Capitolo 4


4.1) Divinità e religione

Riprendendo le considerazioni sopra esposte e ribadendo il rapporto primario che io riconosco esserci tra il DR e le religioni in generale, rispetto alle quali esso è alternativo e oppositivo, devo soffermarmi adeguatamente su questo tema. Preciso subito che a mio parere è preliminarmente necessario operare una netta separazione tra le religioni teiste e quelle atee, separazione molto spesso trascurata, ma che è indispensabile per non tener insieme fedi, come le tre abramitihe, che ipostatizzano una divinità creatrice e reggitrice con quelle, del tipo Buddhismo o Taoismo (basate piuttosto su di un ascesi meditativa e comportamentale verso il nirvana, l'illuminazione, lo spirito,la perfezione,ecc.) le quali non prevedono, anche se non la escludono, divinità alcuna. Non a caso esse, molto spesso e da più parti, vengono correttamente definite "sistemi di pensiero" o decisamente "filosofie", piuttosto che religioni.

Soltanto le prime quindi vanno considerate religioni "vere e proprie", mentre le seconde posseggono assai più i denotati di filosofie ascetiche, essendo basate su un processo di "purificazione-formazione" o di "ascesi verso il Tutto", piuttosto che sulla credenza nella rivelazione e nella pratica devozionale liturgica a fronte di una divinità assoluta e trascendente. Per molti versi le seconde si presentano persino come "immanentistiche", poichè tutti i processi avvengono e si concludono nel mondo in cui viviamo, senza prevedere dei luoghi trascendentali dove risieda il dio-persona e dove il fedele aspiri a giungere, quale meta finale post mortem. Questa differenziazione ci consente di restringere il campo di indagine e di prendere in considerazione le religioni che meglio rappresentano quelle credenze totalizzanti, che nell’offrire una concezione del mondo esaustiva e globale la vincolano all’esistenza di un dio unico, creatore, ordinatore, legislatore e giudice. Tali sono per eccellenza le già citate tre religioni monoteiste che si rifanno ad Abramo.

Va osservato che è abbastanza facile e naturale avanzare dubbi sul fatto che le religioni abramitiche avessero pochi titoli già in passato, ma meno che mai oggi, per sostenere le loro tesi creazionistiche fedeli alla Bibbia, e che tuttavia esse continuino a difenderle a spada tratta, perché senza di esse crollerebbe tutto il loro impianto dottrinario. A ben vedere quelle tesi costituiscono infatti una base irrinunciabile e il cedere di un solo passo su quel terreno causerebbe il crollo di tutta la costruzione fideistica. Non a caso i tentativi di screditare il darwinismo sono perciò continui e implacabili; ciò avviene anche con l'aiuto di numerosi scienzati credenti, i quali (in assoluta buona fede religiosa e in pessima fede scientifica) forniscono il loro preziosissimo contributo per limitarne i danni teologici. Io penso tuttavia che il loro compito sia decisamente disperato e che i loro tentativi non vadano più lontano dal riconvincere il lettore già credente, il quale cerca nelle loro affermazioni un puntello alla propria fede, piuttosto che l’occasione per imparare qualcosa di più sui segreti intimi della materia o dell’universo in generale (75).

La definitiva cassazione (in verità solo teorica e non pratica) delle tesi creazionistiche datano dal momento in cui si è compreso, e in modo (io credo) incontrovertibile, che la natura vivente si autocrea nel tempo attraverso l’adattamento e la selezione naturale, tentando e ritentando gli espedienti e le strade più utili per la conservazione e il progresso di ogni specie vivente della biosfera. E che una implacabile processo selettivo punisce con l'estinzione l'incapacità di una singola specie di adattarsi alla situazione e all’ambiente, cogliendo per contro (e di volta in volta) le opportunità che, al mutare delle azioni e reazioni esterne, le mutazioni genetiche offrono. Sostenere, come la teologia ufficiale cristiana vuole farci credere, che, anche qualora la selezione naturale venisse confermata nei termini più drastici, verrebbe soltanto dimostrato che Dio si serve di essa per continuare la sua opera di creazione, vuol dire a mio modesto avviso tentare l'ultima carta della mistificazione più impudente.

Eppure forse, paradossalmente, è stato proprio l'atteggiamento acritico, arrogante e irridente, di un certo positivismo metafisico del passato e di un rozzo materialismo dogmatico del presente, a giocare a favore delle fedi religiose, consentendo, in una guerra ideologica "muro contro muro", il mantenimento di una posizione che soltanto in termini di falsa cosmogonìa e di dogmatica metafisica può ancora uscire vincente. Per questa ragione il DR si sottrae ad un atteggiamento oppositivo alla religione che si basi su elementi puramente scientifici o su colpe pregresse di essa e che quindi prescinda totalmente da quella (a mio avviso doverosa) considerazione antropologica che vede la religione come "propria" e quasi "fisiologica" della psiche umana (forse addirittura indispensabile in certi contesti ed epoche) e non come fenomeno storico artificioso e aberrante, o addirittura quale strumento di potere da parte di classi dominanti, tendenti a promuovere la schiavitù psicologica del popolo per meglio realizzare quella reale. È indubitabile che ciò sia avvenuto in diverse teocrazie e tirannie del passato remoto e recente, ma non si può negare che le religioni in generale, e soprattutto i politeismi su base mitica, abbiano svolto un compito fondamentale nello sviluppo delle culture e delle civiltà.

