Ercole: Padre Atlante, Giove
mi manda, e vuole che io ti saluti da sua parte, e in caso
che tu fossi stracco di cotesto peso, che io me lo addossi
per qualche ora, come feci non mi ricordo quanti secoli
sono, tanto che tu pigli fiato e ti riposi un poco.
Atlante: Ti ringrazio, caro
Ercolino, e mi chiamo anche obbligato alla maestà di
Giove. Ma il mondo è fatto così leggero, che questo
mantello che porto per custodirmi dalla neve, mi pesa più;
e se non fosse che la volontà di Giove mi sforza di stare
qui fermo, e tenere questa pallottola sulla schiena, io me
la porrei sotto l'ascella o in tasca, o me l'attaccherei
ciondolone a un pelo della barba, e me n'andrei per le mie
faccende.
Ercole: Come può stare che
sia tanto alleggerita? Mi accorgo bene che ha mutato
figura, e che è diventata a uso delle pagnotte, e non è
più tonda, come era al tempo che io studiai la cosmografia
per fare quella grandissima navigazione cogli Argonauti:
ma con tutto questo non trovo come abbia a pesare meno di
prima.
Atlante: Della causa non so.
Ma della leggerezza ch'io dico te ne puoi certificare
adesso adesso, solo che tu voglia torre questa sulla mano
per un momento, e provare il peso.
Ercole: In fe' d'Ercole, se
io non avessi provato, io non poteva mai credere. Ma che è
quest'altra novità che vi scuopro? L'altra volta che io la
portai, mi batteva forte sul dosso, come fa il cuore degli
animali; e metteva un certo rombo continuo, che pareva un
vespaio. Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un
oriuolo che abbia rotta la molla; e quanto al ronzare, io
non vi odo un zitto.
Atlante: Anche di questo non
ti so dire altro, se non ch'egli è già gran tempo, che il
mondo finì di fare ogni moto e ogni romore sensibile: e io
per me stetti con grandissimo sospetto che fosse morto,
aspettandomi di giorno in giorno che m'infettasse col
puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi
seppellire, e l'epitaffio che gli dovessi porre. Ma poi
veduto che non marciva, mi risolsi che di animale che
prima era, si fosse convertito in pianta, come Dafne e
tanti altri; e che da questo nascesse che non si moveva e
non fiatava: e ancora dubito che fra poco non mi gitti le
radici per le spalle, e non vi si abbarbichi.
Ercole: Io piuttosto credo
che dorma, e che questo sonno sia della qualità di quello
di Epimenide , che durò un mezzo secolo e più; o come si
dice di Ermotimo , che l'anima gli usciva del corpo ogni
volta che voleva, e stava fuori molti anni, andando a
diporto per diversi paesi, e poi tornava, finché gli amici
per finire questa canzona, abbruciarono il corpo; e così
lo spirito ritornato per entrare, trovò che la casa gli
era disfatta, e che se voleva alloggiare al coperto,
gliene conveniva pigliare un'altra a pigione, o andare
all'osteria. Ma per fare che il mondo non dorma in eterno,
e che qualche amico o benefattore, pensando che egli sia
morto, non gli dia fuoco, io voglio che noi proviamo
qualche modo di risvegliarlo.
Atlante: Bene, ma che modo?
Ercole: Io gli farei toccare
una buona picchiata di questa clava: ma dubito che lo
finirei di schiacciare, e che io non ne facessi una
cialda; o che la crosta, atteso che riesce così leggero,
non gli sia tanto assottigliata, che egli mi scricchioli
sotto il colpo come un uovo. E anche non mi assicuro che
gli uomini, che al tempo mio combattevano a corpo a corpo
coi leoni e adesso colle pulci, non tramortiscano dalla
percossa tutti in un tratto. Il meglio sarà ch'io posi la
clava e tu il pastrano, e facciamo insieme alla palla con
questa sferuzza. Mi dispiace ch'io non ho recato i
bracciali o le racchette che adoperiamo Mercurio ed io per
giocare in casa di Giove o nell'orto: ma le pugna
basteranno.
Atlante: Appunto; acciocché
tuo padre, veduto il nostro giuoco e venutogli voglia di
entrare in terzo, colla sua palla infocata ci precipiti
tutti e due non so dove, come Fetonte nel Po.
