Lukasz Galecki - Quali sono i confini della globalizzazione?
Zygmunt Bauman: Il processo di globalizzazione non ha luogo in qualche luogo esotico all'altro capo del mondo;
la globalizzazione c'è a Leeds come a Varsavia, a New York e perfino nei villaggi della Polonia. È fuori e dentro
casa nostra, ci basta camminare per strada per rendercene conto. A livello concettuale possiamo distinguere gli
spazi globali e gli spazi locali, ma di fatto sono interconnessi. Senza alcun dubbio, quella del mondo moderno è
una globalizzazione negativa: l'abbattimento delle barriere, infatti, non ha portato soltanto alla globalizzazione
del capitale e alla libera circolazione delle merci e dell'informazione, ma anche del crimine e del terrorismo;
invece le istituzioni politiche e giuridiche, fondate sulla sovranità nazionale, rimangono escluse da questo processo.
L'aspetto negativo della globalizzazione, dunque, non è stato controbilanciato da quello positivo, e gli attuali
strumenti di controllo e regolamentazione dei processi economici e sociali sono poca cosa rispetto alla portata e
alle conseguenze della globalizzazione stessa.
Questa situazione ha precedenti storici?
I nostri antenati, duecento anni fa, temevano il caos che era sempre in agguato nelle comunità locali come i villaggi,
le parrocchie e i paesi, che disponevano di poteri piuttosto limitati. Probabilmente i grandi spazi d'azione, che avrebbero
portato alla formazione delle nazioni, sembravano allora pericolosi e minacciosi proprio come lo sono oggi le forze della
globalizzazione per gli stati-nazione.
I nostri antenati sono riusciti a creare strumenti di rappresentanza politica e mezzi legislativi e giuridici per domare
il caos, per imbrigliarlo entro un sistema di regole e procedure che favorissero la trasparenza e la prevedibilità delle
dinamiche sociali. I pionieri del mondo moderno speravano che le società, in questo modo, sarebbero diventate più controllabili
e perciò più sicure. Ma era un'illusione, e oggi, in un mondo postmoderno, viviamo la stessa esperienza dell'Inghilterra del
XIX secolo, quando le comunità locali, che all'epoca erano le sole ad avere i mezzi – anche se scarsi – per gestire le forze
propulsive dell'economia, persero il controllo della situazione. In piena rivoluzione industriale, il mondo, sfuggito alle
maglie del controllo locale, si è ritrovato in una terra di nessuno, qualcosa di simile allo spazio globale dei nostri tempi
in cui trionfano potere, furbizia e mancanza di scrupoli, mentre le forze che cercano di governare questi sviluppi rivelano
tutta la loro debolezza.
Quanto tempo c'è voluto per riprendere il controllo delle forze economiche?
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Zygmunt Baumann |
È passato tutto il secolo XIX e buona parte del XX prima che lo Stato moderno riuscisse a gestire questa nuova realtà.
Lo Stato moderno, infatti, ha dovuto far fronte a esigenze sociali senza precedenti, come le leggi sul lavoro minorile,
la proibizione della schiavitù, la regolamentazione della settimana lavorativa, la fornitura di acqua potabile e di
condizioni igieniche adeguate, l'assistenza medica di base. Si trattava di rimediare ai danni prodotti dalla "forza del
caos" sfuggita a ogni controllo, e ci sono voluti più o meno cent'anni perché gli aspetti negativi di questa globalizzazione
originaria potessero essere controbilanciati da quelli positivi, almeno nell'ambito delle singole nazioni. Nel mondo attuale,
la possibilità di un'azione collettiva è ben lontana dal realizzarsi, nonostante l'opinione condivisa sulla necessità di un
qualche intervento.
La globalizzazione va avanti ormai da lungo tempo, ma solo alcuni
avvenimenti recenti, spettacolari e scioccanti, ci hanno
resi profondamente consapevoli di cose fino a oggi rimaste in sordina,
cose che prima ci era stato facile ignorare. I mezzi
a nostra disposizione per difendere la legalità e proteggere i cittadini
sono chiaramente insufficienti a dominare queste
forze globali di natura extraterritoriale. La tragedia dell'11 settembre
e poi gli attentati di Madrid e Londra hanno dimostrato
che i mezzi tradizionali volti a garantire il rispetto della legge e a
mantenere l'ordine non servono proprio a niente. E questo
non ce lo aspettavamo, nessuno se lo aspettava.