Diciamo che in un mondo prescientifico e pretecnologico, di ieri come di oggi, è impensabile che qualcuno non si assuma il compito di fornire indicazioni sulla storia del mondo e sulla sua struttura, favorendo il costituirsi in una comunità di un patrimonio minimo di coordinate concettuali, tali da definire il rapporto tra l’uomo e l’universo, tra l’ordine e il caos, tra il bene e il male, tra la vita e la morte. In questo senso va riconosciuto alle religioni primitive anche il tentativo gnoseologico di spiegare il mondo e il suo offrirsi, la vita e la morte che vi regnano, il senso e il non senso delle parti e del tutto.

Per queste ragioni la religione, in generale, va studiata attentamente nei suoi significati riposti e non demonizzata né criminalizzata. In altre parole: le religioni, in quanto fondamento principale di tutte le culture, non vanno espunte ma assunte e soprattutto "storicizzate". Le religioni devono considerarsi sopravvivenze culturali tutto sommato positive, le quali, in assenza di alternative accettabili per la ragione e per la psiche, continuano a permanere, perfettamente funzionanti, anche nel mondo contemporaneo ipertecnologico, in ampie fasce di popolazione. E si potrebbe anche aggiungere che finché non si apriranno orizzonti extrafisici nuovi e credibili,da un punto di vista strettamente antropologico, si potrebbe ritenere persino preferibile il persistere di riferimenti religiosi piuttosto che il trovarsi immersi nelle aride plaghe di certo rozzo materialismo radicale e nichilistico, negatore di ogni valore e privo di prospettive umanistiche ed umanizzanti.

D’altra parte, tutto ciò che gli uomini hanno prodotto nei millenni ha sempre risposto a qualche esigenza fondamentale. La scienza e la filosofia, la religione e la poesia sono sorte e si sono sviluppate sotto l'azione di spinte analoghe a quelle che hanno determinato gli sviluppi dell'agricoltura, della medicina o della meccanica. Diversa è la parte richiedente: la mente nelle sue diverse funzioni (intelletto, ragione, psiche, idema) oppure il corpo, nel suo bisogno di efficienza, cibo, sessualità, benessere, prolungamento della vita, ecc.. Di quest'ultimo, tanto per esemplificare sinteticamente, l'agricoltura risolve il problema del cibo, la medicina quello della salute, la meccanica quello della fatica. Mentre la scienza e la filosofia gratificano e placano le inquietuini dell'intelletto, la matematica e la logica rispondono alle esigenze della ragione, la religione tranquillizza e rassicura la psiche nella sua necessità di omeostasi, la poesia attiva l'idema, la nutre e la forma in termini di sensibilità e ricchezza intuitiva.

Ma vediamo allora nel dettaglio come stanno le cose. Il corpo ha trovato nelle attività citate soluzioni adeguate e sufficienti, ancorché lontane dall'evitare la sofferenza, il degrado fisico e psichico, la morte. La mente invece ha trovato soluzioni molto parziali alle esigenze dei suoi quattro componenti, poiché non ha potuto in alcun modo mettere fine agli assalti dell’ignoto, all'incertezza dell'avvenire, alla relatività della conoscenza e ai cogenti limiti posti dalla necessità della materia che ci costituisce e nella quale siamo immersi. Una delle ragioni sta certamente nel fatto che gli organi corporei possono avere sì bisogni differenziati, ma essi sono in ogni caso univoci, mentre le organizzazioni(76) funzionali della mente hanno esigenze differenti e talvolta antitetiche non sempre facilmente conciliabili. Si potrebbero allora ipotizzare frequenti e inavvertibili conflitti a livello inconscio della psiche con la ragione e l’intelletto oppure dell’idema con la psiche e la ragione, tali da determinare dei sotterranei stati dissociativi, avvertibili soltanto come un momentaneo o persistente disagio, non imputabile a situazioni o fatti chiaramente oggettivabili.

