Raccontano che trent'anni fa l'ora dell'aperitivo era uno spettacolo. In piazza dei Martiri, fra il Duomo e il teatro Comunale c'erano più Ferrari che a Montecarlo. A quei tempi Carpi era ufficialmente considerata la patria degli "sboroni", termine non elegantissimo ma di uso comune per indicare chi ci tiene a esibire il successo. Il ruggito del dodici cilindri, la villa in centro che solo il cancello costava cento milioni, la pelliccia, i gioielli. Si vendevano tante di quelle Range Rover che in Inghilterra si erano chiesti se Carpi fosse "una zona molto paludosa".
Tutt'intorno, fra le nebbie e i profumi di buon cibo grasso, ticchettavano notte e giorno le macchine per la maglieria. Era la Cina d'Italia, una macchina in ogni garage e scantinato. Accanto a ogni macchina, qualcuno passava la notte in bianco a sorvegliare che il filo non si spezzasse. Oggi la piazza è solo per i pedoni, al posto delle trattorie ci sono i wine-bar, la maglieria ha attraversato una crisi sanguinosa, migliaia di posti di lavoro persi per strada. Eppure Carpi è tornata a essere una delle capitali del lavoro italiano, perché si vede che qui ce l'hanno nel sangue. C'è una nuova generazione di imprenditori quarantenni, che gira il mondo a caccia di idee e mette insieme fatturati da record. Non più solo maglieria. Abbigliamento in genere, roba giovanile e creativa, marchi che hanno sfondato in pochi anni.
Questi nuovi imprenditori non sono nemmeno figli o nipoti dei campioni di un tempo. Sono quelli che, da bambini, guardavano con gli occhi spalancati la sfilata delle Ferrari in piazza. E non sono nemmeno "sboroni" a quei livelli. La Ferrari ce l'hanno, ma la tengono in garage, "ormai l'esibizionismo è démodé".
"Avevamo una sola macchina"
Anzi, non tutti ce l'hanno. Simona Barbieri, per esempio, no. Il suo marchio Twin-Set ormai è conosciuto in mezzo mondo, con 130 dipendenti l'azienda fa ricavi per quasi 30 milioni di euro e ha raddoppiato il fatturato in tre anni. Lei è una signora bionda e minuta, vestita di nero, che parla piano e sgrana gli occhi, e ha l'ufficio in mezzo al capannone dove marciano a ciclo continuo le macchine da maglieria. L'esatto opposto di quello che uno si aspetterebbe, e il marito Tiziano Sgarbi è come lei. Parla poco, e lavora molto. Loro due, di questa nuova generazione, sono quelli più legati al passato di Carpi. Hanno cominciato alla fine degli anni Ottanta, in un garage: "Avevamo una macchina, e mio marito stava sveglio la notte a sorvegliarla. Io e lui, e basta". La mamma di Simona faceva la sarta in casa. La suocera, anche lei cuciva.
La nonna "faceva le trecce", e cioè lavorava il truciolo con cui si preparavano i cappelli di paglia. E questo è un rimando al passato remoto di Carpi, quando la lavorazione del truciolo metteva le basi del modello produttivo che avrebbe creato il distretto della maglieria: lavoro a domicilio, un laboratorio in ogni casa. Un altro segno è che Simona abita nella villa che fu di Ciro Menotti, martire carbonaro ma anche industriale del cappello di paglia, attività nella quale era socio del duca Francesco IV d'Asburgo-Este, che prima lo incoraggiò e poi lo fece impiccare. Di questa generazione, lei è anche la sola che produce in casa gran parte della sua maglieria. A garantire il ciclo continuo adesso ci sono venti pakistani: "Alle 19.30 staccano la musica occidentale, e per tutta la notte la fabbrica viaggia al ritmo della loro".