Alla luce di quanto è avvenuto in Iraq, non crede – metaforicamente parlando – che per curare una semplice influenza si sia
deciso di ricorrere a un intervento chirurgico, asportando al paziente fegato, rene, e parte del cervello?
Certamente. Ma dobbiamo considerare il perché di tutto questo. Le tragedie che gli uomini provocano nel corso di una
globalizzazione negativa sono paragonabili alle catastrofi naturali: nessuno sa quando accadono né da dove arrivano. È
come camminare su un campo minato: non c'è dubbio che una mina esploderà, ma nessuno può sapere quando e dove. La tentazione
di bombardare questo campo minato, di distruggere le mine prima che esplodano, è forte, soprattutto se, per far fronte al
problema, si ha a disposizione una quantità illimitata di bombe e quasi nient'altro.
C'è una bella differenza fra questa realtà e l'immagine che si aveva del futuro all'inizio dell'età moderna. I filosofi
illuministi sognavano un mondo ordinato, un mondo regolato dalla volontà degli uomini, un mondo pacifico e ospitale che gli
esseri umani avrebbero realizzato da soli, e non in virtù della provvidenza divina. All'esperienza terribile del terremoto
di Lisbona del 1755 era seguito un incendio e uno tsunami: catastrofi arrivate all'improvviso una dopo l'altra, dando libero
sfogo al caos distruttore che travolge tutto e tutti, buoni e cattivi. Jean-Jacques Rousseau imputava alla civiltà i disastri
provocati da quelle catastrofi naturali, perché se gli uomini avessero continuato a vivere allo stato di natura piuttosto
che in città sovraffollate, se non avessero costruito edifici incredibilmente alti e se, anziché preoccuparsi di proteggere
i loro beni personali, avessero cercato di proteggere se stessi dal fuoco e dall'acqua, non ci sarebbero state tante vittime.
Voltaire, invece, non era interessato allo "stato di natura"; egli riponeva la sua fiducia nelle intenzioni e nelle azioni
degli individui e pensava che sarebbe bastato usare la ragione per arrivare a realizzare una società civile in cui sentirsi
al sicuro. Dunque, nonostante il loro pensiero fosse molto diverso, entrambi i filosofi avevano fiducia negli uomini. E, a
quanto pare, si sbagliavano.
Quindi è la paura dell'ignoto a segnare l'inizio della modernità?
Il vero progetto della modernità nasce dal desiderio di vivere in un mondo senza imprevisti, un mondo sicuro, un mondo
in cui non ci sia nulla da temere. Duecento anni dopo, il coronamento di questo sogno, la realizzazione di questo progetto
ambizioso è lo Stato sociale, da sempre definito impropriamente welfare state. L'intero progetto, infatti, non riguardava
tanto il benessere quanto la responsabilità che una società si assume nei confronti dei singoli cittadini, offrendo loro
una vita libera dal timore, ricca di dignità e di valore – come una sorta di polizza di assicurazione collettiva contro
le conseguenze degli "infortuni" subiti dai singoli individui.
Se un cittadino va incontro a una grave difficoltà, la società accorre in suo aiuto, e la redistribuzione delle risorse
costituisce un mezzo, non un fine. Questo concetto si fonda sul presupposto che il cittadino è in grado di reggersi sulle
sue gambe soltanto se si sente protetto. William Beveridge, l'ideatore della versione inglese dello Stato sociale, era un
liberale, non un socialista, e guardava allo Stato sociale come alla realizzazione dell'idea liberale.
Intende dire che lo Stato sociale, dopo tanti decenni, è riuscito a conseguire l'obiettivo liberale
dell'autodeterminazione?
