L'anno ottocento trentatremila
dugento settantacinque del regno di Giove, il collegio
delle Muse diede fuora in istampa, e fece appiccare nei
luoghi pubblici della città e dei borghi d'Ipernéfelo,
diverse cedole, nelle quali invitava tutti gli Dei
maggiori e minori, e gli altri abitanti della detta città,
che recentemente o in antico avessero fatto qualche
lodevole invenzione, a proporla, o effettualmente o in
figura o per iscritto, ad alcuni giudici deputati da esso
collegio. E scusandosi che per la sua nota povertà non si
poteva dimostrare così liberale come avrebbe voluto,
prometteva in premio a quello il cui ritrovamento fosse
giudicato più bello o più fruttuoso, una corona di lauro,
con privilegio di poterla portare in capo il dì e la
notte, privatamente e pubblicamente, in città e fuori; e
poter essere dipinto, scolpito, inciso, gittato, figurato
in qualunque modo e materia, col segno di quella corona
dintorno al capo.
Concorsero a questo premio non pochi dei celesti per
passatempo; cosa non meno necessaria agli abitatori d'Ipernéfelo,
che a quelli di altre città; senza alcun desiderio di
quella corona; la quale in sé non valeva il pregio di una
berretta di stoppa; e in quanto alla gloria, se gli
uomini, da poi che sono fatti filosofi, la disprezzano, si
può congetturare che stima ne facciano gli Dei, tanto più
sapienti degli uomini, anzi soli sapienti secondo Pitagora
e Platone. Per tanto, con esempio unico e fino allora
inaudito in simili casi di ricompense proposte ai più
meritevoli, fu aggiudicato questo premio, senza intervento
di sollecitazioni né di favori né di promesse occulte né
di artifizi: e tre furono gli anteposti: cioè Bacco per
l'invenzione del vino; Minerva per quella dell'olio,
necessario alle unzioni delle quali gli Dei fanno
quotidianamente uso dopo il bagno; e Vulcano per aver
trovato una pentola di rame, detta economica, che serve a
cuocere che che sia con piccolo fuoco e speditamente.
Così, dovendosi fare il premio in tre parti, restava a
ciascuno un ramuscello di lauro: ma tutti e tre ricusarono
così la parte come il tutto; perché Vulcano allegò che
stando il più del tempo al fuoco della fucina con gran
fatica e sudore, gli sarebbe importunissimo quell'ingombro
alla fronte; oltre che lo porrebbe in pericolo di essere
abbrustolato o riarso, se per avventura qualche scintilla
appigliandosi a quelle fronde secche, vi mettesse il
fuoco. Minerva disse che avendo a sostenere in sul capo un
elmo bastante, come scrive Omero, a coprirsene tutti
insieme gli eserciti di cento città, non le conveniva
aumentarsi questo peso in alcun modo. Bacco non volle
mutare la sua mitra, e la sua corona di pampini, con
quella di lauro: benché l'avrebbe accettata volentieri se
gli fosse stato lecito di metterla per insegna fuori della
sua taverna; ma le Muse non consentirono di dargliela per
questo effetto: di modo che ella si rimase nel loro comune
erario.
Niuno dei competitori di questo premio ebbe invidia ai tre
Dei che l'avevano conseguito e rifiutato, né si dolse dei
giudici, né biasimò la sentenza; salvo solamente uno, che
fu Prometeo, venuto a parte del concorso con mandarvi il
modello di terra che aveva fatto e adoperato a formare i
primi uomini, aggiuntavi una scrittura che dichiarava le
qualità e gli uffici del genere umano, stato trovato da
esso. Muove non poca maraviglia il rincrescimento
dimostrato da Prometeo in caso tale, che da tutti gli
altri, sì vinti come vincitori, era preso in giuoco:
perciò investigandone la cagione, si è conosciuto che
quegli desiderava efficacemente, non già l'onore, ma bene
il privilegio che gli sarebbe pervenuto colla vittoria.