"Una volta vestivo le bambole"
Grosso modo, Simona continua a fare quello che le piaceva da bambina: vestire le bambole in cortile. Solo che adesso, a caccia di idee, se ne va in giro per il mondo: "Può essere Los Angeles, come quest'estate. Oppure l'India per i tessuti, Hong Kong o il Giappone. Oppure Londra e Parigi: io e due ragazze, per musei, negozi, mercati, mostre, o anche solo per le strade". Un blocco da disegno e qualche matita, più della macchina fotografica. Disegna lei tutte le collezioni, non c'è niente marchiato Twin-Set dove non abbia messo le mani. Due campionari l'anno, da mostrare ai 28 agenti. E, ogni volta, il patema d'animo come se fosse la prima volta. Il marito che la rincuora ("Dovresti essere più sicura di te"), e lei che si agita ("Sgarbi, sono buga"). In italiano, incapace. Il fatto è che, una volta, qui si vendeva tutto senza problemi. Senza marchio, quello ce lo metteva l'acquirente. Adesso, per imporne uno e poi difenderlo, tocca correre e farsi venire delle idee. Ma la prontezza non manca, da queste parti, soprattutto fra quelli che hanno vissuto la stagione per certi versi epica dei "prontomoda".
Stefano Bonacini, 43 anni, è uno di loro. Con il socio Roberto Marani è titolare della Gaudì, un'altra delle imprese di successo: oltre 50 milioni di fatturato, quasi il 40 per cento in più dell'anno precedente, 50 dipendenti. La mamma cuciva maglie a domicilio, il padre aveva un piccolo salumificio. "Io facevo il rappresentante di abbigliamento. Siccome portavo a casa un sacco di lavoro, a un certo punto volevano tagliarmi le provvigioni. Ma io non accetto soprusi. Con Roberto giocavamo a pallone insieme. Lui lavorava in un piccolo prontomoda. Abbiamo provato a far da soli". Il prontomoda era una cosa così: un garage o un piccolo magazzino, scatoloni di roba fatta confezionare. "Il cliente passava, pagava in contanti, portava via la merce. Gli ordini si mettevano insieme in una settimana, massimo dieci giorni. Copiavamo tutto dalle aziende di riferimento. Tutto è nato da lì".
"Ci compreranno i cinesi"
Come cinesi, appunto. E nessuno che si faccia problemi a dire che copiava: tutti copiano, in tutti i campi. E quando la stagione un po' selvaggia dei prontomoda è tramontata, quando si è trattato di inventarsi un marchio, la scuola del mordi e fuggi è servita. Alla Gaudì macchine non ce ne sono: "Siamo stati fra i primi ad andare all'estero, nel '93-'94: Romania e Ucraina. Ora Turchia, Grecia, Pakistan, Cina. La Cina fa spavento: ci sono stato due volte, quest'anno, e fra marzo e novembre c'erano 50 capannoni nuovi. Ormai il Terzo mondo siamo noi, e un bel giorno verranno qui a comprarsi le nostre aziende". Non ancora, però, anche se a Carpi un buon numero di laboratori è in mano ai cinesi. Alla Gaudì si fa progettazione, c'è una squadra di dieci persone che inventa lo stile, che viaggia e scova idee. E, dice Bonacini, "si investe molto in comunicazione: siamo main-sponsor dell'Udinese calcio, della Toyota di Jarno Trulli, e poi gli aeroporti, la cartellonistica, le inserzioni".
"Io? Ho 200 dipendenti"
Quanto alla "sboronaggine", "siamo una generazione più intelligente e meno esibizionistica. Non sto dicendo di fare il topo. Ho una bella casa, vivo bene, mi sono preso le mie soddisfazioni. Ma cerco di non esibire. A Carpi, quand'ero bambino io, anche quello che vendeva la grucce si faceva la Ferrari. Io ho una Mercedes Ml". La voglia di non esibire lo trattiene dal confessare di essersi appena comprato una Aston Martin, dopo aver visto quella del suo socio Marani. Una Ferrari ("carrozzata Scaglietti, però grigia") ce l'ha invece Marco Marchi, titolare della Liu-Jo: 200 dipendenti, 197 milioni di bilancio consolidato, 23 negozi monomarca aperti in Cina. Marchi, 45 anni, è un altro venuto su "all'ombra dei grandi imprenditori tessili, di cui vedevamo il grande successo".
