Amico: Ho letto il vostro
libro. Malinconico al vostro solito.
Tristano: Sì, al mio solito.
Amico: Malinconico,
sconsolato, disperato; si vede che questa vita vi pare una
gran brutta cosa.
Tristano: Che v'ho a dire? io
aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse
infelice.
Amico: Infelice sì forse. Ma
pure alla fine . . .
Tristano: No no, anzi
felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi
cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi
dico. E n'era tanto persuaso, che tutt'altro mi sarei
aspettato, fuorché sentirmi volgere in dubbio le
osservazioni ch'io faceva in quel proposito, parendomi che
la coscienza d'ogni lettore dovesse rendere prontissima
testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che
nascesse disputa dell'utilità o del danno di tali
osservazioni, ma non mai della verità: anzi mi credetti
che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni,
sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse. E
sentendo poi negarmi, non qualche proposizione
particolare, ma il tutto, e dire che la vita non è
infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto
d'infermità, o d'altra miseria mia particolare, da prima
rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso, e per
più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo; poi,
tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, e
dissi: gli uomini sono in generale come i mariti. I
mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che
credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno;
anche quando la metà del mondo sa che il vero e tutt'altro.
Chi vuole o dee vivere in un paese, conviene che lo creda
uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale.
Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che
credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si
adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza il
genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o
pare che sia, più a proposito suo. Il genere umano, che ha
creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né
di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver
nulla a sperare. Nessun filosofo che insegnasse l'una di
queste tre cose, avrebbe fortuna né farebbe setta,
specialmente nel popolo: perché, oltre che tutte tre sono
poco a proposito di chi vuol vivere, le due prime
offendono la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora
le altre due, vogliono coraggio e fortezza d'animo a
essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli, d'animo
ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché
sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che
la necessità governa la loro vita; prontissimi a render
l'arme, come dice il Petrarca , alla loro fortuna,
prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque
sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò
che loro è negato o di ciò che hanno perduto, ad
accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più
iniqua e più barbara, e quando sieno privati d'ogni cosa
desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e
ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del
mondo. Io per me, come l'Europa meridionale ride dei
mariti innamorati delle mogli infedeli, così rido del
genere umano innamorato della vita; e giudico assai poco
virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come
sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono, essere quasi
lo scherno della natura e del destino. Parlo sempre
degl'inganni non dell'immaginazione, ma dell'intelletto.
Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so
che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli
uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn'inganno puerile,
ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni
speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non
dissimularmi nessuna parte dell'infelicità umana, ed
accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa,
ma vera. La quale se non è utile ad altro, procura agli
uomini forti la fiera compiacenza di vedere strappato ogni
manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino
umano. Io diceva queste cose fra me, quasi come se quella
filosofia dolorosa fosse d'invenzione mia; vedendola così
rifiutata da tutti, come si rifiutano le cose nuove e non
più sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai ch'ella era
tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i
filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono
pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze
significanti l'estrema infelicità umana; e chi di loro
dice che l'uomo è il più miserabile degli animali; chi
dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire
in cuna; altri, che uno che sia caro agli Dei, muore in
giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare.
E anche mi ricordai che da quei tempi insino a ieri o all'altr'ieri,
tutti i poeti e tutti i filosofi e gli scrittori grandi e
piccoli, in un modo o in un altro, avevano ripetute o
confermate le stesse dottrine. Sicché tornai di nuovo a
maravigliarmi: e così tra la maraviglia e lo sdegno e il
riso passai molto tempo: finché studiando più
profondamente questa materia, conobbi che l'infelicità
dell'uomo era uno degli errori inveterati dell'intelletto,
e che la falsità di questa opinione, e la felicità della
vita, era una delle grandi scoperte del secolo decimonono.
Allora m'acquetai, e confesso ch'io aveva il torto a
credere quello ch'io credeva.
Amico: E avete cambiata
opinione?
Tristano: Sicuro. Volete voi
ch'io contrasti alle verità scoperte dal secolo decimonono?
Amico: E credete voi tutto
quello che crede il secolo?
Tristano: Certamente. Oh che
maraviglia?
Amico: Credete dunque alla
perfettibilità indefinita dell'uomo?
Tristano: Senza dubbio.
