Ruysch fuori dello studio, guardando per
gli spiragli dell'uscio: Diamine! Chi ha insegnato la musica
a questi morti, che cantano di mezza notte come galli? In verità che
io sudo freddo, e per poco non sono più morto di loro. Io non mi
pensava perché gli ho preservati dalla corruzione, che mi
risuscitassero. Tant'è: con tutta la filosofia, tremo da capo a
piedi. Mal abbia quel diavolo che mi tentò di mettermi questa gente
in casa. Non so che mi fare. Se gli lascio qui chiusi, che so che
non rompano l'uscio, o non escano pel buco della chiave, e mi
vengano a trovare al letto? Chiamare aiuto per paura de' morti, non
mi sta bene. Via, facciamoci coraggio, e proviamo un poco di far
paura a loro.
Entrando: Figliuoli, a che giuoco giochiamo? non vi ricordate di
essere morti? che è cotesto baccano? forse vi siete insuperbiti per
la visita dello Czar , e vi pensate di non essere più soggetti alle
leggi di prima? Io m'immagino che abbiate avuto intenzione di far da
burla, e non da vero. Se siete risuscitati, me ne rallegro con voi;
ma non ho tanto, che io possa far le spese ai vivi, come ai morti; e
però levatevi di casa mia. Se è vero quel che si dice dei vampiri, e
voi siete di quelli, cercate altro sangue da bere; che io non sono
disposto a lasciarmi succhiare il mio, come vi sono stato liberale
di quel finto, che vi ho messo nelle vene. In somma, se vorrete
continuare a star quieti e in silenzio, come siete stati finora,
resteremo in buona concordia, e in casa mia non vi mancherà niente;
se no, avvertite ch'io piglio la stanga dell'uscio, e vi ammazzo
tutti.
Morto: Non andare in collera;
che io ti prometto che resteremo tutti morti come siamo, senza che
tu ci ammazzi.
Ruysch: Dunque che è cotesta
fantasia che vi è nata adesso, di cantare?
Morto: Poco fa sulla mezza notte
appunto, si e compiuto per la prima volta quell'anno grande e
matematico, di cui gli antichi scrivono tante cose; e questa
similmente è la prima volta che i morti parlano. E non solo noi, ma
in ogni cimitero, in ogni sepolcro, giù nel fondo del mare, sotto la
neve o la rena, a cielo aperto, e in qualunque luogo si trovano,
tutti i morti, sulla mezza notte, hanno cantato come noi quella
canzoncina che hai sentita.
Ruysch: E quanto dureranno a
cantare o a parlare?
Morto: Di cantare hanno già
finito. Di parlare hanno facoltà per un quarto d'ora. Poi tornano in
silenzio per insino a tanto che si compie di nuovo lo stesso anno.
Ruysch: Se cotesto è vero, non
credo che mi abbiate a rompere il sonno un'altra volta. Parlate pure
insieme liberamente; che io me ne starò qui da parte, e vi ascolterò
volentieri, per curiosità, senza disturbarvi.
Morto: Non possiamo parlare
altrimenti, che rispondendo a qualche persona viva. Chi non ha da
replicare ai vivi, finita che ha la canzone, si accheta.
Ruysch: Mi dispiace veramente:
perché m'immagino che sarebbe un gran sollazzo a sentire quello che
vi direste fra voi, se poteste parlare insieme.
Morto: Quando anche potessimo,
non sentiresti nulla; perché non avremmo che ci dire.
Ruysch: Mille domande da farvi
mi vengono in mente. Ma perché il tempo è corto, e non lascia luogo
a scegliere, datemi ad intendere in ristretto, che sentimenti
provaste di corpo e d'animo nel punto della morte.
Morto: Del punto proprio della
morte, io non me ne accorsi.
Gli altri morti: Né anche noi.
Ruysch: Come non ve
n'accorgeste?
Morto: Verbigrazia, come tu non
ti accorgi mai del momento che tu cominci a dormire, per quanta
attenzione ci vogli porre.
Ruysch: Ma l'addormentarsi è
cosa naturale.
Morto: E il morire non ti pare
naturale? mostrami un uomo, o una bestia, o una pianta, che non
muoia.
Ruysch: Non mi maraviglio più
che andiate cantando e parlando, se non vi accorgeste di morire.
Così colui, del colpo non accorto,
Andava combattendo, ed era morto,
dice un poeta italiano. Io mi pensava che sopra questa faccenda
della morte, i vostri pari ne sapessero qualche cosa più che i vivi.
Ma dunque, tornando sul sodo, non sentiste nessun dolore in punto di
morte?
Morto: Che dolore ha da essere
quello del quale chi lo prova, non se n'accorge?
Ruysch: A ogni modo, tutti si
persuadono che il sentimento della morte sia dolorosissimo.
Morto: Quasi che la morte fosse
un sentimento, e non piuttosto il contrario.
Ruysch: E tanto quelli che
intorno alla natura dell'anima si accostano col parere degli
Epicurei, quanto quelli che tengono la sentenza comune, tutti, o la
più parte, concorrono in quello ch'io dico; cioè nel credere che la
morte sia per natura propria, e senza nessuna comparazione, un
dolore vivissimo.