Al di là di queste generalità sul problema delle esigenze fondamentali dell'uomo testé delineate vorrei ora entrare nel tema specifico del presente capitolo, per sottolineare che è la psiche l'organizzazione dominante all’interno del nostro sistema mentale (77), anche per il fatto che essa è, in linea evolutiva,la parte più antica dell'encefalo; per questa ragione la psiche può essere anche definita l'organizzazione-base di tutta la nostra struttura mentale. Essa infatti rappresenta filogeneticamente la funzione antropica più antica e nello stesso tempo la più presente e cogente nello svolgersi della vita comune e quotidiana. Interprete ad un tempo di esigenze primarie del corpo, nonché elemento conservativo rispetto alle altre tre organizzazioni, la psiche persegue (a protezione della propria omeostasi e di quella generale) la più armonica integrazione tra le funzioni del corpo (vitali e nervoso-motorie) e quelle della mente. Ma se la funzione primaria è quella del mantenimento della propria omeostasi (promuovendo l’esorcizzazione dell’ignoto, del caos e della morte) essa persegue appunto anche quella globale, nel senso che anche a livello strettamente fisiologico tutto il nostro organismo, (nella sua tendenza ad evitare variazioni interne od esterne che richiedano un "lavoro" di adattamento, o, nei casi peggiori, di dover far fronte al trauma e alla malattia) può funzionare e difendersi "al meglio" soltanto se la psiche gode di ottima salute.

Se le nostre ipotesi sono corrette risulta allora evidente che la psiche, per funzionare ed operare al meglio, ha pertanto bisogno di un "panorama generale" che le assicuri, o almeno le faccia intravedere, "chiarezza", "ordine" e "tranquillità" nello svolgersi della quotidianità e possibilmente la speranza in un futuro oltre la morte che permetta la conservazione della propria individualità, se non addirittura quella della propria immagine (78). La psiche dell'uomo è quindi una macchina perfetta nella sua funzione stabilizzatrice, la quale sceglie continuamente tra l'utile e l'inutile, tra il favorevole e il dannoso, per la miglior condizione psico-somatica e per sopravvivenza dell'individuo in un contesto a volte ostile.

Immaginificamente potremmo pensare che essa possegga un sistema immunitario nei confronti dell "estraneità" non meno raffinato di quello del nostro corponei confronti di corpi estranei al suo interno, il quale respinga tutti gli stimoli che pottebbero mettere a repentaglio il nostro equilibrio psico-fisico. Essa ha costituito il primo nucleo encefalico con prestazioni super-nervose e si è modellata nell'arco di circa cinquecentomila anni di evoluzione. Per questo essa è la struttura funzionale più potente e più solida della nostra mente, che protegge la nostra integrità esistentiva non solo dai danni endogeni o esogeni, ma persino dagli attentati potenzialmente disgreganti che le altre funzioni mentali potrebbero inferire. L'intelletto infatti potrebbe attentare alla sua omeostasi con intuizioni sconvolgenti, la ragione con le sue acrobazie logiche e computazionali, l’idema con le sue fughe verso l’orizzonte estraneo dell’aiteria. Allora appare evidente che psiche e religione sembrano fatti l’una per l’altra e come la presenza mentale di una fede religiosa circondi la psiche di una cinta di mura fortificate che rende la sua cittadella forte e sicura.

Una breve notazione a quanto sopra esposto. Già all’inizio (paragrafo 1.2) si era accennato al procedimento utilizzato per questa sorta di partizionevirtuale della mente in funzioni coordinate ma singolarmente isolabili, ai fini del tentativo euristico di analizzarne il singolo apporto funzionale nei processi mentali, apparentemente sempre unitari. Ciò mi porta anche (e per ragioni prevalemtemente discorsive) ad un’anti-scientifica "personalizzazione" delle stesse, che può creare in chi legge notevoli e giustificate perplessità delle quali sento il peso. Spero in seguito di poter giustificare meglio questa opzione, affrontandola nel dettaglio e sciogliendo i nodi che essa può aver generato.

Ma ritorniamo al tema delle religioni per riprendere un discorso già fatto e ricordare che la filosofia comunemente intesa (quelle dotta o accademica), nel suo frequente formalismo concettuale, ha un’influenza complessivamente irrilevante sul "vivere pratico", mentre invece la fede religiosa (quando c’è ed è solida) riguarda da vicino tutte le componenti esistentive ed esistenziali, e ad esso pertanto inerisce psichicamente come la chiave con la sua serratura. Questo rapporto consolidato attraverso i secoli, di generazione in generazione, ha reso la religione strumento ideale per il sorgere nella mente dell’uomo di una weltanschauung esaustiva e rassicurante. Mentre la filosofia moderna, appunto, per lo più non si occupa affatto dei bisogni esistentivi ed esistenziali, oppure se ne occupa in termini troppo intellettualistici e in modi e linguaggi incomprensibili ai più, la religione continua ad essere perfettamente "funzionale" alla psiche. Sicché, al di là dell'elevato valore culturale delle sue analisi e delle sue tesi la filosofia dotta (anche quando possiede interessanti valenze esistenziali) può agire psichicamente su un numero assai limitato di persone di cultura medio-alta, rimanendo comunque estranea, se non addirittura astrusa e scostante, per la maggioranza degli uomini della strada. Infatti, il procedimento logico e dialettico che in generale la caratterizza, con poche eccezioni, richiede un addestramento specifico, al quale può o intende accedere comunque una porzione assai limitata di umanità, mentre quella che ne è esclusa assume nei suoi confronti un atteggiamento diffidente e talvolta rancoroso, proprio perchè ne percepisce il suo carattere elitario.