Ercole: Vero, se io fossi,
come era Fetonte, figliuolo di un poeta, e non suo
figliuolo proprio; e non fossi anche tale, che se i poeti
popolarono le città col suono della lira, a me basta
l'animo di spopolare il cielo e la terra a suono di clava.
E la sua palla, con un calcio che le tirassi, io la farei
schizzare di qui fino all'ultima soffitta del cielo
empireo. Ma sta sicuro che quando anche mi venisse
fantasia di sconficcare cinque o sei stelle per fare alle
castelline, o di trarre al bersaglio con una cometa, come
con una fromba, pigliandola per la coda, o pure di
servirmi proprio del sole per fare il giuoco del disco,
mio padre farebbe le viste di non vedere. Oltre che la
nostra intenzione con questo giuoco e di far bene al
mondo, e non come quella di Fetonte, che fu di mostrarsi
leggero della persona alle Ore, che gli tennero il
montatoio quando salì sul carro; e di acquistare opinione
di buon cocchiere con Andromeda e Callisto e colle altre
belle costellazioni, alle quali è voce che nel passare
venisse gittando mazzolini di raggi e pallottoline di luce
confettate; e di fare una bella mostra di sé tra gli Dei
del cielo nel passeggio di quel giorno, che era di festa.
In somma, della collera di mio padre non te ne dare altro
pensiero, che io m'obbligo, in ogni caso, a rifarti i
danni; e senza più cavati il cappotto e manda la palla.
Atlante: O per grado o per
forza, mi converrà fare a tuo modo; perché tu sei
gagliardo e coll'arme, e io disarmato e vecchio. Ma guarda
almeno di non lasciarla cadere, che non se le
aggiungessero altri bernoccoli, o qualche parte se le
ammaccasse, o crepasse, come quando la Sicilia si schiantò
dall'Italia e l'Affrica dalla Spagna; o non ne saltasse
via qualche scheggia, come a dire una provincia o un
regno, tanto che ne nascesse una guerra.
Ercole: Per la parte mia non
dubitare.
Atlante: A te la palla. Vedi
che ella zoppica, perché l'è guasta la figura.
Ercole: Via dàlle un po' più
sodo, ché le tue non arrivano.
Atlante: Qui la botta non
vale, perché ci tira garbino al solito, e la palla piglia
vento, perch'è leggera.
Ercole: Cotesta è sua pecca
vecchia, di andare a caccia del vento.
Atlante: In verità non saria
mal fatto che ne la gonfiassimo, che veggo che ella non
balza d'in sul pugno più che un popone.
Ercole: Cotesto è difetto
nuovo, che anticamente ella balzava e saltava come un
capriolo.
Atlante: Corri presto in là;
presto ti dico; guarda per Dio, ch'ella cade: mal abbia il
momento che tu ci sei venuto.
Ercole: Così falsa e terra
terra me l'hai rimessa, che io non poteva essere a tempo
se m'avessi voluto fiaccare il collo. Oimè, poverina, come
stai? ti senti male a nessuna parte? Non s'ode un fiato e
non si vede muovere un'anima e mostra che tutti dormano
come prima.
Atlante: Lasciamela per tutte
le corna dello Stige, che io me la raccomodi sulle spalle;
e tu ripiglia la clava, e torna subito in cielo a scusarmi
con Giove di questo caso, ch'è seguito per tua cagione.
Ercole: Così farò. È molti
secoli che sta in casa di mio padre un certo poeta, di
nome Orazio, ammessoci come poeta di corte ad instanza di
Augusto, che era stato deificato da Giove per
considerazioni che si dovettero avere alla potenza dei
Romani. Questo poeta va canticchiando certe sue
canzonette, e fra l'altre una dove dice che l'uomo giusto
non si muove se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti
gli uomini sieno giusti, perché il mondo è caduto, e niuno
s'è mosso.
Atlante: Chi dubita della
giustizia degli uomini? Ma tu non istare a perder più
tempo, e corri su presto a scolparmi con tuo padre, ché io
m'aspetto di momento in momento un fulmine che mi
trasformi di Atlante in Etna. |