Quindi la Ferrari sì, come quelle che vedeva da bambino in piazza: "Ma ci faccio solo un giretto ogni tanto. La Ferrari è un capolavoro, e un simbolo: mica siamo modenesi per niente". Altri due simboli, i tortellini e lo gnocco fritto, invece li ha sfuggiti. "Mio padre aveva una friggitoria, ogni sera tornava a casa con quell'odore di fritto addosso. Ho deciso fin da allora che quella non era la mia storia". Anche lui è passato per l'epoca d'oro dei prontomoda: "Erano gli anni Ottanta: c'era un po' di benessere, alla gente piaceva cambiarsi spesso. E noi gli davamo roba nuova ogni settimana, a prezzi bassi, in tempi rapidissimi". Lui e il fratello Vannis. Anche alla Liu-Jo (sono i nomignoli che Marco e una sua fidanzata di gioventù si davano), non c'è nemmeno una macchina da maglieria: "Per scelta, non ne abbiamo mai comprata una. Le macchine ti condizionano, tendi a fare un certo prodotto solo per farle lavorare, e invece noi vogliamo essere flessibili". E quindi un reparto stile molto agguerrito, il reparto marketing, i modellisti, il commerciale: "Circa 200 persone, e nessuna che lavori alla fattura del capo".
"Qui decido tutto io"
Un caso a parte, per molti aspetti, è invece quello di Daniela Malpighi, 46 anni, titolare della Denny Rose. Bionda, esuberante, una che il suo marchio lo porta tatuato sul braccio (Denny è diminutivo per Daniela), che ha chiamato Denny anche il bulldog francese, e che viaggia su un inquietante Hummer nero. Manda avanti un'azienda piccola ("Sedici donne e tre uomini, mi conto anch'io perché mi sento come le mie ragazze, non mi piace che mi dicano imprenditrice"), ma un'aziendina che fa 63 milioni di fatturato. Il padre era operaio alla cantina sociale di Soliera: lei ne porta il nome tatuato dietro il collo, insieme col numero di matricola che aveva in campo di concentramento: "Ettore 1509". Altri segni particolari: "Produco tutto qui, voglio far lavorare degli italiani. Non viaggio a caccia di idee, io sto sempre qua dalla mattina alla sera. Leggo giornali, guardo la tv, e le idee mi vengono lo stesso". Lei e le sue "ragazze" mangiano insieme, come in famiglia. Quando l'azienda ha fatto il botto, nel 2003, ha comprato una Smart per ognuna di loro, poi le ha cambiate con delle Mini, col marchio sulle portiere, "ma il colore l'hanno scelto loro".
Daniela non è una che si fa problemi a confessare il successo: "Sono stata brava, anzi siamo state brave. Sono ricchissima, e dei soldi non mi importa niente". Di Ferrari ne ha due, e mostra subito i modellini: "Una F450 madreperla con interni rossi, una 575 Superamerica rossa. Ho anche una Lamborghini Murcielago nera. L'unica cosa che mi importa sono i motori". Decide tutto lei, disegna lei, e lavora sempre. "Mai stata ai Caraibi o alle Maldive. L'unica cosa esagerata che ho fatto è stata quest'estate. Ho noleggiato uno yacht da 80 metri, a quattro piani con l'elicottero, e ho invitato venti amici. Poi, siccome non ci stavano, ne ho affittato anche un altro d'appoggio da 30 metri. Ma è l'unica. Per il resto, mi diverto a lavorare. D'altra parte, studiare non se ne parlava. Non mi hanno nemmeno ammesso all'esame di terza media, da tanto asina che ero"