Il dominio della religione sul terreno esistenziale ha fatto sì che si sia determinata una situazione monopolistica per cui, in almeno due continenti (Europa e America), il Cristianesimo ha potuto gestire le istanze metafisiche della gente, senza una vera alternativa esistenziale. Mentre analogamente, nel resto del mondo, hanno continuato a dominare le religioni tradizionali, in accordo con le esigenze antropologiche dei suoi abitanti o nell’interesse dei poteri costituiti. Succede così che in tutto il vasto mondo la scienza è una sola, ma gli scienzati, che pure hanno una visione univoca per quanto concerne la materia, si dividono poi nell'atteggiamento metafisico verso tutto ciò che la trascende. Pertanto i fisici, come i chimici o i biologi sono quasi concordi su tutto ciò che attiene la loro scienza ma poi (esclusi gli atei e forse gli agnostici) si dividono in cristiani, ebrei, musulmani, induisti, taoisti, buddhisti, ecc. Questa molteplicità di weltanschauungen è il frutto di differenti civiltà, le quali, relativamente ad un campo di credenze e di valori legato a rivelazioni, profezie, sacre scritture e miracoli, non potranno probabilmente mai trovare un terreno comune di dialogo metafisico.

E tuttavia voglio ripeterlo: sotto il profilo storico le religioni sono il prodotto più solido, e in qualche caso anche il più alto, di ogni cultura; anzi, per lo più ne rappresentano l'essenza stessa. Questa connotazione culturale fa di esse un alimento ambientale che ogni uomo assume fin dall'infanzia e che è così forte e radicato, quasi un patrimonio genetico, da opporsi a qualsiasi esito dirompente e devastante causato dalla presa di coscienza, su basi scientifiche, di una realtà verificata e verificabile che le nega. Ciò fa sì che per moltitudini di uomini le religioni assolvano meravigliosamente la loro funzione psichica, dall'età della consapevolezza fino alla morte, preservando ogni trauma psichico in un visione ordinata e rassicurante dell’universo e della vita. Esse infatti forniscono una risposta alla domanda che lascia muta ogni scienza: che senso ha vivere e che cosa si deve fare per ottenere il risarcimento di questa esistenza, per lo più caratterizzata dal dolore, in un aldilà della morte che ci ponga in comunione con Dio? Appare inoltre evidente che fornire risposte a questa domanda implica una serie di altri accrediti relativi alle norme di convivenza, alla morale e soprattutto alla definizione dei concetti di bene e di male. E ove si tenga conto che i concetti di bene e di male sono fondamentali per motivare e reggere una qualsiasi comunità, si capisce perché le religioni abbiano storicamente costituito la base istituzionale di ogni popolo e il motore culturale di ogni civiltà.

Facendo un passo indietro, e limitatamente all'Occidente, intendo ora soffermarmi a considerare il fatto che anche tra le religioni valgono, paradossalmente, le leggi di quella ragione biologica che noi abbiamo posto e che esse sicuramente negherebbero: infatti ci sono quelle perdenti e quelle vincenti! A grandi linee potrebbe essere tracciato un confine divisorio tra due classi: quella delle religioni ingenue o naturali (perdenti) e quella delle religioni "rivelate" o ideologiche (vincenti). Gli apparati che caratterizzano le due classi sono completamente diversi, per dimensioni e qualità. Le prime hanno accompagnato e accompagnano tuttora le culture in cui permane uno stretto rapporto degli individui che compongono il gruppo con la natura che li circonda, la quale viene lasciata sostanzialmente integra e colla quale esiste una forma di immutabile simbiosi. In questa forma di religione la divinità si manifesta in modo plurale ed è sostanzialmente presente negli elementi che costituiscono l'ambiente vitale: aspetti e fenomeni della natura, animali, vegetali, ecc. Quì la divinità è immanente al territorio e al contesto vitale; ciò ci autorizza a definire queste religioni anche come "immanentistiche". L'apparato concettuale è molto vago e strettamente legato al mito delle origini (del mondo e dell’uomo). Questo costituisce una grande favola che cresce dall'interno, poiché chiunque lo trasmetta ne è portatore e interprete, quindi in modo più o meno volontario lo riduce o lo amplia, lo sviluppa e lo modifica. Pertanto, questa specie particolare e arcaica di "sacra scrittura", quasi sempre soltanto orale, è fatta (attraverso i secoli) dai molti, o almeno da chiunque abbia un pò di fantasia e quel tanto di abilità e carisma letterario da imporla all'attenzione degli altri. Il mito diventa così una specie di fiume, al quale sono affluite molte acque, che poi si suddivide in tanti effluenti diversificati, ma tutti riconducibili ad un'origine comune. Col passare del tempo e della trasmissione il mito si rafforza, si consolida e si cristallizza. Esempi di queste religioni ingenue, o immanentistiche, si hanno tutt'oggi presso quei popoli che, con una certa approssimazione, vengono definiti primitivi. Ma anche le religioni politeiste o "pagane" del mondo europeo e mediorientale preabramitico, prima tra tutte quella greca, sono appartenute a questa classe. E ovviamente sono state spazzate via in pochi secoli dalla comparsa delle ideologie del "Dio unico", che costituisono la seconda classe.

