Genio: Come stai, Torquato?
Tasso: Ben sai come si può
stare in una prigione, e dentro ai guai fino al collo.
Genio: Via, ma dopo cenato
non è tempo da dolersene. Fa buon animo, e ridiamone
insieme.
Tasso: Ci son poco atto. Ma
la tua presenza e le tue parole sempre mi consolano.
Siedimi qui accanto.
Genio: Che io segga? La non è
già cosa facile a uno spirito. Ma ecco: fa conto ch'io sto
seduto.
Tasso: Oh potess'io rivedere
la mia Leonora. Ogni volta che ella mi torna alla mente,
mi nasce un brivido di gioia, che dalla cima del capo mi
si stende fino all'ultima punta de' piedi; e non resta in
me nervo né vena che non sia scossa. Talora, pensando a
lei, mi si ravvivano nell'animo certe immagini e certi
affetti, tali, che per quel poco tempo, mi pare di essere
ancora quello stesso Torquato che fui prima di aver fatto
esperienza delle sciagure e degli uomini, e che ora io
piango tante volte per morto. In vero, io direi che l'uso
del mondo, e l'esercizio de' patimenti, sogliono come
profondare e sopire dentro a ciascuno di noi quel primo
uomo che egli era: il quale di tratto in tratto si desta
per poco spazio, ma tanto più di rado quanto è il
progresso degli anni; sempre più poi si ritira verso il
nostro intimo, e ricade in maggior sonno di prima; finché
durando ancora la nostra vita, esso muore. In fine, io mi
maraviglio come il pensiero di una donna abbia tanta
forza, da rinnovarmi, per così dire, l'anima, e farmi
dimenticare tante calamità. E se non fosse che io non ho
più speranza di rivederla, crederei non avere ancora
perduta la facoltà di essere felice.
Genio: Quale delle due cose
stimi che sia più dolce: vedere la donna amata, o
pensarne?
Tasso: Non so. Certo che
quando mi era presente, ella mi pareva una donna; lontana,
mi pareva e mi pare una dea.
Genio: Coteste dee sono così
benigne, che quando alcuno vi si accosta, in un tratto
ripiegano la loro divinità, si spiccano i raggi d'attorno,
e se li pongono in tasca, per non abbagliare il mortale
che si fa innanzi.
Tasso: Tu dici il vero pur
troppo. Ma non ti pare egli cotesto un gran peccato delle
donne; che alla prova, elle ci riescano così diverse da
quelle che noi le immaginavamo?
Genio: Io non so vedere che
colpa s'abbiano in questo, d'esser fatte di carne e
sangue, piuttosto che di ambrosia e nettare. Qual cosa del
mondo ha pure un'ombra o una millesima parte della
perfezione che voi pensate che abbia a essere nelle donne?
E anche mi pare strano, che non facendovi maraviglia che
gli uomini sieno uomini, cioè creature poco lodevoli e
poco amabili; non sappiate poi comprendere come accada,
che le donne in fatti non sieno angeli.
Tasso: Con tutto questo, io
mi muoio dal desiderio di rivederla, e di riparlarle.
Genio: Via, questa notte in
sogno io te la condurrò davanti; bella come la gioventù; e
cortese in modo, che tu prenderai cuore di favellarle
molto più franco e spedito che non ti venne fatto mai per
l'addietro: anzi all'ultimo le stringerai la mano; ed ella
guardandoti fiso, ti metterà nell'animo una dolcezza tale,
che tu ne sarai sopraffatto; e per tutto domani, qualunque
volta ti sovverrà di questo sogno, ti sentirai balzare il
cuore dalla tenerezza.
Tasso: Gran conforto: un
sogno in cambio del vero.
Genio: Che cosa è il vero?
Tasso: Pilato non lo seppe
meno di quello che lo so io.
Genio: Bene, io risponderò
per te. Sappi che dal vero al sognato, non corre altra
differenza, se non che questo può qualche volta essere
molto più bello e più dolce, che quello non può mai.
Tasso: Dunque tanto vale un
diletto sognato, quanto un diletto vero?
Genio: Io credo. Anzi ho
notizia di uno che quando la donna che egli ama, se gli
rappresenta dinanzi in alcun sogno gentile, esso per tutto
il giorno seguente, fugge di ritrovarsi con quella e di
rivederla; sapendo che ella non potrebbe reggere al
paragone dell'immagine che il sonno gliene ha lasciata
impressa, e che il vero, cancellandogli dalla mente il
falso, priverebbe lui del diletto straordinario che ne
ritrae. Però non sono da condannare gli antichi, molto più
solleciti, accorti e industriosi di voi, circa a ogni
sorta di godimento possibile alla natura umana, se ebbero
per costume di procurare in vari modi la dolcezza e la
giocondità dei sogni; né Pitagora è da riprendere per
avere interdetto il mangiare delle fave, creduto contrario
alla tranquillità dei medesimi sogni, ed atto a
intorbidarli; e sono da scusare i superstiziosi che avanti
di coricarsi solevano orare e far libazioni a Mercurio
conduttore dei sogni, acciò ne menasse loro di quei lieti;
l'immagine del quale tenevano a quest'effetto intagliata
in su' piedi delle lettiere. Così, non trovando mai la
felicità nel tempo della vigilia, si studiavano di essere
felici dormendo: e credo che in parte, e in qualche modo,
l'ottenessero; e che da Mercurio fossero esauditi meglio
che dagli altri Dei.
