Affermano alcuni maestri e scrittori
ebrei, che tra il cielo e la terra, o vogliamo dire mezzo
nell'uno e mezzo nell'altra, vive un certo gallo salvatico;
il quale sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla
cresta e col becco il cielo . Questo gallo gigante, oltre
a varie particolarità che di lui si possono leggere negli
autori predetti, ha uso di ragione; o certo, come un
pappagallo, è stato ammaestrato, non so da chi, a
profferir parole a guisa degli uomini: perocché si è
trovato in una cartapecora antica, scritto in lettera
ebraica, e in lingua tra caldea, targumica, rabbinica,
cabalistica e talmudica, un cantico intitolato, Scir
detarnegòl bara letzafra, cioè Cantico mattutino del gallo
silvestre: il quale, non senza fatica grande, né senza
interrogare più d'un rabbino, cabalista, teologo,
giurisconsulto e filosofo ebreo, sono venuto a capo
d'intendere, e di ridurre in volgare come qui appresso si
vede. Non ho potuto per ancora ritrarre se questo Cantico
si ripeta dal gallo di tempo in tempo, ovvero tutte le
mattine; o fosse cantato una volta sola; e chi l'oda
cantare, o chi l'abbia udito; e se la detta lingua sia
proprio la lingua del gallo, o che il Cantico vi fosse
recato da qualche altra. Quanto si è al volgarizzamento
infrascritto; per farlo più fedele che si potesse (del che
mi sono anche sforzato in ogni altro modo), mi è paruto di
usare la prosa piuttosto che il verso, se bene in cosa
poetica. Lo stile interrotto, e forse qualche volta
gonfio, non mi dovrà essere imputato; essendo conforme a
quello del testo originale: il qual testo corrisponde in
questa parte all'uso delle lingue, e massime dei poeti,
d'oriente.
Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in
sulla terra e partonsene le immagini vane. Sorgete;
ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo
falso nel vero.
Ciascuno in questo tempo raccoglie e ricorre coll'animo
tutti i pensieri della sua vita presente; richiama alla
memoria i disegni, gli studi e i negozi; si propone i
diletti e gli affanni che gli sieno per intervenire nello
spazio del giorno nuovo. E ciascuno in questo tempo è più
desideroso che mai, di ritrovar pure nella sua mente
aspettative gioconde, e pensieri dolci. Ma pochi sono
soddisfatti di questo desiderio: a tutti il risvegliarsi è
danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle
mani dell'infelicità sua. Dolcissima cosa è quel sonno, a
conciliare il quale concorse o letizia o speranza. L'una e
l'altra insino alla vigilia del dì seguente, conservasi
intera e salva; ma in questa, o manca o declina.
Se il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa
medesima colla vita; se sotto l'astro diurno, languendo
per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non
apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati,
né strepito di fiere per le foreste, né canto di uccelli
per l'aria, né susurro d'api o di farfalle scorresse per
la campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle
acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcuna
banda; certo l'universo sarebbe inutile; ma forse che vi
si troverebbe o copia minore di felicità, o più di
miseria, che oggi non vi si trova? Io dimando a te, o
sole, autore del giorno e preside della vigilia: nello
spazio dei secoli da te distinti e consumati fin qui
sorgendo e cadendo, vedesti tu alcuna volta un solo infra
i viventi essere beato? Delle opere innumerabili dei
mortali da te vedute finora, pensi tu che pur una
ottenesse l'intento suo, che fu la soddisfazione, o
durevole o transitoria, di quella creatura che la
produsse? Anzi vedi tu di presente o vedesti mai la
felicità dentro ai confini del mondo? in qual campo
soggiorna, in qual bosco, in qual montagna, in qual valle,
in qual paese abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti
che le tue fiamme illustrano e scaldano? Forse si nasconde
dal tuo cospetto, e siede nell'imo delle spelonche, o nel
profondo della terra o del mare? Qual cosa animata ne
partecipa; qual pianta o che altro che tu vivifichi; qual
creatura provveduta o sfornita di virtù vegetative o
animali? E tu medesimo, tu che quasi un gigante
instancabile, velocemente, dì e notte, senza sonno né
requie, corri lo smisurato cammino che ti è prescritto;
sei tu beato o infelice?
Mortali, destatevi. Non siete ancora liberi dalla vita.
Verrà tempo, che niuna forza di fuori, niuno intrinseco
movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno; ma in
quella sempre e insaziabilmente riposerete. Per ora non vi
è concessa la morte: solo di tratto in tratto vi è
consentita per qualche spazio di tempo una somiglianza di
quella. Perocché la vita non si potrebbe conservare se
ella non fosse interrotta frequentemente. Troppo lungo
difetto di questo sonno breve e caduco, è male per sé
mortifero, e cagione di sonno eterno. Tal cosa è la vita,
che a portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola,
ripigliare un poco di lena, e ristorarsi con un gusto e
quasi una particella di morte.
Pare che l'essere delle cose abbia per suo proprio ed
unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non
era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono. Certo
l'ultima causa dell'essere non è la felicità; perocché
niuna cosa è felice. Vero e che le creature animate si
propongono questo fine in ciascuna opera loro; ma da niuna
l'ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi,
adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per
altro, e non si affaticano, se non per giungere a questo
solo intento della natura, che è la morte.
A ogni modo, il primo tempo del giorno suol essere ai
viventi il più comportabile. Pochi in sullo svegliarsi
ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma
quasi tutti se ne producono e formano di presente:
perocché gli animi in quell'ora, eziandio senza materia
alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla
giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla
pazienza dei mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto
dal sonno, trovavasi occupato dalla disperazione;
destandosi, accetta novamente nell'animo la speranza,
quantunque ella in niun modo se gli convenga. Molti
infortuni e travagli propri, molte cause di timore e di
affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non
parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dì
passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in riso
come effetto di errori, e d'immaginazioni vane. La sera è
comparabile alla vecchiaia; per lo contrario, il principio
del mattino somiglia alla giovanezza: questo per lo più
racconsolato e confidente; la sera trista, scoraggiata e
inchinevole a sperar male. Ma come la gioventù della vita
intera, così quella che i mortali provano in ciascun
giorno, è brevissima e fuggitiva; e prestamente anche il
dì si riduce per loro in età provetta.
Il fior degli anni, se bene e il meglio della vita, è cosa
pur misera. Non per tanto, anche questo povero bene manca
in sì piccolo tempo, che quando il vivente a più segni si
avvede della declinazione del proprio essere, appena ne ha
sperimentato la perfezione, né potuto sentire e conoscere
pienamente le sue proprie forze, che già scemano. In
qualunque genere di creature mortali, la massima parte del
vivere è un appassire. Tanto in ogni opera sua la natura e
intenta e indirizzata alla morte: poiché non per altra
cagione la vecchiezza prevale sì manifestamente, e di sì
gran lunga, nella vita e nel mondo. Ogni parte
dell'universo si affretta infaticabilmente alla morte, con
sollecitudine e celerità mirabile. Solo l'universo
medesimo apparisce immune dallo scadere e languire:
perocché se nell'autunno e nel verno si dimostra quasi
infermo e vecchio, nondimeno sempre alla stagione nuova
ringiovanisce. Ma siccome i mortali, se bene in sul primo
tempo di ciascun giorno racquistano alcuna parte di
giovanezza, pure invecchiano tutto dì, e finalmente si
estinguono; così l'universo, benché nel principio degli
anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia.
Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà
spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi
umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in
altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente
del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità
delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un
silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo
spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso
dell'esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né
inteso, si dileguerà e perderassi.
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