Filippo
Ottonieri, del quale prendo a scrivere alcuni ragionamenti
notabili, che parte ho uditi dalla sua propria bocca,
parte narrati da altri; nacque, e visse il più del tempo,
a Nubiana, nella provincia di Valdivento; dove anche morì
poco addietro; e dove non si ha memoria d'alcuno che fosse
ingiuriato da lui, né con fatti né con parole. Fu odiato
comunemente da' suoi cittadini; perché parve prendere poco
piacere di molte cose che sogliono essere amate e cercate
assai dalla maggior parte degli uomini; benché non facesse
alcun segno di avere in poca stima o di riprovare quelli
che più di lui se ne dilettavano e le seguivano. Si crede
che egli fosse in effetto, e non solo nei pensieri, ma
nella pratica, quel che gli altri uomini del suo tempo
facevano professione di essere; cioè a dire filosofo.
Perciò parve singolare dall'altra gente; benché non
procurasse e non affettasse di apparire diverso dalla
moltitudine in cosa alcuna. Nel quale proposito diceva,
che la massima singolarità che oggi si possa trovare o nei
costumi, o negl'instituti, o nei fatti di qualunque
persona civile; paragonata a quella degli uomini che
appresso agli antichi furono stimati singolari, non solo e
di altro genere, ma tanto meno diversa che non fu quella,
dall'uso ordinario de' contemporanei, che quantunque paia
grandissima ai presenti, sarebbe riuscita agli antichi o
menoma o nulla, eziandio ne' tempi e nei popoli che furono
anticamente più inciviliti o più corrotti. E misurando la
singolarità di Gian Giacomo Rousseau, che parve
singolarissimo ai nostri avi, con quella di Democrito e
dei primi filosofi cinici, soggiungeva, che oggi chiunque
vivesse tanto diversamente da noi quanto vissero quei
filosofi dai Greci del loro tempo, non sarebbe avuto per
uomo singolare, ma nella opinione pubblica, sarebbe
escluso, per dir così, dalla specie umana. E giudicava che
dalla misura assoluta della singolarità possibile a
trovarsi nelle persone di un luogo o di un tempo
qualsivoglia, si possa conoscere la misura della civiltà
degli uomini del medesimo luogo o tempo.
Nella vita, quantunque temperatissimo, si professava
epicureo, forse per ischerzo più che da senno. Ma
condannava Epicuro; dicendo che ai tempi e nella nazione
di colui, molto maggior diletto si poteva trarre dagli
studi della virtù e della gloria, che dall'ozio, dalla
negligenza, e dall'uso delle voluttà del corpo; nelle
quali cose quegli riponeva il sommo bene degli uomini. Ed
affermava che la dottrina epicurea, proporzionatissima
all'età moderna, fu del tutto aliena dall'antica.
Nella filosofia, godeva di chiamarsi socratico; e spesso,
come Socrate, s'intratteneva una buona parte del giorno
ragionando filosoficamente ora con uno ora con altro, e
massime con alcuni suoi familiari, sopra qualunque materia
gli era somministrata dall'occasione. Ma non frequentava,
come Socrate, le botteghe de' calzolai, de' legnaiuoli,
de' fabbri e degli altri simili; perché stimava che se i
fabbri e i legnaiuoli di Atene avevano tempo da spendere
in filosofare, quelli di Nubiana, se avessero fatto
altrettanto, sarebbero morti di fame. Né anche ragionava,
al modo di Socrate, interrogando e argomentando di
continuo; perché diceva che, quantunque i moderni sieno
più pazienti degli antichi, non si troverebbe oggi chi
sopportasse di rispondere a un migliaio di domande
continuate, e di ascoltare un centinaio di conclusioni. E
per verità non avea di Socrate altro che il parlare
talvolta ironico e dissimulato. E cercando l'origine della
famosa ironia socratica, diceva: Socrate nato con animo
assai gentile, e però con disposizione grandissima ad
amare; ma sciagurato oltre modo nella forma del corpo;
verisimilmente fino nella giovanezza disperò di potere
essere amato con altro amore che quello dell'amicizia,
poco atto a soddisfare un cuore delicato e fervido, che
spesso senta verso gli altri un affetto molto più dolce.
Da altra parte, con tutto che egli abbondasse di quel
coraggio che nasce dalla ragione, non pare che fosse
fornito bastantemente di quello che viene dalla natura, né
delle altre qualità che in quei tempi di guerre e di
sedizioni, e in quella tanta licenza degli Ateniesi, erano
necessarie a trattare nella sua patria i negozi pubblici.
Al che la sua forma ingrata e ridicola gli sarebbe anche
stata di non piccolo pregiudizio appresso a un popolo che,
eziandio nella lingua, faceva pochissima differenza dal
buono al bello, e oltre di ciò deditissimo a motteggiare.
Dunque in una città libera, e piena di strepito, di
passioni, di negozi, di passatempi, di ricchezze e di
altre fortune; Socrate povero, rifiutato dall'amore, poco
atto ai maneggi pubblici; e nondimeno dotato di un ingegno
grandissimo, che aggiunto a condizioni tali, doveva
accrescere fuor di modo ogni loro molestia; si pose per
ozio a ragionare sottilmente delle azioni, dei costumi e
delle qualità de' suoi cittadini: nel che gli venne usata
una certa ironia; come naturalmente doveva accadere a chi
si trovava impedito di aver parte, per dir così, nella
vita. Ma la mansuetudine e la magnanimità della sua
natura, ed anche la celebrità che egli si venne
guadagnando con questi medesimi ragionamenti, e dalla
quale dovette essergli consolato in qualche parte l'amor
proprio; fecero che questa ironia non fu sdegnosa ed
acerba, ma riposata e dolce.
Così la filosofia per la prima volta, secondo il famoso
detto di Cicerone, fatta scendere dal cielo, fu introdotta
da Socrate nelle città e nelle case; e rimossa dalla
speculazione delle cose occulte, nella quale era stata
occupata insino a quel tempo, fu rivolta a considerare i
costumi e la vita degli uomini, e a disputare delle virtù
e dei vizi, delle cose buone ed utili, e delle contrarie.