Amico: Credete che in fatti
la specie umana vada ogni giorno migliorando?
Tristano: Sì certo. È ben
vero che alcune volte penso che gli antichi valevano,
delle forze del corpo, ciascuno per quattro di noi. E il
corpo e l'uomo; perché (lasciando tutto il resto) la
magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare,
la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la
vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha
luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma
bambino; anzi peggio; perché la sua sorte è di stare a
vedere gli altri che vivono, ed esso al più chiacchierare,
ma la vita non è per lui. E però anticamente la debolezza
del corpo fu ignominiosa, anche nei secoli più civili. Ma
tra noi già da lunghissimo tempo l'educazione non si degna
di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa
allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito,
rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo,
rovina a vicenda anche lo spirito. E dato che si potesse
rimediare in ciò all'educazione, non si potrebbe mai senza
mutare radicalmente lo stato moderno della società,
trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti
della vita privata e pubblica, che tutte, di proprietà
loro, cospirarono anticamente a perfezionare o a
conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo.
L'effetto è che a paragone degli antichi noi siamo poco
più che bambini, e che gli antichi a confronto nostro si
può dire più che mai che furono uomini. Parlo così
degl'individui paragonati agl'individui, come delle masse
(per usare questa leggiadrissima parola moderna)
paragonate alle masse. Ed aggiungo che gli antichi furono
incomparabilmente più virili di noi anche ne' sistemi di
morale e di metafisica. A ogni modo io non mi lascio
muovere da tali piccole obbiezioni, credo costantemente
che la specie umana vada sempre acquistando.
Amico: Credete ancora, già
s'intende, che il sapere, o, come si dice, i lumi,
crescano continuamente.
Tristano: Certissimo. Sebbene
vedo che quanto cresce la volontà d'imparare, tanto scema
quella di studiare. Ed è cosa che fa maraviglia a contare
il numero dei dotti, ma veri dotti, che vivevano
contemporaneamente cencinquant'anni addietro, e anche più
tardi, e vedere quanto fosse smisuratamente maggiore di
quello dell'età presente. Né mi dicano che i dotti sono
pochi perché in generale le cognizioni non sono più
accumulate in alcuni individui ma divise fra molti; e che
la copia di questi compensa la rarità di quelli. Le
cognizioni non sono come le ricchezze, che si dividono e
si adunano, e sempre fanno la stessa somma. Dove tutti
sanno poco, e' si sa poco; perché la scienza va dietro
alla scienza, e non si sparpaglia. L'istruzione
superficiale può essere, non propriamente divisa fra
molti, ma comune a molti non dotti. Il resto del sapere
non appartiene se non a chi sia dotto, e gran parte di
quello a chi sia dottissimo. E, levati i casi fortuiti,
solo chi sia dottissimo, e fornito esso individualmente di
un immenso capitale di cognizioni, è atto ad accrescere
solidamente e condurre innanzi il sapere umano. Ora,
eccetto forse in Germania, donde la dottrina non è stata
ancora potuta snidare, non vi par egli che il veder
sorgere di questi uomini dottissimi divenga ogni giorno
meno possibile? Io fo queste riflessioni così per
discorrere, e per filosofare un poco, o forse sofisticare;
non ch'io non sia persuaso di ciò che voi dite. Anzi
quando anche vedessi il mondo tutto pieno d'ignoranti
impostori da un lato, e d'ignoranti presuntuosi
dall'altro, nondimeno crederei, come credo, che il sapere
e i lumi crescano di continuo.
Amico: In conseguenza,
credete che questo secolo sia superiore a tutti i passati.
Tristano: Sicuro. Così hanno
creduto di sé tutti i secoli, anche i più barbari; e così
crede il mio secolo, ed io con lui. Se poi mi dimandaste
in che sia egli superiore agli altri secoli, se in ciò che
appartiene al corpo o in ciò che appartiene allo spirito,
mi rimetterei alle cose dette dianzi.
Amico: In somma, per ridurre
il tutto in due parole, pensate voi circa la natura e i
destini degli uomini e delle cose (poiché ora non parliamo
di letteratura né di politica) quello che ne pensano i
giornali?
Tristano: Appunto. Credo ed
abbraccio la profonda filosofia de' giornali, i quali
uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio,
massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce
dell'età presente. Non è vero?