Le intenzioni erano queste. L'autodeterminazione individuale non può prescindere dalla solidarietà sociale. La libertà non è
sufficiente se non si garantiscono a tutti gli stessi mezzi e le stesse opportunità. Per poter camminare sulla fune l'individuo
deve avere sotto di sé una rete elastica che gli salvi la vita nel caso in cui cada, per questo ai cittadini è stato detto:
"Vi proteggeremo dalle calamità sociali, dalle conseguenze della disoccupazione, dall'invalidità, dalla malattia, e non
trascorrerete mai la vostra vecchiaia in miseria. Non avete nulla da temere, perciò coraggio, provateci!"
Ma la globalizzazione negativa, che si contrappone proprio a questa idea
di coesistenza umana, ha reso praticamente impossibile
trovare un equilibrio ragionevole rispetto agli obblighi che coinvolgono
l'uomo all'interno dello Stato-nazione. Nel mondo – ad
eccezione, forse, dei paesi scandinavi – il concetto di Stato sociale è
in declino. A quanto pare non ce lo possiamo permettere.
E così, invece di salvaguardare l'obbligo degli Stati a garantire
protezione e tranquillità dei cittadini, i governi richiedono
una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro e in qualsiasi altro
ambito della vita sociale che sia regolato da forze di
mercato. E questo accresce l'insicurezza: non si punta più a ridurre il
rischio, anzi, lo si incrementa. Il progressivo venir
meno degli obblighi dello Stato comporta una crisi di legittimità
dell'autorità dello Stato stesso, un'autorità che esigeva
dai cittadini obbedienza, disciplina e rispetto della legge, garantendo
loro in cambio sicurezza e vita dignitosa.
Queste promesse, ora, stanno crollando una dopo l'altra: l'istruzione gratuita, l'assistenza medica di base, la pensione,
l'indennità di disoccupazione. Lo Stato ha le mani legate, ormai è sempre più in balia delle forze del mercato; se cerca di
contrastarle, il capitale semplicemente si riversa altrove, al sicuro, dove può crescere senza problemi, e lo Stato, a quel
punto, si trova alle prese con una grave piaga sociale, quella della disoccupazione e della povertà. Insomma, se basta premere
un bottone per trasferire il capitale, che cosa può oggi prendere il posto delle vecchie fondamenta della legittimità statale?
Che cosa saprà infondere nuovamente fiducia al cittadino? Per quanto sia triste ammetterlo, sono state proprio le conseguenze
più drammatiche di questa globalizzazione negativa (in primo luogo l'11 settembre) a dare modo all'autorità statale di trovare
una nuova base sulla quale fondare la propria legittimità.
Ciò ha a che vedere con il problema della sicurezza individuale?
Si può spostare il concetto di sicurezza dall'ambito esistenziale – la fiducia nel futuro, nei propri mezzi, nelle proprie
attività economiche, nella propria posizione sociale, nel benessere proprio e della propria famiglia – alla sfera individuale:
il corpo, i beni personali, la casa, il quartiere.
Secondo lei, lo Stato-nazione tradizionale sta combattendo una battaglia perduta in partenza contro la globalizzazione?
In questa battaglia stiamo affrontando due situazioni allo stesso tempo.
Da una parte, cerchiamo di gestire la nuova realtà
chiamata globalizzazione, i cui poteri sfuggono al controllo di
qualsiasi Stato – purtroppo, gli strumenti di cui disponiamo
sono troppo deboli, e non ci permettono di dominare queste forze.
Dall'altra, siamo disperatamente alla ricerca di una nuova
formula politica, di una nuova legittimità di cui poterci avvalere
nonostante il ridimensionamento dei poteri statali. Si tratta
di individuare un ambito in cui lo Stato possa dimostrare ai cittadini
che esso è ancora in grado di agire e che non se ne sta
fermo a guardare. Sempre più spesso la televisione ci mostra scene
spettacolari, come invasioni di forze speciali, carri armati
di stanza in aeroporti, cordoni di poliziotti che tentano di isolare
stazioni ferroviarie e metropolitane. Lo Stato sta cercando
di farci capire che è competente, che ha la situazione in pugno: se così
non fosse, navigheremmo in acque ben più torbide di queste.
È come se dicesse: "Certo, le cose non vanno bene, ma immaginate come
sarebbero senza il nostro impegno".