Ma Socrate da principio non ebbe in animo di fare quest'innovazione,
né d'insegnar che che sia, né di conseguire il nome di
filosofo; che a quei tempi era proprio dei soli fisici o
metafisici; onde egli per quelle sue tali discussioni e
quei tali colloqui non lo poteva sperare: anzi professò
apertamente di non saper cosa alcuna; e non si propose
altro che d'intrattenersi favellando dei casi altrui;
preferito questo passatempo alla filosofia stessa, niente
meno che a qualunque altra scienza ed a qualunque arte,
perché inclinando naturalmente alle azioni molto più che
alle speculazioni, non si volgeva al discorrere, se non
per le difficoltà che gl'impedivano l'operare. E nei
discorsi, sempre si esercitò colle persone giovani e belle
più volentieri che cogli altri; quasi ingannando il
desiderio, e compiacendosi d'essere stimato da coloro da
cui molto maggiormente avrebbe voluto essere amato. E
perciocché tutte le scuole dei filosofi greci nate da indi
in poi, derivarono in qualche modo dalla socratica,
concludeva l'Ottonieri, che l'origine di quasi tutta la
filosofia greca, dalla quale nacque la moderna, fu il naso
rincagnato, e il viso da satiro, di un uomo eccellente
d'ingegno e ardentissimo di cuore. Anche diceva, che nei
libri dei Socratici, la persona di Socrate è simile a
quelle maschere, ciascuna delle quali nelle nostre
commedie antiche, ha da per tutto un nome, un abito,
un'indole; ma nel rimanente varia in ciascuna commedia.
Non lasciò scritta cosa alcuna di filosofia, né d'altro
che non appartenesse a uso privato. E dimandandolo alcuni
perché non prendesse a filosofare anche in iscritto, come
soleva fare a voce, e non deponesse i suoi pensieri nelle
carte, rispose: il leggere è un conversare, che si fa con
chi scrisse. Ora, come nelle feste e nei sollazzi
pubblici, quelli che non sono o non credono di esser parte
dello spettacolo, prestissimo si annoiano; così nella
conversazione è più grato generalmente il parlare che
l'ascoltare. Ma i libri per necessità sono come quelle
persone che stando cogli altri, parlano sempre esse, e non
ascoltano mai. Per tanto è di bisogno che il libro dica
molto buone e belle cose, e dicale molto bene; acciocché
dai lettori gli sia perdonato quel parlar sempre.
Altrimenti è forza che così venga in odio qualunque libro,
come ogni parlatore insaziabile.
CAPITOLO SECONDO
Non
ammetteva distinzione dai negozi ai trastulli; e sempre
che era stato occupato in qualunque cosa, per grave che
ella fosse, diceva d'essersi trastullato. Solo se talvolta
era stato qualche poco d'ora senza occupazione, confessava
non avere avuto in quell'intervallo alcun passatempo.
Diceva che i diletti più veri che abbia la nostra vita,
sono quelli che nascono dalle immaginazioni false; e che i
fanciulli trovano il tutto anche nel niente, gli uomini il
niente nel tutto.
Assomigliava ciascuno de' piaceri chiamati comunemente
reali, a un carciofo di cui, volendo arrivare alla
castagna, bisognasse prima rodere e trangugiare tutte le
foglie. E soggiungeva che questi tali carciofi sono anche
rarissimi; che altri in gran numero se ne trovano, simili
a questi nel di fuori, ma dentro senza castagna; e che
esso, potendosi difficilmente adattare a ingoiarsi le
foglie, era contento per lo più di astenersi dagli uni e
dagli altri.
Rispondendo a uno che l'interrogò, qual fosse il peggior
momento della vita umana, disse: eccetto il tempo del
dolore, come eziandio del timore, io per me crederei che i
peggiori momenti fossero quelli del piacere: perché la
speranza e la rimembranza di questi momenti, le quali
occupano il resto della vita, sono cose migliori e più
dolci assai degli stessi diletti. E paragonava
universalmente i piaceri umani agli odori: perché
giudicava che questi sogliano lasciare maggior desiderio
di sé, che qualunque altra sensazione, parlando
proporzionatamente al diletto; e di tutti i sensi
dell'uomo, il più lontano da potere esser fatto pago dai
propri piaceri, stimava che fosse l'odorato. Anche
paragonava gli odori all'aspettativa de' beni; dicendo che
quelle cose odorifere che sono buone a mangiare, o a
gustare in qualunque modo, ordinariamente vincono coll'odore
il sapore; perché gustati piacciono meno ch'a odorarli, o
meno di quel che dall'odore si stimerebbe. E narrava che
talvolta gli era avvenuto di sopportare impazientemente
l'indugio di qualche bene, che egli era già certo di
conseguire; e ciò non per grande avidità che sentisse di
detto bene, ma per timore di scemarsene il godimento con
fare intorno a questo troppe immaginazioni, che glielo
rappresentassero molto maggiore di quello che egli sarebbe
riuscito. E che intanto aveva fatta ogni diligenza, per
divertire la mente dal pensiero di quel bene, come si fa
dai pensieri de' mali.
Diceva altresì che ognuno di noi, da che viene al mondo, è
come uno che si corica in un letto duro e disagiato: dove
subito posto, sentendosi stare incomodamente, comincia a
rivolgersi sull'uno e sull'altro fianco, e mutar luogo e
giacitura a ogni poco; e dura così tutta la notte, sempre
sperando di poter prendere alla fine un poco di sonno, e
alcune volte credendo essere in punto di addormentarsi;
finché venuta l'ora, senza essersi mai riposato, si leva.
Osservando insieme con alcuni altri certe api occupate
nelle loro faccende, disse: beate voi se non intendete la
vostra infelicità.
Non credeva che si potesse né contare tutte le miserie
degli uomini, né deplorarne una sola bastantemente.
A quella questione di Orazio, come avvenga che nessuno è
contento del proprio stato, rispondeva: la cagione è, che
nessuno stato è felice. Non meno i sudditi che i principi,
non meno i poveri che i ricchi, non meno i deboli che i
potenti, se fossero felici, sarebbero contentissimi della
loro sorte, e non avrebbero invidia all'altrui: perocché
gli uomini non sono più incontentabili, che sia qualunque
altro genere: ma non si possono appagare se non della
felicità. Ora, essendo sempre infelici, che maraviglia è
che non sieno mai contenti?
Notava che posto caso che uno si trovasse nel più felice
stato di questa terra, senza che egli si potesse
promettere di avanzarlo in nessuna parte e in nessuna
guisa; si può quasi dire che questi sarebbe il più misero
di tutti gli uomini. Anche i più vecchi hanno disegni e
speranze di migliorar condizione in qualche maniera. E
ricordava un luogo di Senofonte, dove consiglia che
avendosi a comperare un terreno, si compri di quelli che
sono male coltivati; perché, dice, un terreno che non è
per darti più frutto di quello che dà, non ti rallegra
tanto, quanto farebbe se tu lo vedessi andare di bene in
meglio; e tutti quegli averi che noi veggiamo che vengono
vantaggiando, ci danno molto più contento che gli altri.