Amico: Verissimo. Se cotesto
che dite, è detto da vero e non da burla, voi siete
diventato de' nostri.
Tristano: Sì certamente, de'
vostri.
Amico: Oh dunque, che farete
del vostro libro? Volete che vada ai posteri con quei
sentimenti così contrari alle opinioni che ora avete?
Tristano: Ai posteri? Io rido,
perché voi scherzate; e se fosse possibile che non
ischerzaste, più riderei. Non dirò a riguardo mio, ma a
riguardo d'individui o di cose individuali del secolo
decimonono, intendete bene che non v'è timore di posteri,
i quali ne sapranno tanto, quanto ne seppero gli antenati.
Gl'individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono
elegantemente i pensatori moderni. Il che vuol dire ch'è
inutile che l'individuo si prenda nessun incomodo, poiché,
per qualunque suo merito, né anche quel misero premio
della gloria gli resta più da sperare né in vigilia né in
sogno. Lasci fare alle masse; le quali che cosa sieno per
fare senza individui, essendo composte d'individui,
desidero e spero che me lo spieghino gl'intendenti
d'individui e di masse, che oggi illuminano il mondo. Ma
per tornare al proposito del libro e de' posteri, i libri
specialmente, che ora per lo più si scrivono in minor
tempo che non ne bisogna a leggerli, vedete bene che,
siccome costano quel che vagliono, così durano a
proporzione di quel che costano. Io per me credo che il
secolo venturo farà un bellissimo frego sopra l'immensa
bibliografia del secolo decimonono; ovvero dirà: io ho
biblioteche intere di libri che sono costati quali venti,
quali trenta anni di fatiche, e quali meno, ma tutti
grandissimo lavoro. Leggiamo questi prima, perché la
verisimiglianza è che da loro si cavi maggior costrutto; e
quando di questa sorta non avrò più che leggere, allora
metterò mano ai libri improvvisati. Amico mio, questo
secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che
rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna,
come quello che camminava diritto in paese di zoppi. E
questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che
negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto
da ragazzi, così a un tratto senza altre fatiche
preparatorie. Anzi vogliono che il grado al quale è
pervenuta la civiltà, e che l'indole del tempo presente e
futuro, assolvano essi e loro successori in perpetuo da
ogni necessità di sudori e fatiche lunghe per divenire
atti alle cose. Mi diceva, pochi giorni sono, un mio
amico, uomo di maneggi e di faccende, che anche la
mediocrità è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti,
quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a quegli
esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha
destinati. In ciò mi pare che consista in parte la
differenza ch'è da questo agli altri secoli. In tutti gli
altri, come in questo, il grande è stato rarissimo; ma
negli altri la mediocrità ha tenuto il campo, in questo la
nullità. Onde è tale il romore e la confusione, volendo
tutti esser tutto, che non si fa nessuna attenzione ai
pochi grandi che pure credo che vi sieno; ai quali,
nell'immensa moltitudine de' concorrenti, non è più
possibile di aprirsi una via. E così, mentre tutti
gl'infimi si credono illustri, l'oscurità e la nullità
dell'esito diviene il fato comune e degl'infimi e de'
sommi. Ma viva la statistica! vivano le scienze
economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili,
i manuali, e le tante belle creazioni del nostro secolo! e
viva sempre il secolo decimonono! forse povero di cose, ma
ricchissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segno
ottimo, come sapete. E consoliamoci, che per altri
sessantasei anni, questo secolo sarà il solo che parli, e
dica le sue ragioni.
Amico: Voi parlate, a quanto
pare, un poco ironico. Ma dovreste almeno all'ultimo
ricordarvi che questo è un secolo di transizione.
