Fisico:
Eureca, eureca .
Metafisico:
Che è? che hai trovato?
Fisico:
L'arte di vivere lungamente .
Metafisico:
E cotesto libro che porti?
Fisico:
Qui la dichiaro: e per questa invenzione, se gli altri vivranno
lungo tempo, io vivrò per lo meno in eterno; voglio dire che ne
acquisterò gloria immortale.
Metafisico:
Fa una cosa a mio modo. Trova una cassettina di piombo, chiudivi
cotesto libro, sotterrala, e prima di morire ricordati di lasciar
detto il luogo, acciocché vi si possa andare, e cavare il libro,
quando sarà trovata l'arte di vivere felicemente.
Fisico:
E in questo mezzo?
Metafisico:
In questo mezzo non sarà buono da nulla. Più lo stimerei se
contenesse l'arte di viver poco.
Fisico:
Cotesta è già saputa da un pezzo; e non fu difficile a trovarla.
Metafisico:
In ogni modo la stimo più della tua.
Fisico:
Perché?
Metafisico:
Perché se la vita non è felice, che
fino a ora non è stata, meglio ci torna averla breve che lunga.
Fisico:
Oh cotesto no: perché la vita è
bene da se medesima, e ciascuno la desidera e l'ama naturalmente.
Metafisico:
Così credono gli uomini; ma
s'ingannano: come il volgo s'inganna pensando che i colori sieno
qualità degli oggetti; quando non sono degli oggetti, ma della luce.
Dico che l'uomo non desidera e non ama se non la felicità propria.
Però non ama la vita, se non in quanto la reputa instrumento o
subbietto di essa felicità. In modo che propriamente viene ad amare
questa e non quella, ancorché spessissimo attribuisca all'una
l'amore che porta all'altra. Vero è che questo inganno e quello dei
colori sono tutti e due naturali. Ma che l'amore della vita negli
uomini non sia naturale, o vogliamo dire non sia necessario, vedi
che moltissimi ai tempi antichi elessero di morire potendo vivere, e
moltissimi ai tempi nostri desiderano la morte in diversi casi, e
alcuni si uccidono di propria mano. Cose che non potrebbero essere
se l'amore della vita per se medesimo fosse natura dell'uomo. Come
essendo natura di ogni vivente l'amore della propria felicità, prima
cadrebbe il mondo, che alcuno di loro lasciasse di amarla e di
procurarla a suo modo. Che poi la vita sia bene per se medesima,
aspetto che tu me lo provi, con ragioni o fisiche o metafisiche o di
qualunque disciplina. Per me, dico che la vita felice, saria bene
senza fallo; ma come felice, non come vita. La vita infelice, in
quanto all'essere infelice, è male; e atteso che la natura, almeno
quella degli uomini, porta che vita e infelicità non si possono
scompagnare, discorri tu medesimo quello che ne segua.
Fisico:
Di grazia, lasciamo cotesta materia, che è troppo malinconica; e
senza tante sottigliezze, rispondimi sinceramente: se l'uomo vivesse
e potesse vivere in eterno; dico senza morire, e non dopo morto;
credi tu che non gli piacesse?
Metafisico:
A un presupposto favoloso risponderò con qualche favola:
tanto più che non sono mai vissuto in eterno, sicché non posso
rispondere per esperienza; né anche ho parlato con alcuno che fosse
immortale; e fuori che nelle favole, non trovo notizia di persone di
tal sorta. Se fosse qui presente il Cagliostro, forse ci potrebbe
dare un poco di lume; essendo vissuto parecchi secoli: se bene,
perché poi morì come gli altri, non pare che fosse immortale. Dirò
dunque che il saggio Chirone, che era dio, coll'andar del tempo si
annoiò della vita, pigliò licenza da Giove di poter morire, e morì .