All'incontro notava che niuno stato è così misero, il
quale non possa peggiorare; e che nessun mortale, per
infelicissimo che sia, può consolarsi né vantarsi, dicendo
essere in tanta infelicità, che ella non comporti
accrescimento. Ancorché la speranza non abbia termine, i
beni degli uomini sono terminati; anzi a un di presso il
ricco e il povero, il signore e il servo, se noi
compensiamo le qualità del loro stato colle assuefazioni e
coi desiderii loro, si trovano avere generalmente una
stessa quantità di bene. Ma la natura non ha posto alcun
termine ai nostri mali; e quasi la stessa immaginativa non
può fingere alcuna tanta calamità, che non si verifichi di
presente, o già non sia stata verificata, o per ultimo non
si possa verificare, in qualcuno della nostra specie. Per
tanto, laddove la maggior parte degli uomini non hanno in
verità che sperare alcuno aumento della quantità di bene
che posseggono; a niuno mai nello spazio di questa vita,
può mancar materia non vana di timore: e se la fortuna
presto si riduce in grado, che ella veramente non ha virtù
di beneficarci da vantaggio, non perde però in alcun tempo
la facoltà di offenderci con danni nuovi e tali da vincere
e rompere la stessa fermezza della disperazione.
Ridevasi spesse volte di quei filosofi che stimarono che
l'uomo si possa sottrarre dalla potestà della fortuna,
disprezzando e riputando come altrui tutti i beni e i mali
che non è in sua propria mano il conseguire o evitare, il
mantenere o liberarsene; e non riponendo la beatitudine e
l'infelicità propria in altro, che in quel che dipende
totalmente da esso lui. Sopra la quale opinione, tra le
altre cose, diceva: lasciamo stare che se anche fu mai
persona che cogli altri vivesse da vero e perfetto
filosofo, nessuno visse né vive in tal modo seco medesimo;
e che tanto è possibile non curarsi delle cose proprie più
che delle altrui, quanto curarsi delle altrui come fossero
proprie. Ma dato che quella disposizione d'animo che
dicono questi filosofi, non solo fosse possibile, che non
è, ma si trovasse qui vera ed attuale in uno di noi; vi
fosse anche più perfetta che essi non dicono, confermata e
connaturata da uso lunghissimo, sperimentata in mille
casi; forse perciò la beatitudine e l'infelicità di questo
tale, non sarebbero in potere della fortuna? Non
soggiacerebbe alla fortuna quella stessa disposizione
d'animo, che questi presumono che ce ne debba sottrarre?
La ragione dell'uomo non e sottoposta tutto giorno a
infiniti accidenti? innumerabili morbi che recano
stupidità, delirio, frenesia, furore, scempiaggine, cento
altri generi di pazzia breve o durevole, temporale o
perpetua; non la possono turbare, debilitare, stravolgere,
estinguere? La memoria, conservatrice della sapienza, non
si va sempre logorando e scemando dalla giovanezza in giù?
quanti nella vecchiaia tornano fanciulli di mente! e quasi
tutti perdono il vigore dello spirito in quella età. Come
eziandio per qualunque mala disposizione del corpo, anco
salva ed intera ogni facoltà dell'intelletto e della
memoria, il coraggio e la costanza sogliono, quando più,
quando meno, languire; e non di rado si spengono. In fine,
è grande stoltezza confessare che il nostro corpo è
soggetto alle cose che non sono in facoltà nostra, e
contuttociò negare che l'animo, il quale dipende dal corpo
quasi in tutto, soggiaccia necessariamente a cosa alcuna
fuori che a noi medesimi. E conchiudeva, che l'uomo tutto
intero, e sempre, e irrepugnabilmente, è in potestà della
fortuna.
Dimandato a che nascano gli uomini, rispose per ischerzo:
a conoscere quanto sia più spediente il non esser nato.
CAPITOLO TERZO
In
proposito di certa disavventura occorsagli, disse: il
perdere una persona amata, per via di qualche accidente
repentino, o per malattia breve e rapida, non è tanto
acerbo, quanto è vedersela distruggere a poco a poco (e
questo era accaduto a lui) da una infermità lunga, dalla
quale ella non sia prima estinta, che mutata di corpo e
d'animo, e ridotta già quasi un'altra da quella di prima.
Cosa pienissima di miseria: perocché in tal caso la
persona amata non ti si dilegua dinanzi lasciandoti, in
cambio di sé, la immagine che tu ne serbi nell'animo, non
meno amabile che fosse per lo passato; ma ti resta in
sugli occhi tutta diversa da quella che tu per l'addietro
amavi: in modo che tutti gl'inganni dell'amore ti sono
strappati violentemente dall'animo; e quando ella poi ti
si parte per sempre dalla presenza, quell'immagine prima,
che tu avevi di lei nel pensiero, si trova essere
scancellata dalla nuova. Così vieni a perdere la persona
amata interamente; come quella che non ti può sopravvivere
né anche nella immaginativa: la quale, in luogo di alcuna
consolazione, non ti porge altro che materia di tristezza.
E in fine, queste simili disavventure non lasciano luogo
alcuno di riposarsi in sul dolore che recano.
Dolendosi uno di non so qual travaglio, e dicendo: se
potessi liberarmi da questo, tutti gli altri che ho, mi
sarebbero leggerissimi a sopportare; rispose: anzi allora
ti sarebbero gravi, ora ti sono leggeri.
Dicendo un altro: se questo dolore fosse durato più, non
sarebbe stato sopportabile; rispose: anzi, per
l'assuefazione, l'avresti sopportato meglio.