Questa classe è relativa alle tre grandi religioni monoteiste, che ho chiamato anche abramitiche: l'ebraica, la cristiana e l'islamica: triade che in realtà ha la prima di essa quale capostipite e modello di riferimento. Quì la natura perde ogni divinizzazione e il dio unico è collocato fuori del contesto vitale, in una più o meno definita "ulteriorità", che trascende il mondo degli uomini: questo fatto legittima il termine "trascendentalistiche". In esse non vi è mito precario e plasticamente modificabile ma "storia sacra" definita; il dettato di Dio è raccolto nei testi immodificabili da lui ispirati e dei quali tutt'al più è consentita l'interpretazione. Questi testi sono garantiti dalla "rivelazione" che li informa, operata da Dio stesso, di cui sono portatori eterni e quindi "fissati" una volta per tutte. È evidente che in questo caso la struttura ideologica è molto solida e dà luogo a una fede univoca, la quale non tollera deviazioni di sorta che ne possano mettere in discussione i fondamenti e la forma. In esse infatti il contenuto testuale costituisce una totalità rivelata "assoluta" e quindi "non relativizzabile" in alcun modo. Allora è evidente che diventa facile e naturale, sulla base degli scritti sacri, derivarne un sistema chiaro e semplice di credenze e di prescrizioni, che promuova valori condivisibili e vincolanti per tutti gli individui che sono inseriti nel suo contesto.

L'irrompere storico dell'ipostatizzazione di un Dio unico è sicuramente l'accadimento fondamentale per cui le religioni politeiste hanno perso rapidamente consenso appena sono apparse quelle monoteiste. Il passaggio dalla molteplicità all'unità è già di per sé stesso appagante e rassicurante. Soprattutto perché, abolendo la pluralità dei soggetti divini, attribuisce ad una unica volontà la realtà del mondo, eliminando tutte le contraddizioni e le eventuali contrapposizioni. E siccome la volontà di Dio non può che essere per il bene, questo è un valore "interno" alla sacra scrittura che ne reca testimonianza ed è pertanto desumibile dal testo che la costituisce e la rivela. Il male cessa di essere reale nella sua terribilità materiale, ma assume le caratteristiche o del male "formativo", che mette alla prova il fedele per un miglior fine, oppure quella del male "punitivo", mandato dalla divinità per l'espiazione del male "vero", quello "metafisico": il peccato. Il male infatti, dal punto di vista della fede, non viene misurato sulla base delle conseguenze che produce, ma in base alla maggiore o minore trasgressione delle leggi divine. Al punto che la morale diventa una morale dell'intenzione più che dell'azione, e il fedele si sente permanentemente "guardato e udito" da Dio quale giudice intimo. Ciò comporta naturalmente un aspetto fondamentale del rapporto, poiché se Dio ti vede, ti ode e ti legge dentro, tu puoi instaurare un dialogo diretto con lui. Allora la preghiera non è più soltanto atto di fede, richiesta, invocazione e lode, ma dialogo con la "verità assoluta" di Dio, alla quale l’uomo può accedere attraverso la fede.

Non si potrà mai dimenticare quante lotte e quanti sacrifici siano stati compiuti dagli uomini in nome di Dio. Ci si potrebbe chiedere come, in certi frangenti drammatici, gli uomini avrebbero mai potuto resistere e sopravvivere ai disagi e alle sofferenze, se la fede, con la sua promessa escatologica, non avesse fornito motivazioni, conforto e speranze. Queste religioni hanno depotenziato l'ignoto e risarcito l'incubo del mistero col dono della grazia (o simili), che allevia il senso della precarietà e della paura. Esse sono le madri della speranza e con esse hanno potuto diventare istituzioni la pietà e la carità. Nessuna società umana, evoluta e un poco organizzata, si è costituita senza fondarsi sull'approvazione e sulla benevolenza divina, la quale, attraverso i suoi ministri, ne ha dettate, o almeno suggerite, le leggi. Se, come abbiamo sostenuto, le cose di cui la psiche umana ha assolutamente bisogno sono la chiarezza, l'ordine e la speranza, avendo terrore "omeostatico" dell’ignoto, del caos e del nulla, si capisce da che cosa derivi il trionfo delle fedi monoteiste: complete e non complesse, esaustive ed ottimistiche.

Il fatto che spesso le religioni mortifichino l'intelletto umano, privilegiando la fede cieca nella verità rivelata e l'obbedienza devota ed umile ai precetti, significa soltanto che l'uomo deve riconoscersi nell'intelletto divino, di cui il suo è "copia". In realtà, le esigenze dell'intelletto umano sono già attribuite, nel loro massimo grado ideale, a quello divino e quindi in esso conferite e riconosciute (79), per cui, da un certo punto di vista, può essere soltanto formale e apparente la svalutazione dell'uomo rispetto a Dio, poichè Dio è il "dio degli uomini" e loro padre protettore. È come se il popolo degli uomini avesse eletto Dio come suo re metafisico: infatti Dio "esiste" perché ci sono uomini che lo fanno esistere, a proprio vantaggio, uso e consumo.