Alcuni pensano che intendesse di prevalersi del lauro per
difesa del capo contro alle tempeste; secondo si narra di
Tiberio, che sempre che udiva tonare, si ponea la corona;
stimandosi che l'alloro non sia percosso dai fulmini. Ma
nella città d'Ipernéfelo non cade fulmine e non tuona.
Altri più probabilmente affermano che Prometeo, per
difetto degli anni, comincia a gittare i capelli; la quale
sventura sopportando, come accade a molti, di malissima
voglia, e non avendo letto le lodi della calvizie scritte
da Sinesio, o non essendone persuaso, che e più credibile,
voleva sotto il diadema nascondere, come Cesare dittatore,
la nudità del capo.
Ma per tornare al fatto, un giorno tra gli altri
ragionando Prometeo con Momo, si querelava aspramente che
il vino, l'olio e le pentole fossero stati anteposti al
genere umano, il quale diceva essere la migliore opera
degl'immortali che apparisse nel mondo. E parendogli non
persuaderlo bastantemente a Momo, il quale adduceva non so
che ragioni in contrario, gli propose di scendere tutti e
due congiuntamente verso la terra, e posarsi a caso nel
primo luogo che in ciascuna delle cinque parti di quella
scoprissero abitato dagli uomini; fatta prima
reciprocamente questa scommessa: se in tutti cinque i
luoghi, o nei più di loro, troverebbero o no manifesti
argomenti che l'uomo sia la più perfetta creatura
dell'universo Il che accettato da Momo, e convenuti del
prezzo della scommessa, incominciarono senza indugio a
scendere verso la terra; indirizzandosi primieramente al
nuovo mondo; come quello che pel nome stesso, e per non
avervi posto piede insino allora niuno degl'immortali,
stimolava maggiormente la curiosità. Fermarono il volo nel
paese di Popaian, dal lato settentrionale, poco lungi dal
fiume Cauca, in un luogo dove apparivano molti segni di
abitazione umana: vestigi di cultura per la campagna;
parecchi sentieri, ancorché tronchi in molti luoghi, e
nella maggior parte ingombri; alberi tagliati e distesi; e
particolarmente alcune che parevano sepolture, e qualche
ossa d'uomini di tratto in tratto. Ma non perciò poterono
i due celesti, porgendo gli orecchi, e distendendo la
vista per ogn'intorno, udire una voce né scoprire un'ombra
d'uomo vivo. Andarono, parte camminando parte volando, per
ispazio di molte miglia; passando monti e fiumi; e
trovando da per tutto i medesimi segni e la medesima
solitudine. Come sono ora deserti questi paesi, diceva
Momo a Prometeo, che mostrano pure evidentemente di essere
stati abitati? Prometeo ricordava le inondazioni del mare,
i tremuoti, i temporali, le piogge strabocchevoli, che
sapeva essere ordinarie nelle regioni calde: e veramente
in quel medesimo tempo udivano, da tutte le boscaglie
vicine, i rami degli alberi che, agitati dall'aria,
stillavano continuamente acqua. Se non che Momo non sapeva
comprendere come potesse quella parte essere sottoposta
alle inondazioni del mare, così lontano di là, che non
appariva da alcun lato; e meno intendeva per qual destino
i tremuoti, i temporali e le piogge avessero avuto a
disfare tutti gli uomini del paese, perdonando agli
sciaguari, alle scimmie, a' formichieri, a' cerigoni, alle
aquile, a' pappagalli, e a cento altre qualità di animali
terrestri e volatili, che andavano per quei dintorni. In
fine, scendendo a una valle immensa, scoprirono, come a
dire, un piccolo mucchio di case o capanne di legno,
coperte di foglie di palma, e circondata ognuna da un
chiuso a maniera di steccato: dinanzi a una delle quali
stavano molte persone, parte in piedi, parte sedute,
dintorno a un vaso di terra posto a un gran fuoco. Si
accostarono i due celesti, presa forma umana; e Prometeo,
salutati tutti cortesemente, volgendosi a uno che
accennava di essere il principale, interrogollo: che si
fa?
