Era in mezzo del ciel la
curva luna,
E di Micon la povera capanna
Sol piccola da un lato ombra spandea.
Chino sul destro braccio, ed appoggiando
Alle ginocchia il cubito, dell'uscio
Sul facile gradin sedea Micone.
Egli era triste, e muto. Il tenerello
Dameta il figliuolin, che ad ogni istante
Temea la mamma udir chiamarlo al sonno,
Scherzandogli d'intorno, e saltellando
La mano gli prendea, e or d'una cosa
Or d'altra il ricercava: un panierino
Mostravagli talor da lui tessuto,
Talor raccolto un fresco fior, talora
Nella socchiusa man lucido insetto
Sorpreso in aria da sagace colpo:
E il rimirava in faccia, e avidamente
Plauso chiedea col guardo, e col sorriso.
Quel, serio, e taciturno a stento ai detti,
O a fuggitivo riso i labbri apriva.
Alfin proruppe:
Micone
O amabile Dameta,
Di', figlio mio, del tuo maggior fratello
Non ti ricordi tu? più non rammenti
Il tuo Filino? Ei t'ha lasciato, e un anno
E' che nol vedi più. le prime rose
Spuntavano, com'or, su quella fratta,
Quando, i suoi giuochi abbandonati, il vidi
Seder pallido, e muto. Io gli chiedea:
Figlio, perché qui sei? perché non giuochi?
Perché non vai con tuo fratello al prato?
Se scendi a sollazzarti. Hai forse male?
No, padre, ei mi dicea, no, nulla io sento,
Ma stanco io sono, e qui riposo; or ora
Tornarò con Dameta a trastullarmi.
Così sempre ei dicea, ma sempre il male
Più gli appria sul viso. Un dì di Festa
Alfine ei si levò l'estrema volta,
Poi più non sorse. Oh come, allor che a casa
La sera mi vedea tornar dal campo,
Lieto in chiamarmi mi tendea le mani,
E la mia mi baciava, e mi chiedea
Se stanco fossi, e sempre a sè vicino
M'avria voluto. Un giorno alfin (dimani
Quel funesto dì riconduce il sole)
Mi levai, corsi a lui, chino sul letto
Gli diedi un baico, e come stasse il chiesi.
Ei più non rispondea: l'occhio mi volse
Cui luccicante lacrima copria:
Ma nulla dir poté, più non dischiuse
Il moribondo labbro. Un opportuno
Rimedio al male, il vecchio Alcon, quel Saggio,
Cui sì spesso vedesti, e cui sì spesso
Della villa consultano i pastori,
Indicato ci avea. Per procacciarlo
Impaziente alla città mi volsi.
Saliva il sole in cielo, e la marina
Di lontano splendea: ma la campagna
Era tacita ancor. Passai non lungi
A quell'altro palagio, che alla luna
Or vedi biancheggiar dietro alle piante,
Colà vicino alla maestra via.
Della Villa i Signori eran sepolti
Nel dolce sonno del mattin. Pur vidi
Aperta una finestra, intorno a cui
Sporgea ferrea ringhiera, e dentro l'ampia
Camera Signoril, sul pavimento
E il lucido apparato, che l'opposta
Parete ricopria, dal sol dipinta
L'immagine mirai della finestra.
A cui distanza con negletta veste
Un dei servi passar vidi, che intento
Sulla scopa pendea. Quanto lugubri
Per me fur quei momenti! Alla cittade
Giunsi, tolsi il rimedio, e qua tornai.
Fra speme, e fra timor, tremante, incerto
Entrai sospeso... Morto era Filino.
Pallido il rimirai: finito io vidi
Il respirar sulle gelate labbra:
Serrate le palpebre, e rilucenti
Per ghiacciato sudo l'umide chiome.
Ahi mio Filino! Da quel tempo ancora
Quel mesto orror, quei funebri momenti,
Quel tristo dì dimenticar non posso.
Dameta
Ben Men sovvengo anch'io: che nel levarmi
Quella mattina, oltre l'usato io vidi
Trista la mamma. Al mio Filino io tosto
Correr voleva: ella il vietò, mi disse
Che ancor dormiva, e uscir mi fece al prato
Ma nel tornar con festa, e saltellando
Pianger la vidi. Io m'acchetai, pian piano
le venni appresso, e presale la gonna,
Mesto le dimandai perché piangesse.
Ella china abbracciommi, ed appoggiando
Alla mia la sua fronte, ah figlio, disse,
Caro Dameta mio, Filino è morto.
Allor piansi ancor io. La mamma invano
Trattenermi volea: poi ch'ella il guardo
Rivolse altrove, al letticciuolo io corsi
Del mio caro Filin. Fiso dapprima
Il rimirai ,poi sullo smorto viso
Mille baci gli diedi, e colla mano
Toccai la fredda guancia, e gli occhi chiusi
Di riaprir gli cercai. Deh quanto io piansi
In veder come più non si movea!
Filin! fratello! io gli diceva, oh Dio!
Tu non mi vedi più.... Che far giammai
Potrò senza di te? Quanto t'amava!
Quanto m'amavi! alla selvetta, al prato
Sempre eravamo insieme: Oh quante volte
Corremmo a gara, e a gara tra le foglie
Cogliemmo i più bei fior! quante sull'erba
La sera assisi al raggio della luna,
Cantammo insiem! Tu m'insegnavi il suono
Sopra le canne a modular, che spesso
Di tua man m'apprestavi; o a far panieri
Per empirli di fiori; o a lanciar sassi
A un albero lontan. Spesso nel bosco
Tendemmo insidie agli augelletti, e insieme
Ci partimmo la preda. Entro un canneto
Spesso nascosto io l'amor tuo cercai
Deludere un momento: ansioso allora
Tu di me givi in traccia. Il riso mio,
O lo scrosciar delle vicine canne
Mi tradiva talor: tu mi scoprivi,
E lieto a me correvi, e in abbracciarmi
Del mio crudo piacer mi riprendevi.
Oh quanto ci amavamo! Ah tutto tutto
E' finito per noi. caro fratello
Tu mi lasciasti..... Al giuoco, in casa io sempre
Solo restar dovrò? No, che la vita
Menar più non potrei.... Caro Filino,
Ah tu moristi, ah morir voglio anch'io.
Egli piangea; tra le ginocchia il prese
Il buon Micone, e gli asciugava il pianto,
E consolando il già.
Micone
Diman condurti
Alla cittade io vo', diman la tomba
Ti mostrerò di tuo fratello, e voglio
Che venga insiem con noi la mamma ancora.
Ah figlio! ah tu sei morto! il padre tuo
Che si' t'amo', dimenticar sapresti? |
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Che fai tu,
luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita?
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
E' lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir della terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate a semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dire questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornare sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita e' male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
S' che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a quasi cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, ne' di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
E' funesto a chi nasce il di' natale.
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