A farne le spese è invece la Natura (nostra vera madre "reale"), dalla quale l'uomo (fatto a immagine di Dio) viene ontologicamente staccato, la quale viene a presentarsi come un entità straniera e matrigna, da assoggettare e saccheggiare su autorizzazione divina. In termini parentali un padre "inventato" sobilla gli uomini a rivoltarsi contro la madre "reale". Questa è l’enorme differenza esistente tra le religioni immanentistiche che invece si riconoscono nella natura e quelle tracendentalistiche che l’oggettivizzano. Allora se Dio è il "nostro dio" la Natura potrà ben rispondere alla crudele ragione biologica (frutto del peccato o del demonio), ma l'uomo con le sue azioni e le sue opere l’asservirà e la modificherà in modo che piaccia al padre celeste, che non a caso viene collocato "fuori" dalla natura. La ragione biologica viene allora sussunta nella volontà di Dio, che ne ammette il male a fin di bene. Essa può ben regolare la biosfera attraverso una feroce lotta per la sopravvivenza, che sconfina sempre nella lotta per la supremazia e il potere, ma ciò è il frutto del "peccato originale" e non delle leggi biologiche, che in quanto divine non possono nascondere alcuna negatività.

Tutte le religioni trascendentaliste perseguono per loro natura, e da sempre, anche questo fine: autorizzare l’uomo a disporre dell’ambiente e delle altre bestie a proprio arbitrio. Ancorché esse abbiano abbandonato la violenza nel combattere le altre fedi o nel sopprimere le proprie eresie interne, il loro fine permane sempre il potere; sulle anime certo, ma anche sui corpi, avvallando una violenza sulla materia, in qualsiasi forma essa si presenti, che non è mai stata veramente censurata. Per altri versi (ma qui in senso positivo e a favore della religione) la materia plasmabile e lavorabile (in pittura e scultura) si offre anche all’uomo per una sua manipolazione a maggior gloria di Dio. Solo una materia dominata e trasformata dall’uomo (figlio di Dio) può diventare sacra, e in tal senso la religione cristiana in particolare (ma anche quella ebraica e quella islamica) hanno promosso e favorito la musica, la letteratura e le arti figurative quali manifestazioni del divino nell’opera dell’uomo, da esso ispirate e da rioffrire alla divinità quale forma sostitutiva e sublimata delle primitive offerte sacrificali. Quel che nessuno ha mai sospettato, come si dirà più avanti, è che alla base dell’arte non c’è già il "divino" col suo soffio creatore, ma l’aiteria, che ne fornisce materia prima, nonché modalità d’essere e forme del manifestarsi.

Attraverso la predicazione, il proselitismo e la promessa di salvazione, le religioni trascendentalistiche perseguono e conseguono il controllo e il dominio di ogni aspirazione metafisica ed escatologica. Esse agiscono mettendo in opera "la volontà di Dio" (che sappiamo essere non altro che la volontà dell'uomo rispecchiata in Dio) che è consustanziale di quella "spirituale" (ideale) potenza infinita che all'uomo è ovviamente negata nella realtà, anche quale esito delle inflessibili leggi di quella necessità che alla materia inerisce. Dio si presenta allora indiscutibilmente quale concentrato di intellezione e di attività tipicamente umane, con quell'estrapolazione virtuale che lo proietta in un ideale fantastico e irraggiungibile, ma che rimane "quasi possibile" nella prospettiva escatologica di un' unione con esso.

Il fascino della religione consta quindi anche dell’appagante filiazione umana rispetto ad un padre onnipotente che viene eletto e riconosciuto, ma che, in un inversione fantasmatica della realtà, diventa "origine" e "fine", chiudendo il cerchio su se stesso come Dio umanizzato. In tal caso acquista un certo rassicurante appagamento psicologico persino questa umana dipendenza rispetto alla "volontà di potenza", di cui Dio è depositario, unita al desiderio di avere un padre/padrone a cui fare riferimento, in un quadro chiaro e appagante di una presunta ed artificialmente creata realtà "teistica" del mondo. Ironicamente si potrebbe osservare che questo Dio potrebbe ben premiare i propri figli dopo averli tiranneggiati ed esposti a mille tribolazioni sulla Terra in nome di un peccato ancestrale che avrebbe determinato il male, eternamente scisso dal bene e da questo debellato definitivamente soltanto quando il Padre Celeste avrà deciso di porre fine all’esistenza del mondo, richiamando a sé i frutti più alti della creazione.