Tristano: Oh che conchiudete
voi da cotesto? Tutti i secoli, più o meno, sono stati e
saranno di transizione, perché la società umana non istà
mai ferma, né mai verrà secolo nel quale ella abbia stato
che sia per durare. Sicché cotesta bellissima parola o non
iscusa punto il secolo decimonono, o tale scusa gli è
comune con tutti i secoli. Resta a cercare, andando la
società per la via che oggi si tiene, a che si debba
riuscire, cioè se la transizione che ora si fa, sia dal
bene al meglio o dal male al peggio. Forse volete dirmi
che la presente è transizione per eccellenza, cioè un
passaggio rapido da uno stato della civiltà ad un altro
diversissimo dal precedente. In tal caso chiedo licenza di
ridere di cotesto passaggio rapido, e rispondo che tutte
le transizioni conviene che sieno fatte adagio; perché se
si fanno a un tratto, di là a brevissimo tempo si torna
indietro, per poi rifarle a grado a grado. Così è accaduto
sempre. La ragione è, che la natura non va a salti, e che
forzando la natura, non si fanno effetti che durino,
Ovvero, per dir meglio, quelle tali transizioni
precipitose sono transizioni apparenti, ma non reali.
Amico: Vi prego, non fate di
cotesti discorsi con troppe persone, perché vi
acquisterete molti nemici.
Tristano: Poco importa.
Oramai né nimici né amici mi faranno gran male.
Amico: O più probabilmente
sarete disprezzato, come poco intendente della filosofia
moderna, e poco curante del progresso della civiltà e dei
lumi.
Tristano: Mi dispiace molto,
ma che s'ha a fare? se mi disprezzeranno, cercherò di
consolarmene.
Amico: Ma in fine avete voi
mutato opinioni o no? e che s'ha egli a fare di questo
libro?
Tristano: Bruciarlo è il
meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di
sogni poetici, d'invenzioni e di capricci malinconici,
ovvero come un'espressione dell'infelicità dell'autore:
perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi
e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza
vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo;
e tutti i giornali de' due mondi non mi persuaderanno il
contrario.
Amico: Io non conosco le
cagioni di cotesta infelicità che dite. Ma se uno sia
felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se
non la persona stessa, e il giudizio di questa non può
fallare.
Tristano: Verissimo. E di più
vi dico francamente, ch'io non mi sottometto alla mia
infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a
patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare
la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore
e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non
sia desiderata al mondo se non da pochissimi. Né vi
parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l'ora, il
fatto non ismentirà le mie parole; perché quantunque io
non vegga ancora alcun esito alla mia vita, pure ho un
sentimento dentro, che quasi mi fa sicuro che l'ora ch'io
dico non sia lontana. Troppo sono maturo alla morte,
troppo mi pare assurdo e incredibile di dovere, così morto
come sono spiritualmente, così conchiusa in me da ogni
parte la favola della vita, durare ancora quaranta o
cinquant'anni, quanti mi sono minacciati dalla natura. Al
solo pensiero di questa cosa io rabbrividisco. Ma come ci
avviene di tutti quei mali che vincono, per così dire, la
forza immaginativa, così questo mi pare un sogno e
un'illusione, impossibile a verificarsi. Anzi se qualcuno
mi parla di un avvenire lontano come di cosa che mi
appartenga, non posso tenermi dal sorridere fra me stesso:
tanta confidenza ho che la via che mi resta a compiere non
sia lunga. E questo, posso dire, è il solo pensiero che mi
sostiene. Libri e studi, che spesso mi maraviglio d'aver
tanto amato, disegni di cose grandi, e speranze di gloria
e d'immortalità, sono cose delle quali è anche passato il
tempo di ridere. Dei disegni e delle speranze di questo
secolo non rido: desidero loro con tutta l'anima ogni
miglior successo possibile, e lodo, ammiro ed onoro
altamente e sincerissimamente il buon volere: ma non
invidio però i posteri, né quelli che hanno ancora a
vivere lungamente. In altri tempi ho invidiato gli
sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto
di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con
qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi,
né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i
morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni
immaginazione piacevole, ogni pensiero dell'avvenire,
ch'io fo, come accade, nella mia solitudine, e con cui vo
passando il tempo, consiste nella morte, e di là non sa
uscire. Né in questo desiderio la ricordanza dei sogni
della prima età, e il pensiero d'esser vissuto invano, mi
turbano più, come solevano. Se ottengo la morte morrò così
tranquillo e così contento, come se mai null'altro avessi
sperato né desiderato al mondo. Questo e il solo benefizio
che può riconciliarmi al destino. Se mi fosse proposta da
un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro
netta da ogni macchia, dall'altro di morir oggi, e che
dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei
tempo a risolvermi. |