Selvaggio: Si mangia, come
vedi.
Prometeo: Che buone vivande
avete?
Selvaggio: Questo poco di
carne.
Prometeo: Carne domestica o
salvatica?
Selvaggio: Domestica, anzi
del mio figliuolo.
Prometeo: Hai tu per
figliuolo un vitello, come ebbe Pasifae?
Selvaggio: Non un vitello ma
un uomo, come ebbero tutti gli altri.
Prometeo: Dici tu da senno?
mangi tu la tua carne propria?
Selvaggio: La mia propria no,
ma ben quella di costui che per questo solo uso io l'ho
messo al mondo, e preso cura di nutrirlo.
Prometeo: Per uso di
mangiartelo?
Selvaggio: Che maraviglia? E
la madre ancora, che già non debbe esser buona da fare
altri figliuoli, penso di mangiarla presto.
Momo: Come si mangia la
gallina dopo mangiate le uova.
Selvaggio: E l'altre donne
che io tengo, come sieno fatte inutili a partorire, le
mangerò similmente. E questi miei schiavi che vedete,
forse che li terrei vivi, se non fosse per avere di quando
in quando de' loro figliuoli, e mangiarli? Ma invecchiati
che saranno, io me li mangerò anche loro a uno a uno, se
io campo.
Prometeo: Dimmi: cotesti
schiavi sono della tua nazione medesima, o di qualche
altra?
Selvaggio: D'un'altra.
Prometeo: Molto lontana di
qua?
Selvaggio: Lontanissima:
tanto che tra le loro case e le nostre, ci correva un
rigagnolo. E additando un collicello, soggiunse: ecco là
il sito dov'ella era; ma i nostri l'hanno distrutta . In
questo parve a Prometeo che non so quanti di coloro lo
stessero mirando con una cotal guardatura amorevole, come
è quella che fa il gatto al topo: sicché, per non essere
mangiato dalle sue proprie fatture, si levò subito a volo;
e seco similmente Momo: e fil tanto il timore che ebbero
l'uno e l'altro, che nel partirsi, corruppero i cibi dei
barbari con quella sorta d'immondizia che le arpie
sgorgarono per invidia sulle mense troiane. Ma coloro, più
famelici e meno schivi de' compagni di Enea, seguitarono
il loro pasto; e Prometeo, malissimo soddisfatto del mondo
nuovo, si volse incontanente al più vecchio, voglio dire
all'Asia: e trascorso quasi in un subito l'intervallo che
è tra le nuove e le antiche Indie, scesero ambedue presso
ad Agra in un campo pieno d'infinito popolo, adunato
intorno a una fossa colma di legne: sull'orlo della quale,
da un lato, si vedevano alcuni con torchi accesi, in
procinto di porle il fuoco; e da altro lato, sopra un
palco, una donna giovane, coperta di vesti suntuosissime,
e di ogni qualità di ornamenti barbarici, la quale
danzando e vociferando, faceva segno di grandissima
allegrezza. Prometeo vedendo questo, immaginava seco
stesso una nuova Lucrezia o nuova Virginia, o qualche
emulatrice delle figliuole di Eretteo, delle Ifigenie, de'
Codri, de' Menecei, dei Curzi e dei Deci, che seguitando
la fede di qualche oracolo, s'immolasse volontariamente
per la sua patria. Intendendo poi che la cagione del
sacrificio della donna era la morte del marito, pensò che
quella, poco dissimile da Alceste, volesse col prezzo di
se medesima, ricomperare lo spirito di colui. Ma saputo
che ella non s'induceva ad abbruciarsi se non perché
questo si usava di fare dalle donne vedove della sua
setta, e che aveva sempre portato odio al marito, e che
era ubbriaca, e che il morto, in cambio di risuscitare,
aveva a essere arso in quel medesimo fuoco; voltato subito
il dosso a quello spettacolo, prese la via dell'Europa;
dove intanto che andavano, ebbe col suo compagno questo
colloquio.