Morto: Or bene, tu domanderai da
nostra parte agli uni e agli altri: se l'uomo non ha facoltà di
avvedersi del punto in cui le operazioni vitali, in maggiore o minor
parte, gli restano non più che interrotte, o per sonno o per letargo
o per sincope o per qualunque causa; come si avvedrà di quello in
cui le medesime operazioni cessano del tutto, e non per poco spazio
di tempo, ma in perpetuo? Oltre di ciò, come può essere che un
sentimento vivo abbia luogo nella morte? anzi, che la stessa morte
sia per propria qualità un sentimento vivo? Quando la facoltà di
sentire è, non solo debilitata e scarsa, ma ridotta a cosa tanto
minima, che ella manca e si annulla, credete voi che la persona sia
capace di un sentimento forte? anzi questo medesimo estinguersi
della facoltà di sentire, credete che debba essere un sentimento
grandissimo? Vedete pure che anche quelli che muoiono di mali acuti
e dolorosi, in sull'appressarsi della morte, più o meno tempo avanti
dello spirare, si quietano e si riposano in modo, che si può
conoscere che la loro vita, ridotta a piccola quantità, non e più
sufficiente al dolore, sicché questo cessa prima di quella. Tanto
dirai da parte nostra a chiunque si pensa di avere a morir di dolore
in punto di morte.
Ruysch: Agli Epicurei forse
potranno bastare coteste ragioni. Ma non a quelli che giudicano
altrimenti della sostanza dell'anima; come ho fatto io per lo
passato, e farò da ora innanzi molto maggiormente, avendo udito
parlare e cantare i morti. Perché stimando che il morire consista in
una separazione dell'anima dal corpo, non comprenderanno come queste
due cose, congiunte e quasi conglutinate tra loro in modo, che
constituiscono l'una e l'altra una sola persona, si possano separare
senza una grandissima violenza, e un travaglio indicibile.
Morto: Dimmi: lo spirito è forse
appiccato al corpo con qualche nervo, o con qualche muscolo o
membrana, che di necessità si abbia a rompere quando lo spirito si
parte? o forse è un membro del corpo, in modo che n'abbia a essere
schiantato o reciso violentemente? Non vedi che l'anima in tanto
esce di esso corpo, in quanto solo è impedita di rimanervi, e non
v'ha più luogo; non già per nessuna forza che ne la strappi e
sradichi? Dimmi ancora: forse nell'entrarvi, ella vi si sente
conficcare o allacciare gagliardamente, o come tu dici, conglutinare?
Perché dunque sentirà spiccarsi all'uscirne, o vogliamo dire proverà
una sensazione veementissima? Abbi per fermo, che l'entrata e
l'uscita dell'anima sono parimente quiete, facili e molli.
Ruysch: Dunque che cosa è la
morte, se non è dolore?
Morto: Piuttosto piacere che
altro. Sappi che il morire, come l'addormentarsi, non si fa in un
solo istante, ma per gradi. Vero è che questi gradi sono più o meno,
e maggiori o minori, secondo la varietà delle cause e dei generi
della morte. Nell'ultimo di tali istanti la morte non reca né dolore
né piacere alcuno, come né anche il sonno. Negli altri precedenti
non può generare dolore perché il dolore è cosa viva, e i sensi
dell'uomo in quel tempo, cioè cominciata che è la morte, sono
moribondi, che è quanto dire estremamente attenuati di forze. Può
bene esser causa di piacere: perché il piacere non sempre è cosa
viva; anzi forse la maggior parte dei diletti umani consistono in
qualche sorta di languidezza. Di modo che i sensi dell'uomo sono
capaci di piacere anche presso all'estinguersi; atteso che
spessissime volte la stessa languidezza e piacere; massime quando vi
libera da patimento; poiché ben sai che la cessazione di qualunque
dolore o disagio, e piacere per se medesima. Sicché il languore
della morte debbe esser più grato secondo che libera l'uomo da
maggior patimento. Per me, se bene nell'ora della morte non posi
molta attenzione a quel che io sentiva, perché mi era proibito dai
medici di affaticare il cervello; mi ricordo però che il senso che
provai, non fu molto dissimile dal diletto che è cagionato agli
uomini dal languore del sonno, nel tempo che si vengono
addormentando.
Gli altri morti: Anche a noi
pare di ricordarci altrettanto.
Ruysch: Sia come voi dite:
benché tutti quelli coi quali ho avuta occasione di ragionare sopra
questa materia, giudicavano molto diversamente: ma, che io mi
ricordi, non allegavano la loro esperienza propria. Ora ditemi: nel
tempo della morte, mentre sentivate quella dolcezza, vi credeste di
morire, e che quel diletto fosse una cortesia della morte; o pure
immaginaste qualche altra cosa?
Morto: Finché non fui morto, non
mi persuasi mai di non avere a scampare di quel pericolo; e se non
altro, fino all'ultimo punto che ebbi facoltà di pensare, sperai che
mi avanzasse di vita un'ora o due: come stimo che succeda a molti,
quando muoiono.
Gli altri morti: A noi successe
il medesimo.
Ruysch: Così Cicerone dice che
nessuno è talmente decrepito, che non si prometta di vivere almanco
un anno. Ma come vi accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito
del corpo? Dite: come conosceste d'essere morti? Non rispondono.
Figliuoli, non m'intendete? Sarà passato il quarto d'ora.
Tastiamogli un poco. Sono rimorti ben bene: non è pericolo che mi
abbiano da far paura un'altra volta: torniamocene a letto
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