E in molte cose attenenti alla natura degli uomini, si
discostava dai giudizi comuni della moltitudine, e da
quelli anco dei savi talvolta. Come, per modo di esempio,
negava che al dimandare e al pregare, sieno opportuni i
tempi di qualche insolita allegrezza di quelli a cui le
dimande o le preghiere sono da porgere. Massimamente,
diceva, quando la instanza non sia tale, che ella, per la
parte di chi è pregato o richiesto, si possa soddisfare
presentemente, con solo o poco più che un semplice
acconsentirla; io reputo che nelle persone il giubilo, sia
cosa, a impetrar che che sia da esse, non manco
inopportuna e contraria, che il dolore. Perciocché l'una e
l'altra passione riempiono parimente l'uomo del pensiero
di se medesimo in guisa, che non lasciano luogo a quelli
delle cose altrui. Come nel dolore il nostro male, così
nella grande allegrezza il bene, tengono intenti e
occupati gli animi, e inetti alla cura dei bisogni e
desiderii d'altri. Dalla compassione specialmente, sono
alienissimi l'uno e l'altro tempo; quello del dolore,
perché l'uomo è tutto volto alla pietà di se stesso;
quello della gioia, perché allora tutte le cose umane, e
tutta la vita, ci si rappresentano lietissime e
piacevolissime; tanto che le sventure e i travagli paiono
quasi immaginazioni vane, o certo se ne rifiuta il
pensiero, per essere troppo discorde dalla presente
disposizione del nostro animo. I migliori tempi da tentar
di ridurre alcuno a operar di presente, o a risolversi di
operare, in altrui beneficio, sono quelli di qualche
allegrezza placida e moderata, non istraordinaria, non
viva; o pure, ed anco maggiormente, quelli di una cotal
gioia, che, quantunque viva, non ha soggetto alcuno
determinato, ma nasce da pensieri vaghi, e consiste in una
tranquilla agitazione dello spirito. Nel quale stato, gli
uomini sono più disposti alla compassione che mai, più
facili a chi li prega, e talvolta abbracciano volentieri
l'occasione di gratificare gli altri, e di volgere quel
movimento confuso e quel piacevole impeto de' loro
pensieri, in qualche azione lodevole.
Negava similmente che l'infelice, narrando o come che sia
dimostrando i suoi mali, riporti per l'ordinario maggior
compassione e maggior cura da quelli che hanno con lui
maggiore conformità di travagli. Anzi questi in udire le
tue querele, o intendere la tua condizione in qualunque
modo, non attendono ad altro, che ad anteporre seco
stessi, come più gravi, i loro a' tuoi mali: e spesso
accade che, quando più ti pensi che sieno commossi sopra
il tuo stato, quelli t'interrompono narrandoti la sorte
loro, e sforzandosi di persuaderti che ella sia meno
tollerabile della tua. E diceva che in tali casi avviene
ordinariamente quello che nella Iliade si legge di
Achille, quando Priamo supplichevole e piangente gli e
prostrato ai piedi: il quale finito che ha quel suo
lamento miserabile, Achille si pone a piangere seco, non
già dei mali di quello, ma delle sventure proprie, e per
la ricordanza del padre, e dell'amico ucciso. Soggiungeva,
che ben suole alquanto conferire alla compassione l'avere
sperimentato altre volte in sé quegli stessi mali che si
odono o veggono essere in altri, ma non il sostenerli al
presente.
Diceva che la negligenza e l'inconsideratezza sono causa
di commettere infinite cose crudeli o malvage; e
spessissimo hanno apparenza di malvagità o crudeltà: come,
a cagione di esempio, in uno che trattenendosi fuori di
casa in qualche suo passatempo, lascia i servi in luogo
scoperto infracidare alla pioggia; non per animo duro e
spietato, ma non pensandovi, o non misurando colla mente
il loro disagio. E stimava che negli uomini
l'inconsideratezza sia molto più comune della malvagità,
della inumanità e simili; e da quella abbia origine un
numero assai maggiore di cattive opere: e che una
grandissima parte delle azioni e dei portamenti degli
uomini che si attribuiscono a qualche pessima qualità
morale, non sieno veramente altro che inconsiderati.
Disse in certa occasione, essere manco grave al
benefattore la piena ed espressa ingratitudine, che il
vedersi rimunerare di un beneficio grande con uno piccolo,
col quale il beneficato, o per grossezza di giudizio o per
malvagità, si creda o si pretenda sciolto dall'obbligo
verso lui; ed esso apparisca ricompensato, o per civiltà
gli convenga far dimostrazione di tenersi tale: in modo
che dall'una parte, venga ad essere defraudato anche della
nuda e infruttuosa gratitudine dell'animo, la quale
verisimilmente egli si aveva promessa in qualunque caso;
dall'altra parte, gli sia tolta la facoltà di liberamente
querelarsi dell'ingratitudine, o di apparire, siccome egli
è nell'effetto, male e ingiustamente corrisposto.
Ho udito anche riferire come sua, questa sentenza. Noi
siamo inclinati e soliti a presupporre in quelli coi quali
ci avviene di conversare, molta acutezza e maestria per
iscorgere i nostri pregi veri, o che noi c'immaginiamo, e
per conoscere la bellezza o qualunque altra virtù d'ogni
nostro detto o fatto; come ancora molta profondità, ed un
abito grande di meditare, e molta memoria, per considerare
esse virtù ed essi pregi, e tenerli poi sempre a mente:
eziandio che in rispetto ad ogni altra cosa, o non
iscopriamo in coloro queste tali parti, o non confessiamo
tra noi di scoprirvele.
CAPITOLO QUARTO
Notava
che talora gli uomini irresoluti sono perseverantissimi
nei loro propositi, non ostante qualunque difficoltà; e
questo per la stessa loro irresolutezza; atteso che a
lasciare la deliberazione fatta, converrebbe si
risolvessero un'altra volta. Talora sono prontissimi ed
efficacissimi nel mettere in opera quello che hanno
risoluto: perché temendo essi medesimi d'indursi di
momento in momento ad abbandonare il partito preso, e di
ritornare in quella travagliosissima perplessità e
sospensione d'animo, nella quale furono prima di
determinarsi; affrettano la esecuzione, e vi adoprano ogni
loro forza; stimolati più dall'ansietà e dall'incertezza
di vincere se medesimi, che dal proprio oggetto
dell'impresa, e dagli altri ostacoli che essi abbiano a
superare per conseguirlo.
Diceva alle volte ridendo, che le persone assuefatte a
comunicare di continuo cogli altri i propri pensieri e
sentimenti, esclamano, anco essendo sole, se una mosca le
morde, o che si versi loro un vaso, o fugga loro di mano;
e che per lo contrario quelle che sono usate di vivere
seco stesse e di contenersi nel proprio interno, se anco
si sentono cogliere da un'apoplessia, trovandosi pure in
presenza d'altri, non aprono bocca.
Stimava che una buona parte degli uomini, antichi e
moderni, che sono riputati grandi o straordinari,
conseguissero questa riputazione in virtù principalmente
dell'eccesso di qualche loro qualità sopra le altre. E che
uno in cui le qualità dello spirito sieno bilanciate e
proporzionate fra loro; se bene elle fossero o
straordinarie o grandi oltre modo, possa con difficoltà
far cose degne dell'uno o dell'altro titolo, ed apparire
ai presenti o ai futuri né grande né straordinario.