Or pensa, se l'immortalità rincresce agli Dei, che farebbe agli
uomini. Gl'Iperborei, popolo incognito, ma famoso; ai quali non si
può penetrare, né per terra né per acqua; ricchi di ogni bene; e
specialmente di bellissimi asini, dei quali sogliono fare ecatombe;
potendo, se io non m'inganno, essere immortali; perché non hanno
infermità né fatiche né guerre né discordie né carestie né vizi né
colpe; contuttociò muoiono tutti: perché, in capo a mille anni di
vita o circa, sazi della terra, saltano spontaneamente da una certa
rupe in mare, e vi si annegano. Aggiungi quest'altra favola. Bitone
e Cleobi fratelli, un giorno di festa, che non erano in pronto le
mule, essendo sottentrati al carro della madre, sacerdotessa di
Giunone, e condottala al tempio; quella supplicò la dea che
rimunerasse la pietà de' figliuoli col maggior bene che possa cadere
negli uomini. Giunone, in vece di farli immortali, come avrebbe
potuto; e allora si costumava; fece che l'uno e l'altro pian piano
se ne morirono in quella medesima ora. Il simile toccò ad Agamede e
a Trofonio. Finito il tempio di Delfo, fecero instanza ad Apollo che
li pagasse: il quale rispose volerli soddisfare fra sette giorni; in
questo mezzo attendessero a far gozzoviglia a loro spese. La settima
notte, mandò loro un dolce sonno, dal quale ancora s'hanno a
svegliare; e avuta questa, non dimandarono altra paga. Ma poiché
siamo in sulle favole, eccotene un'altra, intorno alla quale ti vo'
proporre una questione. Io so che oggi i vostri pari tengono per
sentenza certa, che la vita umana, in qualunque paese abitato, e
sotto qualunque cielo, dura naturalmente, eccetto piccole
differenze, una medesima quantità di tempo, considerando ciascun
popolo in grosso. Ma qualche buono antico racconta che gli uomini di
alcune parti dell'India e dell'Etiopia non campano oltre a quarant'anni;
chi muore in questa età, muor vecchissimo; e le fanciulle di sette
anni sono di età da marito. Il quale ultimo capo sappiamo che,
appresso a poco, si verifica nella Guinea, nel Decan e in altri
luoghi sottoposti alla zona torrida. Dunque, presupponendo per vero
che si trovi una o più nazioni, gli uomini delle quali regolarmente
non passino i quarant'anni di vita; e ciò sia per natura, non, come
si è creduto degli Ottentotti, per altre cagioni; domando se in
rispetto a questo, ti pare che i detti popoli debbano essere più
miseri o più felici degli altri?
Fisico:
Più miseri senza fallo, venendo a morte più presto.
Metafisico:
Io credo il contrario anche per
cotesta ragione. Ma qui non consiste il punto. Fa un poco di
avvertenza. Io negava che la pura vita, cioè a dire il semplice
sentimento dell'esser proprio, fosse cosa amabile e desiderabile per
natura. Ma quello che forse più degnamente ha nome altresì di vita,
voglio dire l'efficacia e la copia delle sensazioni, è naturalmente
amato e desiderato da tutti gli uomini: perché qualunque azione o
passione viva e forte, purché non ci sia rincrescevole o dolorosa,
col solo essere viva e forte, ci riesce grata, eziandio mancando di
ogni altra qualità dilettevole. Ora in quella specie d'uomini, la
vita dei quali si consumasse naturalmente in ispazio di quarant'anni,
cioè nella metà del tempo destinato dalla natura agli altri uomini;
essa vita in ciascheduna sua parte, sarebbe più viva il doppio di
questa nostra: perché, dovendo coloro crescere, e giungere a
perfezione, e similmente appassire e mancare, nella metà del tempo;
le operazioni vitali della loro natura, proporzionatamente a questa
celerità, sarebbero in ciascuno istante doppie di forza per rispetto
a quello che accade negli altri; ed anche le azioni volontarie di
questi tali, la mobilità e la vivacità estrinseca,
corrisponderebbero a questa maggiore efficacia. Di modo che essi
avrebbero in minore spazio di tempo la stessa quantità di vita che
abbiamo noi. La quale distribuendosi in minor numero d'anni
basterebbe a riempierli, o vi lascerebbe piccoli vani; laddove ella
non basta a uno spazio doppio: e gli atti e le sensazioni di coloro,
