istò, e provare un certo diletto che non
provo. Ieri mattina svegliatomi, e pensando al solito
oggetto, in sul riaddormentarmi m’apparve la desiderata e
cercata immagine più viva assai che il giorno prima, anzi
così spirante ch’io subito la sentii parlare appuntino
come quella persona suole, e come la memoria mia stanca e
spremuta non mi sapea né mi sa ricordare: che passati quei
pochi minuti ch’io vidi e contemplai e godetti palpitando
quella sembianza, con ogni immaginabile studio
riconducendola ne’ luoghi ne’ quali avea già veduto
l’oggetto reale, e particolarmente nel giuoco; quel
fantasma secondo l’usato sparì, né più mi s’è lasciato
vedere se non dilavato e smortissimo. E quando così smorto
mi si presenta, per l’essermici io avvezzato, come ho
detto, non mi turba più gran cosa; e in oltre anche quando
è veramente chiaro e spiccato, m’affanna alquanto meno che
ne’ primi giorni e pare che la mente più tosto che di
tenergli dietro, ami di ricoverarsi in qualche altro suo
pensiero gradito (per lo più degli studi), tra perché ci
s’affatica meno, e perché ormai inclina meglio alla calma
che alla tempesta. A ogni modo io sento ancora e tutto
ieri sentii l’impero di quella dolorosa e scontenta
ricordanza ch’è il fondamento e l’anima delle mie
malinconie, né par che per ora mi voglia lasciare,
contuttoché sia meno amara e meno viva, e mi s’affacci
alla mente più di rado, e ci resti meno a lungo. E più
debole è quando sorge spontaneamente, imperocché piglia
più forza, e mi s’interna maggiormente nell’animo, e
arriva anche a turbarmi quando è svegliata da qualche
oggetto di fuori, com’è il sentir parlare di quella
persona, e il giuocare che mi bisogna far tutte le sere: e
in ispecie ieri sera giuocando e ricordandomi bene ch’era
l’ottava di quel fatal giorno, presemi gagliardamente quel
tristo pensiero, tanto ch’io n’alzai gli occhi verso
quella parte dove era stata la Signora per guardarla, com’avea
fatto in quel turbolento giuocare, quasich’ella ancora ci
fosse. E durando il cuor mio più sensitivo assai
dell’ordinario, e sempre sulle mosse, e voglioso di
slanciarsi, non è dubbio che la musica, s’io ne sentissi
in questi giorni, mi farebbe dare in ismanie e in furori e
ch’io n’impazzirei dagli affetti; e l’argomento così dal
ristretto incredibile potere della musica sopra di me,
come dalle spinte che mi davano al cuore certi vilissimi
canterellacci uditi a caso in questo tempo. Nei sogni di
questa notte ho veduto il doloroso oggetto più a lungo che
i giorni innanzi, e con qualche inquietudine da vantaggio,
ma così sformato e guasto che la ricordanza del sogno non
m’ha punto mosso dopo svegliato
La Domenica 21 Decembre 1817.
Chiudo oggi queste ciarle che ho fatte con me stesso per
isfogo del cuor mio, e perché mi servissero a conoscere me
medesimo e le passioni; ma quando non voglio più farne,
perché non si sa quando io mi risolverei a finire, e
oramai poco potendo dire di nuovo, mi pare ch’io ci
perderei il tempo, del quale io soglio far caso, ed è bene
che torni a servirmene giacché la passione al tutto non me
l’impedisce. La quale già si va dileguando, in tanto ch’io
nelle mie occupazioni ricomincio ad amar l’ordine, quando
ne’ giorni addietro non lo curava e più tosto l’odiava, e
m’adatto al ridere, e al pensare di proposito ad altre
cose, e allo studiare; eccetto che l’amor dello studio
provo di racconciarlo colla passione, proponendo così in
aria di scrivere qualche cosa dov’io possa ragionare con
quella Signora, o introdurla a favellare; e immaginandomi
di potere forse una volta divenuto qualche cosa di grande
nelle lettere, farmele innanzi in maniera da esserne
accolto con piacere e stima. E di questi stessi pensieri
mi sono di quando in quando pasciuto anche ne’ dì passati.