Oltre alla prospettiva globale e dello Stato-nazione ce n'è un'altra: quella della psiche umana individuale. Come si manifesta,
in questa struttura, la tensione fra libertà e sicurezza?
In un mondo come il nostro ci sono infinite ragioni per avere paura. È facile fare un elenco dei rischi a cui i giovani
d'oggi vanno incontro, ma non sarebbe mai un elenco completo perché le vere motivazioni della paura sono molteplici,
confuse e molto difficili da definire, e questo le rende ancora più minacciose. Un giovane che abbia dedicato gran parte
della sua vita a ricevere una buona istruzione per acquisire capacità professionali specifiche rischia di non avere alcun
valore sul mercato perché il lavoro cui ambiva intraprendendo un certo tipo di studi è stato trasferito in Cambogia. E magari
anche la sua vita privata cade a pezzi, perché la sua compagna lo lascia per qualcun altro (il discorso, naturalmente, vale
per entrambi i sessi). Di elementi liquidi come questi, nei quali rischiamo di annegare ogni giorno, ce ne sono a centinaia
nella realtà contemporanea, e ci minacciano continuamente, provocando una sorta di angoscia generale alimentata dal fatto che
questa paura ha un volto dai tratti sbiaditi e confusi.
E quanto più la nostra paura è indefinita, tanto più andiamo disperatamente alla ricerca di scopi concreti o di persone
cui attribuire la colpa; quello della sicurezza personale è uno scopo del tutto legittimo: sappiamo chi sono i colpevoli
e sappiamo come intervenire – anzi, la cosa più importante è la consapevolezza di poter intervenire.
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La Magna Charta |
Allora un cittadino capisce subito come agire...
Il fatto di spostare il senso di incertezza da un piano generale a un
piano più concreto, cioè dal livello esistenziale a quello
della sicurezza personale, ha un grande vantaggio, perché alla fine si
capisce quale sia la cosa migliore da fare. Per esempio,
posso decidere di sostituire le serrature di casa mia, o di installare
un sistema di monitoraggio dotato di sensori in grado
di individuare chiunque si trovi nei paraggi. Al verificarsi di un
omicidio, di un attentato, di un atto di terrore emerge la
necessità di adottare nuovi provvedimenti. Le persone, così, hanno un
obiettivo e un impegno concreto cui dedicarsi, e questo
dà loro un senso di partecipazione a uno sforzo collettivo di grande
importanza e utilità. Io, come individuo, non posso certo
impedire che la società presso cui lavoro – e che mi dà i mezzi per
mantenere la mia famiglia – si trasferisca a Bangalore,
ma se vedo un tipo losco imbacuccato in un pastrano, o con un pacco
sospetto, nulla mi impedisce di avvertire un poliziotto o,
quantomeno, di attirare l'attenzione generale su quella persona. E se
sull'autobus noto un tizio dalla pelle olivastra che
si fruga nella borsa, ho la possibilità di avvertire il conducente.
Insomma, non siamo più abbandonati a noi stessi. Ma questo
ci costa la sospensione delle libertà civili di cui i cittadini godevano
fin dai tempi della Magna Charta. Quel paesaggio di
libertà e privilegi che era l'orgoglio del popolo britannico ora sta
crollando inesorabilmente. In base a un recente
sondaggio, però, il 73% degli inglesi intervistati pensa che valga la
pena sacrificarsi in questo gioco inquietante.
Se la limitazione delle libertà civili non è una misura impopolare, forse è perché i sudditi di Sua Maestà non cercano
protezione rispetto al potere statale ma, piuttosto, da parte dello Stato.
Ogni medaglia ha due facce. Per esempio, il fatto che sia possibile comunicare via Internet con qualcuno che si trova in
Nuova Zelanda – magari per discutere dei dettagli di un piano – ha indubbiamente un lato oscuro. Qualsiasi attività criminale,
non necessariamente terroristica, può, di fatto, basarsi su questa rete globale. Il monopolio dell'uso della forza, che
secondo Max Weber era il vero pilastro dello Stato moderno, non esiste più ormai da molto tempo. È fin troppo evidente che
questo monopolio, rivendicato a lungo dallo Stato-nazione, è stato ideato nell'ambito di un sistema fondato sulle battaglie
e sulle guerre territoriali. La logica era quella della conquista di un territorio sul quale installare le proprie forze
militari e da assoggettare alla propria amministrazione, cercando di difenderlo dalle mire altrui.