essendo più forti, e raccolte in un giro più stretto, sarebbero
quasi bastanti a occupare e a vivificare tutta la loro età; dove che
nella nostra, molto più lunga, restano spessissimi e grandi
intervalli, vòti di ogni azione e affezione viva. E poiché non il
semplice essere, ma il solo essere felice, è desiderabile; e la
buona o cattiva sorte di chicchessia non si misura dal numero dei
giorni; io conchiudo che la vita di quelle nazioni, che quanto più
breve, tanto sarebbe men povera di piacere, o di quello che è
chiamato con questo nome, si vorrebbe anteporre alla vita nostra, ed
anche a quella dei primi re dell'Assiria, dell'Egitto, della Cina,
dell'India, e d'altri paesi; che vissero, per tornare alle favole,
migliaia d'anni. Perciò, non solo io non mi curo dell'immortalità, e
sono contento di lasciarla a' pesci; ai quali la dona il Leeuwenhoek,
purché non sieno mangiati dagli uomini o dalle balene; ma, in cambio
di ritardare o interrompere la vegetazione del nostro corpo per
allungare la vita, come propone il Maupertuis, io vorrei che la
potessimo accelerare in modo, che la vita nostra si riducesse alla
misura di quella di alcuni insetti, chiamati efimeri, dei quali si
dice che i più vecchi non passano l'età di un giorno, e contuttociò
muoiono bisavoli e trisavoli. Nel qual caso, io stimo che non ci
rimarrebbe luogo alla noia. Che pensi di questo ragionamento?
Fisico:
Penso che non mi persuade; e che se
tu ami la metafisica, io m'attengo alla fisica: voglio dire che se
tu guardi pel sottile, io guardo alla grossa, e me ne contento. Però
senza metter mano al microscopio, giudico che la vita sia più bella
della morte, e do il pomo a quella, guardandole tutte due vestite.
Metafisico:
Così giudico anch'io. Ma quando mi torna a mente il costume di quei
barbari, che per ciascun giorno infelice della loro vita, gittavano
in un turcasso una pietruzza nera, e per ogni dì felice, una bianca
; penso quanto poco numero delle bianche è verisimile che fosse
trovato in quelle faretre alla morte di ciascheduno, e quanto gran
moltitudine delle nere. E desidero vedermi davanti tutte le
pietruzze dei giorni che mi rimangono; e, sceverandole, aver facoltà
di gittar via tutte le nere, e detrarle dalla mia vita; riserbandomi
solo le bianche: quantunque io sappia bene che non farebbero gran
cumulo, e sarebbero di un bianco torbido.
Fisico:
Molti, per lo contrario, quando anche tutti i sassolini
fossero neri, e più neri del paragone; vorrebbero potervene
aggiungere, benché dello stesso colore: perché tengono per fermo che
niun sassolino sia così nero come l'ultimo. E questi tali, del cui
numero sono anch'io, potranno aggiungere in effetto molti sassolini
alla loro vita, usando l'arte che si mostra in questo mio libro.
Metafisico:
Ciascuno pensi ed operi a suo talento: e anche la morte non
mancherà di fare a suo modo. Ma se tu vuoi, prolungando la vita,
giovare agli uomini veramente; trova un'arte per la quale sieno
moltiplicate di numero e di gagliardia le sensazioni e le azioni
loro. Nel qual modo, accrescerai propriamente la vita umana, ed
empiendo quegli smisurati intervalli di tempo nei quali il nostro
essere è piuttosto durare che vivere, ti potrai dar vanto di
prolungarla. E ciò senza andare in cerca dell'impossibile, o usar
violenza alla natura, anzi secondandola. Non pare a te che gli
antichi vivessero più di noi, dato ancora che, per li pericoli gravi
e continui che solevano correre, morissero comunemente più presto? E
farai grandissimo beneficio agli uomini: la cui vita fu sempre, non
dirò felice, ma tanto meno infelice, quanto più fortemente agitata,
e in maggior parte occupata, senza dolore né disagio. Ma piena
d'ozio e di tedio, che è quanto dire vacua, dà luogo a creder vera
quella sentenza di Pirrone, che dalla vita alla morte non e divario.
Il che se io credessi, ti giuro che la morte mi spaventerebbe non
poco. Ma in fine, la vita debb'esser viva, cioè vera vita; o la
morte la supera incomparabilmente di pregio.
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