Momo: Avresti tu pensato
quando rubavi con tuo grandissimo pericolo il fuoco dal
cielo per comunicarlo agli uomini, che questi se ne
prevarrebbero, quali per cuocersi l'un l'altro nelle
pignatte, quali per abbruciarsi spontaneamente?
Prometeo: No per certo. Ma
considera, caro Momo, che quelli che fino a ora abbiamo
veduto, sono barbari: e dai barbari non si dee far
giudizio della natura degli uomini; ma bene
dagl'inciviliti: ai quali andiamo al presente: e ho ferma
opinione che tra loro vedremo e udremo cose e parole che
ti parranno degne, non solamente di lode, ma di stupore.
Momo: Io per me non veggo, se
gli uomini sono il più perfetto genere dell'universo, come
faccia di bisogno che sieno inciviliti perché non si
abbrucino da se stessi, e non mangino i figliuoli propri:
quando che gli altri animali sono tutti barbari, e ciò non
ostante, nessuno si abbrucia a bello studio, fuorché la
fenice, che non si trova; rarissimi si mangiano alcun loro
simile; e molto più rari si cibano dei loro figliuoli, per
qualche accidente insolito, e non per averli generati a
quest'uso. Avverti eziandio, che delle cinque parti del
mondo una sola, né tutta intera, e questa non paragonabile
per grandezza a veruna delle altre quattro, è dotata della
civiltà che tu lodi; aggiunte alcune piccole porzioncelle
di un'altra parte del mondo. E già tu medesimo non vorrai
dire che questa civiltà sia compiuta, in modo che oggidì
gli uomini di Parigi o di Filadelfia abbiano generalmente
tutta la perfezione che può convenire alla loro specie.
Ora, per condursi al presente stato di civiltà non ancora
perfetta, quanto tempo hanno dovuto penare questi tali
popoli? Tanti anni quanti si possono numerare dall'origine
dell'uomo insino ai tempi prossimi. E quasi tutte le
invenzioni che erano o di maggiore necessità o di maggior
profitto al conseguimento dello stato civile, hanno avuto
origine, non da ragione, ma da casi fortuiti: di modo che
la civiltà umana è opera della sorte più che della natura:
e dove questi tali casi non sono occorsi, veggiamo che i
popoli sono ancora barbari; con tutto che abbiano
altrettanta età quanta i popoli civili. Dico io dunque: se
l'uomo barbaro mostra di essere inferiore per molti capi a
qualunque altro animale; se la civiltà, che è l'opposto
della barbarie, non è posseduta né anche oggi se non da
una piccola parte del genere umano; se oltre di ciò,
questa parte non è potuta altrimenti pervenire al presente
stato civile, se non dopo una quantità innumerabile di
secoli, e per beneficio massimamente del caso, piuttosto
che di alcun'altra cagione; all'ultimo, se il detto stato
civile non è per anche perfetto; considera un poco se
forse la tua sentenza circa il genere umano fosse più vera
acconciandola in questa forma: cioè dicendo che esso è
veramente sommo tra i generi, come tu pensi; ma sommo
nell'imperfezione, piuttosto che nella perfezione;
quantunque gli uomini nel parlare e nel giudicare,
scambino continuamente l'una coll'altra; argomentando da
certi cotali presupposti che si hanno fatto essi, e
tengonli per verità palpabili. Certo che gli altri generi
di creature fino nel principio furono perfettissimi
ciascheduno in se stesso. E quando eziandio non fosse
chiaro che l'uomo barbaro, considerato in rispetto agli
altri animali, è meno buono di tutti; io non mi persuado
che l'essere naturalmente imperfettissimo nel proprio