Le dottrine delle grandi religioni monoteiste circum-mediterranee, in una veste intellettiva e talvolta addirittura razionalistica (ma rispondendo sempre ad esigenze della psiche), conseguono così quei tre obbiettivi fondamentali già citati, in maniera brillante, efficace e convincente. Essi sono, voglio ripeterlo: 1) esorcizzare l’ignoto, 2) instaurare un ordine di valori assoluti, 3) garantire un futuro premiale oltre la morte. Ma è importante rilevare che in tale prospettiva esse sviluppano la loro azione nel campo meramente esistentivo (materiale), perché il problema esistenziale(80) (metafisico), già dato per risolto nella fede, è come se venisse messo tra parentesi o addirittura del tutto ignorato. Da ciò deriva una situazione estremamente ambigua, poiché il valore cosidetto "spirituale", del tutto contraddittorio e puramente dogmatico, viene "confermato" (o meglio reso "concreto") dagli straordinari poteri mondani sui quali la religione può contare. Potere "globale" espresso specialmente in campo culturale, ma anche in campo politico e talvolta in una non trascurabile potenza finanziaria.

Poteri tutti perfettamente coerenti con l'immagine di un dio creatore, onnisciente, giudice, onnipotente e provvidente: quindi straordinariamente "materiale", laddove tutte queste funzioni sono quelle da sempre idealmente riconosciute nel "capo-padre-padrone" perfetto. Ma proprio per sfuggire a questa pericolosa evidenza, l’infinita potenza e l'illimitato intelletto di Dio devono essere a priori dichiarati completamente trascendenti la materia, perciò devono concernere un "puro spirito" che ad essi presiederebbe: tale concetto è alla base di tutte le religioni trascendentalistiche che hanno assunto forte rilievo sociale. E la materia creata (di cui l'uomo è dominatore nel nome di Dio) è un regalo divino, frutto di un atto d'amore che rende testimonianza di un’immensa bontà, tale da superarne addirittura la perfetta giustizia. Quindi l’uomo, nei confronti di Dio, deve avere anche un sacro timore della sua giustizia e della sua ira, potendo tuttavia nello stesso tempo contare sulla sua sconfinata bontà e benevolenza. Dio diventa in tal modo un sublime concentrato di potere e di paterna benignità: quanto ci vuole per definire il perfetto tiranno "umano", appunto paternalista e benigno. In tale situazione l’unica libertà possibile sta nel fare il volere di Dio, poiché (come Adamo ed Eva insegnano) trasgredire non è conveniente.

Lo "spirito" della divinità, così formulato, rende quello di Dio un concetto assai solido e accattivante, poiché non è soltanto il "cuore" (la psiche) a farlo proprio, anche l'intelletto e la ragione, (principalmente per mezzo dei concetti di causa e di necessità) riescono ad accettarlo. Il Dio delle religioni abramitiche è quindi perfettamente coerente ed omogeneo con la materialità umana; in ogni sua facoltà esso ne è immagine enfatizzata e ridondante, carica di fascino e di gratificazione. Ad un attento esame degli attributi di Dio, tutti nel senso del "potere" e del "dominio", non è difficile giungere alla conclusione che essi non posseggono per nulla i caratteri della "spiritualità" come il buon senso comune può intenderla. Vale a dire: indifferenza verso il potere e il dominio, distacco dalla ricerca di onori, di ammirazione e di devozione, possedendo invece quelli della "supermaterialità", che ne è assolutamente antitetica. Ciò spiega l'abisso che divide la spiritualità buddhista o taoista da quella dei monoteismi abramitici per chi neutralmente (o agnosticamente) le consideri con atteggiamento obbiettivo.

Tuttavia, torno a ribadire, sarebbe un grave errore dimenticare che, storicamente, a dispetto dell’inganno da esse perpetrato, le religioni sono state anche portatrici (ma non creatrici) di grandi valori etici tuttora validi, i quali hanno sicuramente aiutato l'umanità nella formulazione di ideali di giustizia e di promozione civile, anche se talvolta accompagnate da fanatismo violento ed omicida. Questo contributo positivo alla vita e alla coesistenza tra gli uomini deve equilibrare nel giudizio storico le efferatezze che le ideologie religiose hanno prodotto e scatenato nei millenni.

Ma forse il maggior merito delle religioni va semplicemente visto, riduzionisticamente, nell’aver aiutato miliardi di uomini a sopravvivere a dolori e sofferenze, coltivando ideali di convivenza nel nome di Dio, insieme con la speranza in un risarcimento ultraterreno, dove verrebbero rimesse le ingiustizie, ricompensati i sacrifici, sublimati i sentimenti. Ciò è stato visto dalle ideologie atee come uno degli aspetti "oppiacei" della religione, ma da un punto di vista antropologico e non ideologico si deve riconoscere che la fede, almeno a livello individuale, ha "funzionato" piuttosto bene come produttrice di speranza, e che forse i nostri antenati, senza di essa, avrebbero potuto vivere ancora peggio di quanto non sia stato.