Io dunque ripiglio il consueto tenore di vita, perché la
passione languente non mi sa più riempiere la giornata; e
langue la passione per difetto d’alimento, essendo stata
proprio in sul nascere immediatamente strozzata dalla
partenza del suo oggetto; laonde finora non s’è nutrita
d’altro che di ricordanza e d’immagini, delle quali
immagini, come ho detto, la fantasia mi s’è da più giorni
impoverita: che certo s’io fossi in luogo dove potessi a
mio talento praticare colla Signora, o anche solamente
vederla di quando in quando, la passione non che ora
languisse, menerebbe gran fiamma, e sarebbe veramente
incominciata per me una fila di giorni smaniosissimi e
infelici, com’io me ne posso avvedere considerando il
tremito e l’inquietudine che mi muove il rappresentarmi un
po’ vivamente al pensiero le forme e gli atti della
Signora, il che oramai, come ho notato, di rarissimo e per
pochissimo mi vien fatto. E così ora la passione sarebbe
più vigorosa che non è, se dopo nata avesse avuto spazio
di crescere alquanto e di pigliar piede nutrendosi d’altro
che di rimembranza; ma di ciò fare non ebbe, come ho
raccontato, altro spazio che una mezza sera. Contuttociò
ella, nonostanteché langua come un lume a cui l’olio vada
mancando, pur tuttavia dura e durerà fors’anche lungo
tempo, sempre languendo e facendo vista di spegnersi, e
tratto tratto mandando qualche favilluzza, come nelle ore
di più ozio e soprattutto di malinconia, ch’io credo che
l’animo mio dovrà per molto spazio risentire a ogni altra
sua malattia questa piaghetta rimasa mezzo saldata. Ora di
questo lungo solco che la passione partendo mi lascerà nel
cuore, e che principalmente consisterà in un certo
indistinto desiderio, e scontento delle cose presenti, o
in accessi più o meno lunghi e risentiti della solita
lamentevole e tenera ricordanza che in particolare mi sarà
destata dagli oggetti esterni (come quelli che ieri
specificai), non intendo di scriver più altro, bastandomi
d’aver tenuto dietro agli affetti miei sino al vederli
languire, ed esser chiaro del modo nel quale si
spegneranno. E quando saranno spenti, caso che io riveda
(come penso che rivedrò, e al presente lo desidero) quel
fatale oggetto, mi rendo quasi certo che riarderanno
violentissimamente; e così non dubito che se una volta mi
sarà facile, purch’io voglia, di portarmi da me stesso a
rivederlo, e molto più se l’occasione me ne verrà, io
tremando e sudando freddo, e biasimando altamente me
stesso, e dandomi del pazzo, e compassionandomi, senza
però dubitare correrò a quel temuto diletto: salvo se la
lunghezza del tempo, e più l’aver conversato con altre
donne, e conceputo e provato altri affetti, e veduto più
mondo, e incontrato più casi che non m’avessero affatto
sradicata dal cuore questa passione: la qual certo se
finora con tanto poco alimento s’è sostenuta, e se più
oltre benché debole si sosterrà, è forza che in gran parte
lo riconosca dall’oziosità e dall’eterna medesimezza del
mio vivere senza nessuno svagamento né diletto
massimamente nuovo. E così da quello che ne’ dì passati ho
scritto, si fa bastevolmente chiaro ch’ella è nata
dall’aver io inespertissimo giuocato e conversato alquanto
famigliarmente con una persona d’aspetto più tosto bello,
e di forme e di maniere fatte pel cuor mio, ancorché
questa seconda cagione è veramente secondaria, perch’io fo
conto che questa mia inesperienza, un altro bel volto,
parlando e praticando nella stessa guisa con me, m’avrebbe
similmente preso,anche con tutt’altri ati e sembianze. E
ho detto ch’io mi riprenderei di qualunque azione che mi
dovesse o risuscitare o rinfrancare questa passione nel
cuore, non già perch’io di essa mi vergogni punto; che
s’al mondo ci fu mai affetto veramente puro e platonico,
