Un
Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e
soggiornato in diversissime terre; andando una volta per
l'interiore dell'Affrica, e passando sotto la linea equinoziale
in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso
simile a quello che intervenne a Vasco di Gama nel passare il
Capo di Buona speranza; quando il medesimo Capo, guardiano dei
mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante, per
distorlo dal tentare quelle nuove acque. Vide da lontano un
busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di
pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui,
molti anni prima, nell'isola di Pasqua. Ma fattosi più da
vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in
terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una
montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e
terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo
fissamente; e stata così un buono spazio senza parlare,
all'ultimo gli disse.
Natura:
Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era
incognita?
Islandese:
Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala
quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra,
la fuggo adesso per questa.
Natura:
Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli
cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi.
Islandese:
La Natura?
Natura:
Non altri.
Islandese:
Me ne dispiace fino all'anima; e tengo per fermo che maggior
disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere.
Natura:
Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste
parti; dove non ignori che si dimostra più che altrove la mia
potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi?
Islandese:
Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche
esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e
della stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente
gli uni cogli altri per l'acquisto di piaceri che non dilettano,
e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi
scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che
affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano dalla
felicità, quanto più la cercano. Per queste considerazioni,
deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a
chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio
stato, non contendendo con altri per nessun bene del mondo,
vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri,
come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra
cura che di tenermi lontano dai patimenti. Con che non intendo
dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle
fatiche corporali: che ben sai che differenza e dalla fatica al
disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso. E già nel primo
mettere in opera questa risoluzione, conobbi per prova come egli
e vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non
offendendo alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano; e
cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo in
ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e
che questo menomo non ti sia contrastato. Ma dalla molestia
degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro
società, e riducendomi in solitudine: cosa che nell'isola mia
nativa si può recare ad effetto senza difficoltà. Fatto questo,
e vivendo senza quasi verun'immagine di piacere, io non poteva
mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno,
l'intensità del freddo, e l'ardore estremo della state, che sono
qualità di quel luogo, mi travagliavano di continuo; e il fuoco,
presso al quale mi conveniva passare una gran parte del tempo,
m'inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di modo
che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un
perpetuo disagio. Né anche potea conservare quella tranquillità
della vita, alla quale principalmente erano rivolti i miei
pensieri: perché le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i
ruggiti e le minacce del monte Ecla, il sospetto degl'incendi,
frequentissimi negli alberghi, come sono i nostri, fatti di
legno, non intermettevano mai di turbarmi. Tutte le quali
incomodità in una vita sempre conforme a se medesima, e
spogliata di qualunque altro desiderio e speranza, e quasi di
ogni altra cura, che d'esser quieta; riescono di non poco
momento, e molto più gravi che elle non sogliono apparire quando
la maggior parte dell'animo nostro è occupata dai pensieri della
vita civile, e dalle avversità che provengono dagli uomini. Per
tanto veduto che più che io mi ristringeva e quasi mi contraeva
in me stesso, a fine d'impedire che l'esser mio non desse noia
né danno a cosa alcuna del mondo; meno mi veniva fatto che le
altre cose non m'inquietassero e tribolassero; mi posi a cangiar
luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della terra
potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non
patire. E a questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero
che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano
se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a ciascuno
degli altri generi degli animali, e di quei delle piante), e
certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero
prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da dover essere
imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando eglino
avessero disprezzati e trapassati i termini che fossero
prescritti per le tue leggi alle abitazioni umane. Quasi tutto
il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi;
sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle
altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la
sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo
fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei
climi temperati dall'incostanza dell'aria, infestato dalle
commozioni degli elementi in ogni dove. Più luoghi ho veduto,
nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che
tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata a
quegli abitanti, non rei verso te di nessun'ingiuria. In altri
luoghi la serenità ordinaria del cielo è compensata dalla
frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei
vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese. Venti e
turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni
tranquille dagli altri furori dell'aria. Tal volta io mi ho
sentito crollare il tetto in sul capo pel gran carico della
neve, tal altra, per l'abbondanza delle piogge la stessa terra,
fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi
è bisognato fuggire a tutta lena dai fiumi, che m'inseguivano,
come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria. Molte
bestie salvatiche, non provocate da me con una menoma offesa, mi
hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi
luoghi è mancato poco che gl'insetti volanti non mi abbiano
consumato infino alle ossa. Lascio i pericoli giornalieri,
sempre imminenti all'uomo, e infiniti di numero; tanto che un
filosofo antico non trova contro al timore, altro rimedio più
valevole della considerazione che ogni cosa è da temere. Né le
infermità mi hanno perdonato; con tutto che io fossi, come sono