Distingueva nelle moderne nazioni civili tre generi di
persone. Il primo, di quelle in cui la natura propria, ed
anco in gran parte la natura comune degli uomini, si trova
mutata e trasformata dall'arte, e dagli abiti della vita
cittadinesca. Di questo genere di persone diceva essere
tutte quelle che sono atte ai negozi privati o pubblici; a
partecipare con diletto nel commercio gentile degli
uomini, e riuscire scambievolmente grate a quelli coi
quali si abbattono a convivere, o a praticare
personalmente in uno o altro modo; in fine, all'uso della
presente vita civile. E a questo solo genere, parlando
universalmente, diceva toccare ed appartenere nelle dette
nazioni la stima degli uomini. Il secondo, essere di
quelli in cui la natura non si trova mutata bastantemente
dalla sua prima condizione; o per non essere stata, come
si dice, coltivata; o perciocché, per sua strettezza e
insufficienza, fu poco atta a ricevere e a conservare le
impressioni e gli effetti dell'arte, della pratica e
dell'esempio. Questo essere il più numeroso dei tre; ma
disprezzato non manco da se medesimo che dagli altri,
degno di piccola considerazione; e in somma consistere in
quella gente che ha o merita nome di volgo, in qualunque
ordine e stato sia posta dalla fortuna. Il terzo,
incomparabilmente inferiore di numero agli altri due,
quasi così disprezzato come il secondo, e spesso anco
maggiormente, essere di quelle persone in cui la natura
per soprabbondanza di forza, ha resistito all'arte del
nostro presente vivere, ed esclusala e ributtata da sé;
non ricevutone se non così piccola parte, che questa alle
dette persone non è bastante per l'uso dei negozi e per
governarsi cogli uomini, né per sapere anco riuscire
conversando, né dilettevoli né pregiate. E suddivideva
questo genere in due specie: l'una al tutto forte e
gagliarda; disprezzatrice del disprezzo che le è portato
universalmente, e spesso più lieta di questo, che se ella
fosse onorata; diversa dagli altri non per sola necessità
di natura, ma eziandio per volontà e di buon grado; rimota
dalle speranze o dai piaceri del commercio degli uomini, e
solitaria nel mezzo delle città, non meno perché fugge
essa dall'altra gente, che per essere fuggita. Di questa
specie soggiungeva non si trovare se non rarissimi. Nella
natura dell'altra, diceva essere congiunta e mista alla
forza una sorta di debolezza e di timidità; in modo che
essa natura combatte seco medesima. Perocché gli uomini di
questa seconda specie, non essendo di volontà punto alieni
dal conversare cogli altri, desiderando in molte e diverse
cose di rendersi conformi o simili a quelli del primo
genere, dolendosi nel proprio cuore della disistima in cui
si veggono essere, e di parere da meno di uomini
smisuratamente inferiori a sé d'ingegno e d'animo; non
vengono a capo, non ostante qualunque cura e diligenza vi
pongano, di addestrarsi all'uso pratico della vita, né di
rendersi nella conversazione tollerabili a sé, non che
altrui. Tali essere stati negli ultimi tempi, ed essere
all'età nostra, se bene l'uno più, l'altro meno, non pochi
degl'ingegni maggiori e più delicati. E per un esempio
insigne, recava Gian Giacomo Rousseau; aggiungendo a
questo un altro esempio, ricavato dagli antichi, cioè
Virgilio: del quale nella Vita latina che porta il nome di
Donato grammatico, è riferito coll'autorità di Melisso
pure grammatico, liberto di Mecenate, che egli fu nel
favellare tardissimo, e poco diverso dagl'indotti. E che
ciò sia vero, e che Virgilio, per la stessa maravigliosa
finezza dell'ingegno, fosse poco atto a praticare cogli
uomini, gli pareva si potesse raccorre molto
probabilmente, sì dall'artificio sottilissimo e
faticosissimo del suo stile, e sì dalla propria indole di
quella poesia; come anche da ciò che si legge in sulla
fine del secondo delle Georgiche. Dove il poeta, contro
l'uso dei Romani antichi, e massimamente di quelli
d'ingegno grande, si professa desideroso della vita oscura
e solitaria; e questo in una cotal guisa, che si può
comprendere che egli vi e sforzato dalla sua natura, anzi
che inclinato; e che l'ama più come rimedio o rifugio, che
come bene. E perciocché, generalmente parlando, gli uomini
di questa e dell'altra specie, non sono avuti in pregio,
se non se alcuni dopo morte, e quelli del secondo genere
vivi, non che morti, sono in poco o niun conto; giudicava
potersi affermare in universale, che ai nostri tempi, la
stima comune degli uomini non si ottenga in vita con altro
modo, che con discostarsi e tramutarsi di gran lunga
dall'essere naturale. Oltre di questo, perciocché nei
tempi presenti tutta, per dir così, la vita civile
consiste nelle persone del primo genere, la natura del
quale tiene come il mezzo tra quelle de' due rimanenti;
conchiudeva che anche per questa via, come per altre
mille, si può conoscere che oggidì l'uso, il maneggio, e
la potestà delle cose, stanno quasi totalmente nelle mani
della mediocrità.