ed eccessivamente e stranissimamente schivo d’ogni
menomissima ombra d’immondezza, il mio senz’altro è stato
tale ed è, e assolutamente per natura sua, non per cura
ch’io ci abbia messa, immantinente s’attrista e con
grandissimo orrore si rannicchia per qualunque sospetto di
bruttura; ma per la infelicità ch’ella partorisce;
imperocché, posto che una certa nebbietta di malinconia
affettuosa, come quella ch’io negli ultimi giorni ho
provata, non sia discara, e anche diletti senza turbarci
più che tanto, non così altri può dire di quella
sollecitudine e di quel desiderio e di quello
scontentamento e di quella smania e di quell’angoscia che
vanno col forte della passione, e ci fanno s’alcuna cosa
mai tribolati, e miseri. Ed io di questa miseria ho avuto
un saggio nella prima sera e ne’ primi due giorni della
mia malatia, ne’ quali al presente giudico di avere in
fatti propriamente ed intimamente sentito l’amore: e quali
sieno stati i sintomi e le proprietà e in somma il
carattere di questo primo amor mio, si dichiara in quelle
carte ch’io scrissi nel maggior caldo degli affetti; se
non che ci puoi aggiugnere un manifesto desiderio di
trovare nel mio volto qualcosa che potesse pur piacere: ma
questo desiderio non l’ebbi nel primo giorno, nel quale
anzi avvertentemente sfuggiva la vista e il pensiero della
immagine mia, non altrimenti che facessi delle facce
altrui. Del resto tanto è lungi ch’io mi vergogni della
mia passione, che anzi sino al punto ch’ella nacque,
sempre me ne sono compiaciuto meco stesso, e me ne
compiaccio, rallegrandomi di sentire qualcheduno di quegli
affetti senza i quali non si può esser grande, e di
sapermi affliggere vivamente per altro che per cose
appartenenti al corpo, e d’essermi per prova chiarito che
il cuor mio è soprammodo tenero e sensitivo, e forse una
volta mi farà fare e scrivere qualche cosa che la memoria
n’abbia a durare, o almeno la mia coscienza a goderne,
molto più che l’animo mio era ne’ passati giorni, come ho
detto, disdegnosissimo delle cose basse, e vago tra
dilicatissimi e sublimi, ignoti ai più degli uomini. Non
negherò dunque di avere in questo tempo con ogni cura
aiutati e coltivati gli affetti miei miei, né che una
parte del dispiacere ch’io provava vedendogli a
infievolire non dal gusto e dal desiderio ch’io avea di
sentire e di amare. Ma sempre sincerissimamente detestando
ogni ombra di romanzeria, non credo d’aver sentito affetto
né moto altro che spontaneo, e non ho in queste carte
scritta cosa che non abbia effettivissimamente e
spontaneamente sentita: né ho pur mai voluto in questi
giorni leggere niente d’amoroso, perché, come ho notato,
gli affetti altrui mi stomacavano, ancorché non ci fosse
punto d’affettazione; manco il Petrarca, comeché credessi
che ci avrei trovato sentimenti somigliantissimi ai miei.
Ed anche ora appena con grande stento e ritrosia m’induco
a lasciar cadere gli occhi sopra qualche cosa di questo
genere, quando me ne capita l’occasione. Ed io so molto
bene di parecchi altri effetti che l’amore o talvolta o
anche d’ordinario fa; ma perché in me non gli ha fatti, né
io gli ho descritti, nonostanteché forse qualche volta
n’abbia avuto qualche sentore, ma così dubbio o piccolo
che non n’ho voluto far caso.
Il Lunedì e il Martedì 22 e 23 di
decembre 1817
Non avendo per l’addietro fatto parola né dato indizio
della mia passione a chicchessia, la manifestai a mio
fratello Carlo, fattigli leggere i versi e queste carte,
ai 29 di Decembre, durandomi nell’animo, come ancora mi
durano oggi 2 di Gennaio 1818, le vestigia evidentissime
degli affetti passati, ai quali non manca per ridar su
altro che l’occasione.
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