Tasso: Per tanto, poiché gli
uomini nascono e vivono al solo piacere, o del corpo o
dell'animo; se da altra parte il piacere è solamente o
massimamente nei sogni, converrà ci determiniamo a vivere
per sognare: alla qual cosa, in verità, io non mi posso
ridurre.
Genio: Già vi sei ridotto e
determinato, poiché tu vivi e che tu consenti di vivere.
Che cosa è il piacere?
Tasso: Non ne ho tanta
pratica da poterlo conoscere che cosa sia.
Genio: Nessuno lo conosce per
pratica, ma solo per ispeculazione: perché il piacere è un
subbietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un
fatto; un sentimento che l'uomo concepisce col pensiero, e
non prova; o per dir meglio, un concetto, e non un
sentimento. Non vi accorgete voi che nel tempo stesso di
qualunque vostro diletto, ancorché desiderato
infinitamente, e procacciato con fatiche e molestie
indicibili; non potendovi contentare il goder che fate in
ciascuno di quei momenti, state sempre aspettando un goder
maggiore e più vero, nel quale consista in somma quel tal
piacere; e andate quasi riportandovi di continuo
agl'istanti futuri di quel medesimo diletto? Il quale
finisce sempre innanzi al giunger dell'istante che vi
soddisfaccia; e non vi lascia altro bene che la speranza
cieca di goder meglio e più veramente in altra occasione,
e il conforto di fingere e narrare a voi medesimi di aver
goduto, con raccontarlo anche agli altri, non per sola
ambizione, ma per aiutarvi al persuaderlo che vorreste pur
fare a voi stessi. Però chiunque consente di vivere, nol
fa in sostanza ad altro effetto né con altra utilità che
di sognare; cioè credere di avere a godere, o di aver
goduto; cose ambedue false e fantastiche.
Tasso: Non possono gli uomini
credere mai di godere presentemente?
Genio: Sempre che credessero
cotesto, godrebbero in fatti. Ma narrami tu se in alcun
istante della tua vita, ti ricordi aver detto con piena
sincerità ed opinione: io godo. Ben tutto giorno dicesti e
dici sinceramente: io godrò; e parecchie volte, ma con
sincerità minore: ho goduto. Di modo che il piacere è
sempre o passato o futuro, e non mai presente.
Tasso: Che e quanto dire e
sempre nulla.
Genio: Così pare.
Tasso: Anche nei sogni.
Genio: Propriamente parlando.
Tasso: E tuttavia l'obbietto
e l'intento della vita nostra, non pure essenziale ma
unico, è il piacere stesso; intendendo per piacere la
felicità; che debbe in effetto esser piacere; da qualunque
cosa ella abbia a procedere.
Genio: Certissimo.
Tasso: Laonde la nostra vita,
mancando sempre del suo fine, è continuamente imperfetta:
e quindi il vivere è di sua propria natura uno stato
violento.
Genio: Forse.
Tasso: Io non ci veggo forse.
Ma dunque perché viviamo noi? voglio dire, perché
consentiamo di vivere?
Genio: Che so io di cotesto?
Meglio lo saprete voi, che siete uomini.
Tasso: Io per me ti giuro che
non lo so.
Genio: Domandane altri de'
più savi, e forse troverai qualcuno che ti risolva cotesto
dubbio.
Tasso: Così farò. Ma certo
questa vita che io meno, è tutta uno stato violento:
perché lasciando anche da parte i dolori, la noia sola mi
uccide.
Genio: Che cosa è la noia?
Tasso: Qui l'esperienza non
mi manca, da soddisfare alla tua domanda. A me pare che la
noia sia della natura dell'aria: la quale riempie tutti
gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i
vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si
parte, e altro non gli sottentra, quivi ella succede
immediatamente. Così tutti gl'intervalli della vita umana
frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla
noia. E però, come nel mondo materiale, secondo i
Peripatetici, non si dà vòto alcuno; così nella vita
nostra non si dà vòto; se non quando la mente per
qualsivoglia causa intermette l'uso del pensiero. Per
tutto il resto del tempo, l'animo considerato anche in se
proprio e come disgiunto dal corpo, si trova contenere
qualche passione; come quello a cui l'essere vacuo da ogni
piacere e dispiacere, importa essere pieno di noia; la
quale anco è passione, non altrimenti che il dolore e il
diletto.