Distingueva ancora tre stati della vecchiezza considerata
in rispetto alle altre età dell'uomo. Nei principii delle
nazioni, quando di costumi e d'abito, tutte le età furono
giuste e virtuose; e mentre la esperienza e la cognizione
degli uomini e della vita, non ebbero per proprietà di
alienare gli animi dall'onesto e dal retto; la vecchiezza
fu venerabile sopra le altre età: perché colla giustizia e
con simili pregi, allora comuni a tutte, concorreva in
essa, come e natura che vi si trovi, maggior senno e
prudenza che nelle altre. In successo di tempo, per lo
contrario, corrotti e pervertiti i costumi, niuna età fu
più vile ed abbominabile della vecchiezza; inclinata coll'affetto
al male più delle altre, per la più lunga consuetudine,
per la maggior conoscenza e pratica delle cose umane, per
gli effetti dell'altrui malvagità, più lungamente e in
maggior numero sopportati, e per quella freddezza che ella
ha da natura; e nel tempo stesso impotente a operarlo,
salvo colle calunnie, le frodi, le perfidie, le astuzie,
le simulazioni, e in breve con quelle arti che tra le
scellerate sono abbiettissime. Ma poiché la corruttela
delle nazioni ebbe trapassato ogni termine, e che il
disprezzo della rettitudine e della virtù precorse negli
uomini l'esperienza e la cognizione del mondo e del tristo
vero; anzi, per dir così, l'esperienza e la cognizione
precorsero l'età, e l'uomo già nella puerizia fu esperto,
addottrinato e guasto; la vecchiezza divenne, non dico già
venerabile, che da indi innanzi molto poche cose furono
capaci di questo titolo, ma più tollerabile delle altre
età. Perocché il fervore dell'animo e la gagliardia del
corpo, che per l'addietro, giovando all'immaginativa, ed
alla nobiltà dei pensieri, non di rado erano state in
qualche parte cagione di costumi, di sensi e di opere
virtuose; furono solamente stimoli e ministri del mal
volere o del male operare, e diedero spirito e vivezza
alla malvagità: la quale nel declinare degli anni, fu
mitigata e sedata dalla freddezza del cuore, e
dall'imbecillità delle membra; cose per altro più
conducenti al vizio che alla virtù. Oltre che la stessa
molta esperienza e notizia delle cose umane, divenute al
tutto inamabili, fastidiose e vili; in luogo di volgere
all'iniquità i buoni come per lo passato, acquistò forza
di scemarne e talvolta spegnerne l'amore nei tristi.
Laonde, in quanto ai costumi, parlando della vecchiezza a
comparazione delle altre età, si può dire che ella fosse
nei primi tempi, come è al buono il migliore; nei
corrotti, come al cattivo il pessimo; nei seguenti e
peggiori, al contrario.
CAPITOLO QUINTO
Ragionava
spesso di quella qualità di amor proprio che oggi è detta
egoismo; porgendosegli, credo io, frequentemente
l'occasione di entrarne in parole. Nella qual materia
narrerò qualcuna delle sue sentenze. Diceva che oggidì,
qualora ti è lodato alcuno, o vituperato, di probità o del
contrario, da persona che abbia avuto a fare seco, o che
di presente abbia; tu non ricevi di quel tale altra
contezza, se non che questa persona che lo biasima o loda,
è bene o male soddisfatta di lui: bene, se lo rappresenta
per buono; male, se per malvagio.
Negava che alcuno a questi tempi possa amare senza rivale;
e dimandato del perché, rispondeva: perché certo l'amato o
l'amata è rivale ardentissimo dell'amante.
Facciamo caso, diceva, che tu richiegga di un piacere una
qualsivoglia persona; della qual dimanda non ti si possa
soddisfare senza incorrere nell'odio o nella mala volontà
di un terzo; e questo terzo, tu e la persona richiesta,
supponghiamo che in istato e in potere, siete tutti e tre
uguali, poco più o meno. Io dico che verisimilmente la tua
dimanda non ti verrà conseguita per nessun modo; posto
eziandio che il gratificartene avesse dovuto obbligarti
grandemente al gratificatore, e fargli anche più benevolo
te, che inimico quel terzo. Ma dall'odio e dall'ira degli
uomini si teme assai più che dall'amore e dalla
gratitudine non si spera: e ragionevolmente: perché in
generale si vede, che quelle due prime passioni operano
più spesso, e nell'operare mostrano molto maggiore
efficacia, che le contrarie. La cagione è, che chi si
sforza di nuocere a quelli che egli odia, e chi cerca
vendetta, opera per sé; chi si studia di giovare a quelli
che egli ama, e chi rimerita i benefizi ricevuti, opera
per gli amici e i benefattori.
Diceva che universalmente gli ossequi e i servigi che si
fanno agli altri con isperanze e disegni di utilità
propria, rade volte conseguiscono il loro fine; perché gli
uomini, massimamente oggi, che hanno più scienza e più
senno che per l'addietro, sono facili a ricevere e
difficili a rendere. Nondimeno, che di tali ossequi e
servigi, quelli che sono prestati da alcuni giovani a
vecchie ricche o potenti, ottengono il loro fine, non solo
più spesse volte che gli altri, ma il più delle volte.
Queste considerazioni infrascritte, che concernono
principalmente i costumi moderni, mi ricordo averle udite
dalla sua bocca. Oggi non è cosa alcuna che faccia
vergogna appresso agli uomini usati e sperimentati nel
mondo, salvo che il vergognarsi; né di cosa alcuna questi
sì fatti uomini si vergognano, fuorché di questa, se a
caso qualche volta v'incorrono.
Maraviglioso potere è quel della moda: la quale, laddove
le nazioni e gli uomini sono tenacissimi delle usanze in
ogni altra cosa, e ostinatissimi a giudicare, operare e
procedere secondo la consuetudine, eziandio contro ragione
e con loro danno; essa sempre che vuole, in un tratto li
fa deporre, variare, assumere usi, modi e giudizi, quando
pur quello che abbandonano sia ragionevole, utile, bello e
conveniente, e quello che abbracciano, il contrario.
D'infinite cose che nella vita comune, o negli uomini
particolari, sono ridicole veramente, è rarissimo che si
rida; e se pure alcuno vi si prova, non gli venendo fatto
di comunicare il suo riso agli altri, presto se ne rimane.
All'incontro, di mille cose o gravissime o
convenientissime, tutto giorno si ride, e con facilità
grande se ne muovono le risa negli altri. Anzi le più
delle cose delle quali si ride ordinariamente, sono tutt'altro
che ridicole in effetto; e di moltissime si ride per
questa cagione stessa, che elle non sono degne di riso o
in parte alcuna o tanto che basti.
Diciamo e udiamo dire a ogni tratto: i buoni antichi, i
nostri buoni antenati; e uomo fatto all'antica, volendo
dire uomo dabbene e da potersene fidare. Ciascuna
generazione crede dall'una parte, che i passati fossero
migliori dei presenti; dall'altra parte, che i popoli
migliorino allontanandosi dal loro primo stato ogni giorno
più; verso il quale se eglino retrocedessero, che allora
senza dubbio alcuno peggiorerebbero.
Certamente il vero non è bello. Nondimeno anche il vero
può spesse volte porgere qualche diletto: e se nelle cose
umane il bello è da preporre al vero, questo, dove manchi
il bello, è da preferire ad ogni altra cosa. Ora nelle
città grandi, tu sei lontano dal bello: perché il bello
non ha più luogo nessuno nella vita degli uomini. Sei
lontano anche dal vero: perché nelle città grandi ogni
cosa è finta, o vana. Di modo che ivi, per dir così, tu
non vedi, non odi, non tocchi, non respiri altro che
falsità, e questa brutta e spiacevole. Il che agli spiriti
delicati si può dire che sia la maggior miseria del mondo.