Se in passato sovranità e autorità erano definite da un punto di vista territoriale, e il ricorso dello Stato alla forza
militare serviva a garantire questo ordine, il terrorismo attuale, che è un fenomeno dell'era della globalizzazione, ha
una natura extraterritoriale e, pertanto, si sottrae a qualsiasi definizione tradizionale. Perfino l'esercito più forte
che si possa immaginare, dotato dell'equipaggiamento tecnico più sofisticato e finanziato con il budget più elevato che la
storia ricordi, è impotente davanti all'individuo che usa una semplice arma tascabile del peso non superiore a una libbra.
Quest'ultimo è parte di una forza militare del tutto particolare, che non ha quartier generale né basi e nemmeno caserme
da bombardare; una forza militare che sembra venire dal nulla così come, poi, sembra svanire nel nulla. L'importanza delle
sue strutture organizzative è soltanto teorica, in realtà la si potrebbe paragonare a uno sciame d'api. Non c'è un comandante,
non ci sono ordini, non ci sono sergenti né caporali – e, per qualche ragione, questa miriade di singoli individui si muove in
modo simile seguendo un'unica direzione. Nel Medioevo il nemico veniva rappresentato come l'immagine speculare di noi stessi.
E l'Anticristo aveva i suoi apostoli – anche se forse erano tredici anziché dodici – e i demoni al suo seguito erano visti
come anti-angeli... Insomma, se al Qaeda esiste davvero, essa è una concezione globale ed estremamente manichea del mondo,
e ha un'ampia schiera di discepoli potenziali. La visione manichea – che concepisce due mondi separati in cui l'"altra" metà
è quella governata da Satana, mentre nella "nostra" regnano il bene e la verità – non è certo un'invenzione del
fondamentalismo islamico.
La guerra contro l'Occidente, come quella condotta in nome dello spirito
russo, della razza tedesca e del comunismo,
ora prosegue in nome dell'islam. Ma quando si fonda su motivazioni
religiose, l'anti-occidentalismo – che, di per sé,
è un'ideologia di odio e disprezzo per l'Occidente – diventa una guerra
santa contro il male assoluto, nella quale i veri
credenti devono distruggere il falso dio del materialismo occidentale
servendosi di qualsiasi potere e mezzo a loro disposizione.
È possibile vincere una guerra del genere?
Viene prima l'uovo o la gallina? Molto più che a una politicizzazione della religione (indipendentemente dal fatto che
si tratti di quella musulmana), ci troviamo di fronte a una "religionizzazione" della politica, in cui la
contrapposizione – del tutto normale – fra gli interessi dei gruppi diventa una questione escatologica, e al conflitto
fra interessi diversi è conferito un carattere apocalittico. Tutto questo rivela il vivo desiderio di qualcosa che
non c'è: la stabilità. È una fuga da problemi talmente complessi che non possiamo neanche nominarli. È voglia di una
"grande semplificazione". È nostalgia di un mondo perduto, genuino, in cui poter vivere con semplicità.
Invece la realtà è confusa e discordante – non c'è spazio per un dibattito serio in cui fare il punto della
situazione, e la televisione offre soltanto lo spettacolo squallido di attori che, esaltati dalle luci della
ribalta, non fanno che gridare slogan e insultarsi a vicenda. In tutta questa confusione, si sente il bisogno di certezze
e di chiarezza, di una distinzione netta fra bene e male. Naturalmente, tutti credono di essere i "buoni", e condannano
gli altri, i "cattivi", quelli che non hanno speranza di redimersi. Tengo a sottolineare che questa visione non è monopolio
esclusivo dell'islam. Pensiamo ai radicali palestinesi e israeliani: è sorprendente come usino lo stesso tipo di vocabolario.