Genio: E da poi che tutti i
vostri diletti sono di materia simile ai ragnateli;
tenuissima, radissima e trasparente; perciò come l'aria in
questi, così la noia penetra in quelli da ogni parte, e li
riempie. Veramente per la noia non credo si debba
intendere altro che il desiderio puro della felicità; non
soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal
dispiacere. Il qual desiderio, come dicevamo poco innanzi,
non è mai soddisfatto; e il piacere propriamente non si
trova. Sicché la vita umana, per modo di dire, e composta
e intessuta, parte di dolore, parte di noia; dall'una
delle quali passioni non ha riposo se non cadendo
nell'altra. E questo non è tuo destino particolare, ma
comune di tutti gli uomini.
Tasso: Che rimedio potrebbe
giovare contro la noia?
Genio: Il sonno, l'oppio, e
il dolore. E questo è il più potente di tutti: perché
l'uomo mentre patisce, non si annoia per niuna maniera.
Tasso: In cambio di cotesta
medicina, io mi contento di annoiarmi tutta la vita. Ma
pure la varietà delle azioni, delle occupazioni e dei
sentimenti, se bene non ci libera dalla noia, perché non
ci reca diletto vero, contuttociò la solleva ed
alleggerisce. Laddove in questa prigionia, separato dal
commercio umano, toltomi eziandio lo scrivere, ridotto a
notare per passatempo i tocchi dell'oriuolo, annoverare i
correnti, le fessure e i tarli del palco, considerare il
mattonato del pavimento, trastullarmi colle farfalle e coi
moscherini che vanno attorno alla stanza, condurre quasi
tutte le ore a un modo; io non ho cosa che mi scemi in
alcun parte il carico della noia.
Genio: Dimmi: quanto tempo ha
che tu sei ridotto a cotesta forma di vita?
Tasso: Più settimane, come tu
sai.
Genio: Non conosci tu dal
primo giorno al presente, alcuna diversità nel fastidio
che ella ti reca?
Tasso: Certo che io lo
provava maggiore a principio: perché di mano in mano la
mente, non occupata da altro e non isvagata, mi si viene
accostumando a conversare seco medesima assai più e con
maggior sollazzo di prima, e acquistando un abito e una
virtù di favellare in se stessa, anzi di cicalare, tale,
che parecchie volte mi pare quasi avere una compagnia di
persone in capo che stieno ragionando, e ogni menomo
soggetto che mi si appresenti al pensiero, mi basta a
farne tra me e me una gran diceria.
Genio: Cotesto abito te lo
vedrai confermare e accrescere di giorno in giorno per
modo, che quando poi ti si renda la facoltà di usare cogli
altri uomini, ti parrà essere più disoccupato stando in
compagnia loro, che in solitudine. E quest'assuefazione in
sì fatto tenore di vita, non credere che intervenga solo
a' tuoi simili, già consueti a meditare; ma ella
interviene in più o men tempo a chicchessia. Di più,
l'essere diviso dagli uomini e, per dir così, dalla vita
stessa, porta seco questa utilità; che l'uomo, eziandio
sazio, chiarito e disamorato delle cose umane per
l'esperienza; a poco a poco assuefacendosi di nuovo a
mirarle da lungi, donde elle paiono molto più belle e più
degne che da vicino, si dimentica della loro vanità e
miseria; torna a formarsi e quasi crearsi il mondo a suo
modo; apprezzare, amare e desiderare la vita; delle cui
speranze, se non gli è tolto o il potere o il confidare di
restituirsi alla società degli uomini, si va nutrendo e
dilettando, come egli soleva a' suoi primi anni. Di modo
che la solitudine fa quasi l'ufficio della gioventù; o
certo ringiovanisce l'animo, ravvalora e rimette in opera
l'immaginazione, e rinnuova nell'uomo esperimentato i
beneficii di quella prima inesperienza che tu sospiri. Io
ti lascio; che veggo che il sonno ti viene entrando; e me
ne vo ad apparecchiare il bel sogno che ti ho promesso.
Così, tra sognare e fantasticare, andrai consumando la
vita; non con altra utilità che di consumarla; che questo
e l'unico frutto che al mondo se ne può avere, e l'unico
intento che voi vi dovete proporre ogni mattina in sullo
svegliarvi. Spessissimo ve la conviene strascinare co'
tarla in sul dosso. Ma, in fine, il tuo tempo non è più
lento a correre in questa carcere, che sia nelle sale e
negli orti quello di chi ti opprime. Addio.
Tasso: Addio. Ma senti. La
tua conversazione mi riconforta pure assai. Non che ella
interrompa la mia tristezza: ma questa per la più parte
del tempo è come una notte oscurissima, senza luna né
stelle; mentre son teco, somiglia al bruno dei crepuscoli,
piuttosto grato che molesto. Acciò da ora innanzi io ti
possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei
solito di abitare.
Genio: Ancora non l'hai
conosciuto? In qualche liquore generoso. |