ancora, non dico temperante, ma continente dei piaceri del
corpo. Io soglio prendere non piccola ammirazione considerando
che tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del
piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò
che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e da altra
parte abbi ordinato che l'uso di esso piacere sia quasi di tutte
le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo,
la più calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona,
e la più contraria alla durabilità della stessa vita. Ma in
qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni
diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e
diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo
della morte; altre di perdere l'uso di qualche membro, o di
condurre perpetuamente una vita più misera che la passata; e
tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo e l'animo
con mille stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno di noi
sperimenti nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi o
disusati, e infelicità maggiore che egli non suole (come se la
vita umana non fosse bastevolmente misera per l'ordinario); tu
non hai dato all'uomo, per compensarnelo, alcuni tempi di sanità
soprabbondante e inusitata, la quale gli sia cagione di qualche
diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne' paesi
coperti per lo più di nevi, io sono stato per accecare: come
interviene ordinariamente ai Lapponi nella loro patria. Dal sole
e dall'aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra vita, e
però da non potersi fuggire, siamo ingiuriati di continuo: da
questa colla umidità, colla rigidezza, e con altre disposizioni;
da quello col calore, e colla stessa luce: tanto che l'uomo non
può mai senza qualche maggiore o minore incomodità o danno,
starsene esposto all'una o all'altro di loro. In fine, io non mi
ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche
pena; laddove io non posso numerare quelli che ho consumati
senza pure un'ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è
destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto
impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il
vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu
sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di
tutte le opere tue; che ora c'insidii ora ci minacci ora ci
assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o
ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto,
sei carnefice della tua propria famiglia, de' tuoi figliuoli e,
per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto
rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini
finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con
volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna
cagione, non lasci mai d'incalzarci, finché ci opprimi. E già mi
veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e
manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e
questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a
tutti i generi de' viventi, preveduto da ciascuno di noi fino
nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto
suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere senza
sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è
assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione,
tutto il rimanente allo scadere, e agl'incomodi che ne seguono.
Natura:
Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra?
Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni
mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro
che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi
offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo,
se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o
vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi,
quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o
giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere
tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.
Islandese:
Ponghiamo caso che uno m'invitasse spontaneamente a una
sua villa, con grande instanza; e io per compiacerlo vi andassi.
Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e
rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso;
umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si
prendesse cura d'intrattenermi in alcun passatempo o di darmi
alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse
somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi
lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da'
suoi figliuoli e dall'altra famiglia. Se querelandomi io seco di
questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io
questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e
questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare
che de' tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; a questo
replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa
villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma
poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si
appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere,
ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico
ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli
uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato
espressamente per tormentarli. Ora domando: t'ho io forse
pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso
violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e
senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né
ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non
è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in
questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e
straziato, e che l'abitarvi non mi noccia? E questo che dico di
me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali
e di ogni creatura.
Natura:
Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest'universo è
un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate
ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente
all'altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che
cessasse o l'una o l'altra di loro, verrebbe parimente in
dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in
lui cosa alcuna libera da patimento.
Islandese:
Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché
quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e
a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun
filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita
infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di
tutte le cose che lo compongono? Mentre stavano in questi e
simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così
rifiniti e maceri dall'inedia, che appena ebbero forza di
mangiarsi quell'Islandese; come fecero; e presone un poco di
ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che
negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi
mentre che l'Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli
edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui
diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi
ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so
quale città di Europa. |