Entrambe le fazioni ci portano a vedere il conflitto come una guerra decisiva fra Jehovah e Maometto, non fra coloni
palestinesi e israeliani. E, ancora, se analizziamo la copertura delle ultime elezioni americane, ci imbattiamo di nuovo in
quel tipo di vocabolario, anche se viene invocato un dio diverso. Devo ammettere, però, che in questa ampia corrente di
manicheismo contemporaneo l'Islam occupa una posizione di rilievo, e questo per ragioni geopolitiche.
Geopolitica e religione: chi è al servizio di chi?
Partiamo dall'inizio. Il mondo islamico ha un asso nella manica, il petrolio. Non c'è dubbio che le risorse energetiche
rivestiranno un ruolo decisivo nella definizione del nuovo assetto geopolitico del XXI secolo, e quelle di cui dispone
il Medio Oriente potrebbero essere le sole operative fra una cinquantina d'anni. Io a quel tempo non ci sarò più ma voi
sì, e, purtroppo, mi darete ragione. Il petrolio è alla base delle economie delle grandi potenze mondiali e della più
grande economia del mondo. La situazione si fa più seria se pensiamo che Cina e India sono in procinto di motorizzare
i loro miliardi di abitanti. Che cosa succederà quando tutti i cinesi e tutte le famiglie indiane decideranno di acquistare
un'automobile e di fare il pieno di benzina? Coloro che avranno il controllo delle risorse petrolifere mondiali saranno in
grado di dettare condizioni globali, e questo il mondo degli affari lo sa bene. Ma, naturalmente, lo sa anche chi vive nelle
regioni che producono il petrolio, e il cui destino dipende da queste risorse. Quindi non c'è da sorprendersi se l'America
cerca di conquistare un'influenza sempre maggiore in quell'area.
Tutto è cominciato all'indomani della Seconda Guerra Mondiale con il complotto della CIA contro Mossadegh, che aveva avuto
il coraggio di nazionalizzare le risorse di petrolio iraniane. Successivamente, sono stati insediati nella regione regimi
autoritari e brutali che dipendevano dagli Stati Uniti, e che ricorrevano spesso al fondamentalismo religioso per legittimare
la loro autorità. Non c'era spazio per le libertà civili e tanto meno per la democrazia – si pensi all'Arabia Saudita e al
Kuwait, i due esempi più importanti. Le élites arabe sanno
perfettamente che il petrolio permette loro di controllare l'Occidente
e, nonostante l'Occidente abbia una schiacciante superiorità economica e
militare, esse possono sempre trovare il modo di alzare
la posta.
Da un lato, quindi, c'è un'élite che sta gradualmente
acquistando fiducia in se stessa e che, forse, sta addirittura
diventando
arrogante; dall'altro, invece, ci sono le masse impoverite che non hanno
tratto alcun vantaggio da questa occidentalizzazione
distorta, e che non si sentono al sicuro. Questi fattori, combinati
insieme, diventano una miscela esplosiva. I nostri profeti
del terrore, come Bakunin, Sergej Necaev e Dostoevskij con i suoi demoni
condividevano lo stesso terreno fertile, dove
l'intellighenzia frustrata e disillusa incontrava le masse impoverite e
umiliate. Chi, infatti, non vive una vita dignitosa
può facilmente convincersi di avere anch'egli la possibilità di lasciare
un segno nel mondo. "È vero, questo Satana israelo-americano
vi nega una vita dignitosa – ma non può negarvi una morte dignitosa, e
non può impedirvi di lasciare il vostro segno nel
mondo: forza, allora, colpite a morte Satana!" È un servirsi della
religione per raggiungere scopi che con la religione non
hanno nulla a che vedere.
È solo un altro esempio di propaganda religiosa o è l'idea per un'azione politica?