Quelli che non hanno necessità di provvedere essi medesimi
ai loro bisogni, e però ne lasciano la cura agli altri,
non possono per l'ordinario provvedere, o in guisa alcuna,
o solo con grandissima difficoltà, e meno suffcientemente
che gli altri, a un bisogno principalissimo che in ogni
modo hanno. Dico quello di occupare la vita: il quale è
maggiore assai di tutti i bisogni particolari ai quali,
occupandola, si provvede; e maggiore eziandio che il
bisogno di vivere. Anzi il vivere, per se stesso, non è
bisogno; perché disgiunto dalla felicità, non è bene. Dove
che posta la vita, è sommo e primo bisogno il condurla con
minore infelicità che si possa. Ora dall'una parte, la
vita disoccupata o vacua, è infelicissima. Dall'altra
parte, il modo di occupazione col quale la vita si fa
manco infelice che con alcun altro, si è quello che
consiste nel provvedere ai propri bisogni.
Diceva che il costume di vendere e comperare uomini, era
cosa utile al genere umano: e allegava che l'uso
dell'innestare il vaiuolo venne in Costantinopoli, donde
passò in Inghilterra, e di là nelle altre parti d'Europa,
dalla Circassia; dove la infermità del vaiuolo naturale,
pregiudicando alla vita o alle forme dei fanciulli e dei
giovani, danneggiava molto il mercato che fanno quei
popoli delle loro donzelle.
Narrava di se medesimo, che quando prima uscì delle scuole
ed entrò nel mondo, propose, come giovanetto inesperto e
amico della verità, di non voler mai lodare né persona né
cosa che gli occorresse nel commercio degli uomini, se non
se qualora ella fosse tale, che gli paresse veramente
lodevole. Ma che passato un anno, nel quale, mantenendo il
proposito fatto, non gli venne lodata né cosa né persona
alcuna; temendo non si dimenticare al tutto, per
mancamento di esercizio, quello che nella rettorica non
molto prima aveva imparato circa il genere encomiastico o
lodativo, ruppe il proposito; e indi a poco se ne rimosse
totalmente.
CAPITOLO SESTO
Usava
di farsi leggere quando un libro quando un altro, per lo
più di scrittore antico; e interponeva alla lettura
qualche suo detto, e quasi annotazioncella a voce, sopra
questo o quel passo, di mano in mano. Udendo leggere nelle
Vite dei filosofi scritte da Diogene Laerzio, che
interrogato Chilone in che differiscano gli addottrinati
dagl'indotti, rispose che nelle buone speranze; disse:
oggi e tutto l'opposto; perché gl'ignoranti sperano, e i
conoscenti non isperano cosa alcuna.
Similmente, leggendosi nelle dette Vite come Socrate
affermava essere al mondo un solo bene, e questo essere la
scienza; e un solo male, e questo essere l'ignoranza;
disse: della scienza e dell'ignoranza antica non so; ma
oggi io volgerei questo detto al contrario.
Nello stesso libro riportandosi questo dogma della setta
degli Egesiaci: il sapiente, che che egli si faccia, farà
ogni cosa a suo beneficio proprio; disse: se tutti quelli
che procedono in questo modo sono filosofi, oramai venga
Platone, e riduca ad atto la sua repubblica in tutto il
mondo civile.
Commendava molto una sentenza di Bione boristenite, posta
dal medesimo Laerzio ; che i più travagliati di tutti,
sono quelli che cercano le maggiori felicità. E
soggiungeva che, all'incontro, i più beati sono quelli che
più si possono e sogliono pascere delle minime, e anco da
poi che sono passate, rivolgerle e assaporarle a bell'agio
colla memoria.
Recava alle varie età delle nazioni civili quel verso
greco che suona: i giovani fanno, i mezzani consultano, i
vecchi desidera no; dicendo che in vero non rimane all'età
presente altro che desiderio.
A un passo di Plutarco, che e trasportato da Marcello
Adriani giovane in queste parole: molto meno arieno ancora
gli Spartani patito l'insolenza e buffonerie di Stratocle:
il quale avendo persuaso il popolo (ciò furono gli
Ateniesi) a sacrificare come vincitore; che poi, sentito
il vero della rotta, si sdegnava; disse: qual ingiuria
riceveste da me, che seppi tenervi in festa ed in gioia
per ispazio di tre giorni? soggiunse l'Ottonieri: il
simile si potrebbe rispondere molto convenientemente a
quelli che si dolgono della natura, gravandosi che ella,
per quanto è in sé, tenga celato a ciascuno il vero, e
coperto con molte apparenze vane, ma belle e dilettevoli:
che ingiuria vi fa ella a tenervi lieti per tre o quattro
giorni? E in altra occasione disse, potersi appropriare
alla nostra specie universalmente, avendo rispetto agli
errori naturali dell'uomo, quello che del fanciullo
ridotto ingannevolmente a prendere la medicina, dice il
Tasso: e da l'inganno suo vita riceve.
Nei Paradossi di Cicerone essendogli letto un luogo, che
in volgare si ridurrebbe come segue: forse le voluttà
fanno la persona migliore o più lodevole? e hacci per
avventura alcuno che del goderle si magnifici o pavoneggi?
disse: caro Cicerone, che i moderni divengano per la
voluttà o migliori o più lodevoli, non ardisco dire; ma
più lodati, sì bene. Anzi hai da sapere che oggi questo
solo cammino di lode si propongono e seguono quasi tutti i
giovani; cioè quello che mena per le voluttà. Delle quali
non pure si vantano, ottenendole, e ne fanno infinite
novelle cogli amici e cogli strani, con chi vuole e con
chi non vorrebbe udire; ma oltre di ciò, moltissime ne
appetiscono e ne procacciano, non come voluttà, ma come
cagione di lode e di fama, e come materia da gloriarsi;
moltissime eziandio se ne attribuiscono o non ottenute, o
anco pure non cercate, o finte del tutto.
Notava nell'istoria che scrisse Arriano delle imprese di
Alessandro Magno, che alla giornata dell'Isso, Dario
collocò i soldati mercenari greci nella fronte
dell'esercito, e Alessandro i suoi mercenari pur greci
alle spalle; e stimava che da questa circostanza sola
senza più, si fosse potuto antivedere il successo della
battaglia.