genere, come pare che sia l'uomo, s'abbia a tenere in
conto di perfezione maggiore di tutte l'altre. Aggiungi
che la civiltà umana, così difficile da ottenere, e forse
impossibile da ridurre a compimento, non è anco stabile in
modo, che ella non possa cadere: come in effetto si trova
essere avvenuto più volte, e in diversi popoli, che ne
avevano acquistato una buona parte. In somma io conchiudo
che se tuo fratello Epimeteo recava ai giudici il modello
che debbe avere adoperato quando formò il primo asino o la
prima rana, forse ne riportava il premio che tu non hai
conseguito. Pure a ogni modo io ti concederò volentieri
che l'uomo sia perfettissimo, se tu ti risolvi a dire che
la sua perfezione si rassomigli a quella che si attribuiva
da Plotino al mondo: il quale, diceva Plotino, è ottimo e
perfetto assolutamente; ma perché il mondo sia perfetto,
conviene che egli abbia in sé, tra le altre cose, anco
tutti i mali possibili; però in fatti si trova in lui
tanto male, quanto vi può capire. E in questo rispetto
forse io concederei similmente al Leibnizio che il mondo
presente fosse il migliore di tutti i mondi possibili. Non
si dubita che Prometeo non avesse a ordine una risposta in
forma distinta, precisa e dialettica a tutte queste
ragioni; ma è parimente certo che non la diede: perché in
questo medesimo punto si trovarono sopra alla città di
Londra: dove scesi, e veduto gran moltitudine di gente
concorrere alla porta di una casa privata, messisi tra la
folla, entrarono nella casa; e trovarono sopra un letto un
uomo disteso supino, che avea nella ritta una pistola;
ferito nel petto, e morto; e accanto a lui giacere due
fanciullini, medesimamente morti. Erano nella stanza
parecchie persone della casa, e alcuni giudici, i quali le
interrogavano, mentre che un officiale scriveva.
Prometeo: Chi sono questi
sciagurati?
Un famiglio: Il mio padrone e
i figliuoli.
Prometeo: Chi gli ha uccisi?
Famiglio: Il padrone tutti e
tre.
Prometeo: Tu vuoi dire i
figliuoli e se stesso?
Famiglio: Appunto.
Prometeo: Oh che è mai
cotesto! Qualche grandissima sventura gli doveva essere
accaduta.
Famiglio: Nessuna, che io
sappia.
Prometeo: Ma forse era
povero, o disprezzato da tutti, o sfortunato in amore, o
in corte?
Famiglio: Anzi ricchissimo, e
credo che tutti lo stimassero; di amore non se ne curava,
e in corte aveva molto favore.
Prometeo: Dunque come e
caduto in questa disperazione?
Famiglio: Per tedio della
vita, secondo che ha lasciato scritto.
Prometeo: E questi giudici
che fanno?
Famiglio: S'informano se il
padrone era impazzito o no: che in caso non fosse
impazzito, la sua roba ricade al pubblico per legge: e in
verità non si potrà fare che non ricada.
Prometeo: Ma, dimmi, non
aveva nessun amico o parente, a cui potesse raccomandare
questi fanciullini, in cambio d'ammazzarli?
Famiglio: Sì aveva; e tra gli
altri, uno che gli era molto intrinseco, al quale ha
raccomandato il suo cane. Momo stava per congratularsi con
Prometeo sopra i buoni effetti della civiltà, e sopra la
contentezza che appariva ne risultasse alla nostra vita; e
voleva anche rammemorargli che nessun altro animale fuori
dell'uomo, si uccide volontariamente esso medesimo, né
spegne per disperazione della vita i figliuoli: ma
Prometeo lo prevenne; e senza curarsi di vedere le due
parti del mondo che rimanevano, gli pagò la scommessa
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