Ma allora la religione, quando le venga riconosciuto ciò che di positivo l’umanità storicamente le deve (e minimizzando volutamente ciò che di negativo essa ha determinato e determina), può continuare a dominare arbitrariamente le coscienze degli uomini in spregio all’intelletto e alla ragione? La risposta è ovviamente: no! Anche perché, con l’innalzamento del livello culturale (ove questo si verifichi), stanno diventando di dominio comune nozioni della realtà che palesemente confliggono con l’ideologia religiosa, il ché non potrebbe sussistere senza avere effetti devastanti nel rapporto tra la psiche e le altre organizzazioni mentali. Questo conflitto, inesistente per millenni, finirebbe per annullare gli straordinari effetti "omeostatici" che la religione ha avuto in passato sulla psiche, agendo nell’avvenire in senso opposto. Allora essa, da elemento stabilizzante della psiche stessa, potrebbe diventarne causa di destabilizzazione, in quanto risulterebbe di grave impaccio per il suo eugenetico "adattamento" all’evoluzione inarrestabile di ragione ed intelletto, colle quali essa si deve conciliare. Ciò metterebbe quindi in crisi quella stessa omeostasi che la la psiche ha potuto autoprodurre per millenni nutrendosi dell’illusione religiosa.

Il DR quindi, contrariamente ad atteggiamenti piuttosto diffusi tra gli atei, non intende nè criminalizzare né tanto meno irridere la religione, ma "storicizzarla" adeguatamente. Collocandola pertanto nel panorama di un passato ormai "storico", nel quale essa appare abbastanza "funzionale" al livello di evoluzione culturale e civile delle varie epoche, e non più disdicevole di molte istituzioni laiche ad essa alleate o avversarie, che non sono state meno liberticide ed oppressive di essa. Ribadisco che, a mio parere, la religione ha esercitato anche influenze positive sugli individui e sui popoli, promuovendo cultura (ad eccezione di quella scientifica) in generale e soprattutto proteggendo le arti e commettendo opere e monumenti che costituiscono un irrinunciabile patrimonio di bellezza anche per gli spiriti più antireligiosi. La cultura e l’arte hanno rappresentato per la religione degli straordinari "strumenti" di indottrinamento e di acquisizione di prestigio e magnificenza, ma la loro natura aiteriale ha fatto sì che il potere religioso (involontariamente) abbia favorito l’instaurazione di "fini" antropici (etici ed estetici), ancorché relativi, di enorme importanza per l’intera umanità.

NOTE 4.1


(75) Su questo terreno spiccano gli interventi del fisico Antonino Zichichi (Perché io credo in colui che ha fatto il mondo), quello dei fratelli Bogdanov (coautori con Jean Guitton di Dio e la scienza) e altri.

(76) Ai citati ragione, intelletto, psiche ed idema è stato dato il nome di organizzazioni mentali per sottolineare il fatto che, dal punto di vista funzionale (e ovviamente non topico), essi costituiscono, sia al loro interno sia nelle loro interazioni, delle strutture organizzate, capaci di affrontare la realtà in modo univoco e nello stesso tempo di relazionarsi e integrarsi tra loro. Ciò vale ovviamente per l "animale uomo" in generale, poichè poi (a livello del singolo) si possono instaurare situazioni di disequilibrio tra esse, dove la psiche oscuri totalmente le altre, oppure (all'opposto)dove il dominio di una ragione "strumentale" riduca l'individuo quasi a una " macchina pensante", priva di emozioni e sentimenti.

(77) Si può ritenere, con buona approssimazione, ma con le riserve del caso, che in un'ipotetica e incerta topologia delle funzioni mentali la psiche possa collocarsi in una parte medio-antica del cervello, abbastanza lontana dal primitivo cervello dei rettili, ma non meno lontana dalla parte più evoluta della corteccia.

(78) Mi riferisco a quella "resurrezione della carne" dopo il Giudizio Finale che il Cristianesimo promette.

(79) Ribadisco qui che mi riconosco completamente nell'analisi di Feuerbach, anche se non ne condivido alcuni corollari.

(80) Introduco qui (riprendendo un distinzione filosofica a suo tempo introdotta da Heidegger, ma cambiandone il significato) gli aggettivi esistentivo ed esistenziale, quali corrispettivi di materiale e aiteriale ogni qualvolta siano riferiti all'esistenza umana nel suo scorrere quotidiano. Va da sè che esistenziale può essere riferito anche a tutto ciò che riguarda la metafisica tradizionale.

(81) Ci permettiamo qui di avanzare il nostro concetto di spiritualità, che in quanto opposto a quello di materialità deve possedere delle connotazioni oppositive rispetto a quelle di potere e dominio. Ci pare pertanto di poter dire che il concetto di spiritualità che ci offrono il Buddhismo e il Taoismo sia più vicino a quella che potremmo definire (convenzionalmente) come spiritualità "autentica", per distinguerla da quella "falsa" (o almeno ambigua) delle religioni abramitiche. La spiritualità com'è intesa nel DR dovrebbe pertanto possedere quelle prerogative che, genericamente, potremmo chiamare "ascetiche".