È semplicemente un'ideologia che, però, si differenzia dalle ideologie politiche messe a punto nei salotti degli intellettuali
perché il suo scopo non è quello di indurre le masse a pensare ma ad agire – l'uccisione dell'infedele attraverso il suicidio
del fedele. Le ideologie, di per sé, canalizzano le emozioni, semplificando la visione del mondo e limitando le scelte. In
questo caso specifico, però, i destinatari dell'ideologia sono candidati addirittura a una morte suicida. Non so se bin Laden
comunichi con i suoi collaboratori più stretti utilizzando proprio queste frasi e se ricorra alla solita immagine stereotipata
del conflitto, ad ogni modo il mondo è pieno di questo genere di cose. I futuri kamikaze sono istruiti da intellettuali – gente
colta che si è laureata a pieni voti, spesso nelle università occidentali più prestigiose.
In un mondo disorganizzato come il nostro, il conflitto endemico non
riguarda tanto quale sarà il modello del futuro ordine
mondiale quanto, piuttosto, chi imporrà quel modello. E le parti in
lotta ricorrono a tutte le risorse di cui dispongono: l'America
utilizza il suo potere militare ed economico, ma l'islam ha una carta
vincente che, probabilmente, sarà decisiva per le sorti
del conflitto. Fra un trentennio – o forse prima, data l'imprevedibilità
della borsa valori – non ci sarà più alcun dubbio sul
fatto che il petrolio è la risorsa più preziosa, e al contempo
essenziale, per la sopravvivenza della civiltà.
Secondo lei il terrorismo punta sulla debolezza dell'Occidente?
Se i terroristi mirano a seminare il panico nelle società occidentali,
facendole dubitare del proprio potere e paralizzandole,
trovano un alleato formidabile nelle principali emittenti
radiotelevisive, che continuano a divulgare immagini terrificanti.
Inoltre, i terroristi sanno che le misure di sicurezza adottate dagli
Stati creano un clima di angoscia opprimente, dandoci
l'impressione di vivere in una fortezza assediata e con il nemico alle
porte. Siamo immersi in un'atmosfera talmente cupa che
vediamo un potenziale terrorista in chiunque porti uno zaino sulle
spalle o si trovi alla guida di un furgoncino. Come se non
bastasse, i poteri di monitoraggio dello Stato sono in continua
crescita; bastano due o tre persone e qualche ordigno rudimentale
per paralizzare la società. Nel mondo c'è tanto di quel materiale
esplosivo... Gli eserciti occidentali, invece, si trovano
nella condizione opposta: pur essendo finanziati con cifre astronomiche e
pur avendo provocato, ad oggi, innumerevoli
vittime, non possono scatenare stragi di proporzioni abissali. In un
certo senso, mentre la coalizione antiterroristica usa
l'accetta per radere, i terroristi possono abbattere una foresta intera
utilizzando una semplice lametta da barba. Questa è
una guerra invincibile.
Lo Stato può, in nome della sicurezza, intraprendere una gamma infinita di azioni. Questa escalation delle armi può
essere fermata?
Si tratta di un processo ormai innescato che non si fermerà mai senza il nostro intervento. Entrambe le parti in causa
stanno infiammando l'atmosfera dello scontro. Bisogna essere razionali e capire che non si può curare il tifo con una
pomata per l'eritema. Se non si individuano le cause prime, non è possibile intervenire.
Allora come si spiega la fine del terrorismo nell'Irlanda del Nord?
È stato un effetto del miracolo economico della vicina Repubblica
d'Irlanda. In parte il problema si stava già esaurendo, perché
una vita passata sotto la minaccia continua ed effettiva delle armi e
delle bombe alla fine era diventata insostenibile. Quando
gli irlandesi del Nord hanno varcato il confine e sono entrati nella
Repubblica d'Irlanda, hanno visto che la gente si godeva
la vita, era diventata più ricca, frequentava i pub e si preoccupava più
di quello che avrebbe mangiato per cena che di
lubrificare le canne dei fucili. Insomma, si sono guardati intorno,
hanno provato invidia e hanno capito. Può darsi che, a
lungo andare, il regime terroristico che stiamo vivendo abbia lo stesso
epilogo; di certo non finirà grazie a un ricorso smodato
alla forza militare e ai sistemi della polizia. Gli accordi sulla
riduzione del debito e sullo sviluppo sostenibile a favore
dei paesi poveri hanno contribuito alla lotta al terrorismo più di
quanto non abbia fatto l'America invadendo l'Iraq.