Non riprendeva, anzi lodava ed amava, che gli scrittori
ragionassero molto di se medesimi: perché diceva che in
questo, sono quasi sempre e quasi tutti eloquenti, e hanno
per l'ordinario lo stile buono e convenevole, eziandio
contro il consueto o del tempo, o della nazione, o proprio
loro. E ciò non essere maraviglia; poiché quelli che
scrivono delle cose proprie, hanno l'animo fortemente
preso e occupato dalla materia; non mancano mai né di
pensieri né di affetti nati da essa materia e nell'animo
loro stesso, non trasportati di altri luoghi, né bevuti da
altre fonti, né comuni e triti; e con facilità si
astengono dagli ornamenti frivoli in sé, o che non fanno a
proposito, dalle grazie e dalle bellezze false, o che
hanno più di apparenza che di sostanza, dall'affettazione,
e da tutto quello che è fuori del naturale. Ed essere
falsissimo che i lettori ordinariamente si curino poco di
quello che gli scrittori dicono di se medesimi: prima,
perché tutto quello che veramente e pensato e sentito
dallo scrittore stesso, e detto con modo naturale e
acconcio, genera attenzione, e fa effetto; poi, perché in
nessun modo si rappresentano o discorrono con maggior
verità ed efficacia le cose altrui, che favellando delle
proprie: atteso che tutti gli uomini si rassomigliano tra
loro, sì nelle qualità naturali, e sì negli accidenti, in
quel che dipende dalla sorte; e che le cose umane, a
considerarle in se stesso, si veggono molto meglio e con
maggior sentimento che negli altri. In confermazione dei
quali pensieri adduceva, tra le altre cose, l'aringa di
Demostene per la Corona, dove l'oratore parlando di sé
continuamente, vince se medesimo di eloquenza: e Cicerone,
al quale, il più delle volte, dove tocca le cose proprie,
vien fatto altrettanto: il che si vede in particolare
nella Miloniana, tutta maravigliosa, ma nel fine
maravigliosissima, dove l'oratore introduce se stesso.
Come similmente bellissimo ed eloquentissimo nelle
orazioni del Bossuet sopra tutti gli altri luoghi, è
quello dove chiudendo le lodi del Principe di Condé, il
dicitore fa menzione della sua propria vecchiezza e vicina
morte. Degli scritti di Giuliano imperatore, che in tutti
gli altri è sofista, e spesso non tollerabile, il più
giudizioso e più lodevole è la diceria che s'intitola
Misopogone, cioè contro alla barba; dove risponde ai motti
e alle maldicenze di quelli di Antiochia contro di lui.
Nella quale operetta, lasciando degli altri pregi, egli
non è molto inferiore a Luciano né di grazia comica, né di
copia, acutezza e vivacità di sali; laddove in quella dei
Cesari, pure imitativa di Luciano, è sgraziato, povero di
facezie, ed oltre alla povertà, debole e quasi insulso.
Tra gl'Italiani, che per altro sono quasi privi di
scritture eloquenti, l'apologia che Lorenzino dei Medici
scrisse per giustificazione propria, è un esempio di
eloquenza grande e perfetta da ogni parte; e Torquato
Tasso ancora è non di rado eloquente nelle altre prose,
dove parla molto di se stesso, e quasi sempre
eloquentissimo nelle lettere, dove non ragiona, si può
dire, se non de' suoi propri casi.
CAPITOLO SETTIMO
Si
ricordano anche parecchi suoi motti e risposte argute:
come fu quella ch'ei diede a un giovanetto, molto studioso
delle lettere, ma poco esperto del mondo; il quale diceva,
che dell'arte del governarsi nella vita sociale, e della
cognizione pratica degli uomini, s'imparano cento fogli il
dì. Rispose l'Ottonieri: ma il libro fa cinque milioni di
fogli.
A un altro giovane inconsiderato e temerario, il quale per
ischermirsi da quelli che gli rimproveravano le male
riuscite che faceva giornalmente, e gli scorni che
riportava, era usato rispondere, che della vita non è da
fare più stima che di una commedia; disse una volta l'Ottonieri:
anche nella commedia è meglio riportare applausi che
fischiate; e il commediante male instrutto nell'arte sua,
o mal destro in esercitarla, all'ultimo si muore di fame.
Preso dai sergenti della corte un ribaldo omicida, il
quale per essere zoppo, commesso il misfatto, non era
potuto fuggire; disse: vedete, amici, che la giustizia, se
bene si dice che sia zoppa, raggiunge però il malfattore,
se egli è zoppo.
Viaggiando per l'Italia, essendogli detto, non so dove, da
un cortigiano che lo voleva mordere: io ti parlerò
schiettamente, se tu me ne dai licenza; rispose: anzi avrò
caro assai di ascoltarti; perché viaggiando si cercano le
cose rare.
Costretto da non so quale necessità una volta, a chiedere
danari in prestanza a uno, il quale scusandosi di non
potergliene dare, concluse affermando, che se fosse stato
ricco, non avrebbe avuto maggior pensiero che delle
occorrenze degli amici; esso replicò: mi rincrescerebbe
assai che tu stessi in pensiero per causa nostra. Prego
Dio che non ti faccia mai ricco.
Da giovane, avendo composto alcuni versi, e adoperatovi
certe voci antiche; dicendogli una signora attempata, alla
quale, richiesto da essa, li recitava, non li sapere
intendere, perché quelle voci al tempo suo non correvano;
rispose: anzi mi credeva che corressero; perché sono molto
antiche.
Di un avaro ricchissimo, al quale era stato fatto un furto
di pochi danari, disse, che si era portato avaramente
ancora coi ladri.
Di un calcolatore, che sopra qualunque cosa gli veniva
udita o veduta, si metteva a computare, disse: gli altri
fanno le cose, e costui le conta.
Ad alcuni antiquari che disputavano insieme dintorno a una
figurina antica di Giove, formata di terra cotta;
richiesto del suo parere; non vedete voi, disse, che
questo è un Giove in Creta?
Di uno sciocco il quale presumeva saper molto bene
raziocinare, e ne' suoi discorsi, a ogni due parole,
ricordava la logica; disse: questi è propriamente l'uomo
definito alla greca; cioè un animale logico.
Vicino a morte, compose esso medesimo questa inscrizione,
che poi gli fu scolpita sopra la sepoltura.
OSSA
Dl FILIPPO OTTONIERI
NATO ALLE OPERE VIRTUOSE
E ALLA GLORIA
VISSUTO OZIOSO E DISUTILE
E MORTO SENZA FAMA
NON IGNARO DELLA NATURA
NÉ DELLA FORTUNA
SUA
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