Di Fabrizio Galimberti- Il sole 24 ore

«Ci vogliono i filosofi…», disse Adam Smith. "Filosofi", il cui compito consiste nel non fare niente ma nell'osservare tutto: uno schiavo miserabile che macina il granoturco fra due pietre - aggiunse il "padre dell'economia" - può trovare la maniera di far girare la pietra di sopra attorno a un asse; ma per trovare la maniera di farla girare con l'acqua ci vuole un filosofo. Nel significato che gli dava Adam Smith i "filosofi" erano quelli che avevano tempo di riflettere e studiare, senza essere abbrutiti da pesanti lavori manuali. Ma quella sua intuizione vale ancora, nel senso che il sistema educativo è uno dei grandi determinanti della "ricchezza delle nazioni". L'economia italiana ha due grossi problemi: la scarsa crescita - questo dura da anni - e la Grande recessione da cui non siamo ancora usciti, seguita come è stata dalla coda velenosa della crisi da debito sovrano. Le crisi di ogni genere sono fenomeni complessi e non sono riconducibili a una sola causa, ma non è sbagliato pensare che il sistema educativo sia una delle principali concause della nostra più che modesta performance. Un sistema educativo che, dopo esser partito bene nell'istruzione primaria - che regge molto bene il confronto internazionale - smarrisce man mano la strada nell'istruzione secondaria e ancor più in quella universitaria. C'è un problema sia di quantità (la percentuale di lavoratori con un diploma di istruzione terziaria è una frazione rispetto agli altri principali Paesi) che di qualità (l'università non compensa adeguatamente il merito, c'è un disallineamento fra le abilità di cui il sistema produttivo ha bisogno e quelle sfornate dal sistema universitario, e non c'è abbastanza collaborazione diretta tra imprese e centri universitari). Tutto questo appanna la nostra performance come Paese e, purtroppo, costituisce un handicap destinato a durare, dato che i progressi per migliorare il sistema educativo, che pur ci sono, sono inevitabilmente lenti. C'è un aspetto particolare, tuttavia, dei nostri problemi educativi che riguarda più da vicino la vita di tutti i giorni: l'insufficiente attenzione che il sistema educativo riserva all'insegnamento dell'economia. Questo non è solo un problema italiano. Come si è visto nel caso della Grande recessione, questa originò in America e alla base ci furono patenti violazioni di semplici regole di buonsenso economico. Ma in ogni caso sapere di economia e di finanza serve a tutti. Oggi l'economia è per molti un oggetto misterioso: non sai perché ti pagano X e non Y, non sai perché c'è la recessione, non sai se è bene o male che i cinesi ci facciano concorrenza, non sai perché lo Stato non ha soldi… Studiare economia, allora? Ma perché? Perché - potrebbe obiettare un cinico - se sono disoccupato saprò perché lo sono? Battute a parte, sì. Se uno dovesse scegliere fra due condizioni - essere disoccupato e non sapere perché o essere disoccupato e sapere perché - è giusto scegliere la seconda. Intanto, il "non sapere perché" può far spuntare orribili pensieri: non trovo lavoro perché sono incapace... Poi, il "sapere perché" facilita l'arte di trovare rimedi. Ci sono dei rimedi contro la disoccupazione, alcuni dei quali possono non essere piacevoli; ma se uno sa che servono, e anche gli altri lo sanno, si possono accettare più volentieri. E qui veniamo a un punto fondamentale. Contro i disastri naturali, non possiamo far nulla: terremoti e uragani sono fuori dal nostro controllo. Ma l'economia non è fuori dal nostro controllo. Il nostro "destino economico" è nelle nostre mani. Almeno nel senso che possiamo affrontare i problemi a testa alta, possiamo capirli. Non è ancora risolverli, ma è già molto: possiamo rovesciare la cappa disperante del l'impotenza intellettuale e aprire la strada a una ricerca piana e sapiente dei rimedi. Studiare l'economia è essenzialmente questo: riprendere la dignità di cittadini consapevoli e rifiutare l'ignoranza inerme. Una bella preghiera recita: «Signore, aiutami a cambiare quel che posso cambiare e ad accettare quel che non posso cambiare». Naturalmente il confine fra quel che uno può cambiare e quel che uno non può cambiare è un confine mobile; direi, anzi, che passiamo la vita intera cercando di capire quel che possiamo cambiare e quel che non possiamo cambiare. Ma in ogni caso, sapere di economia ci aiuta a mettere dei paletti più precisi, mentre inseguiamo le linee di quel confine. La domanda Oggi è importante sapere di economia e di finanza? Studiare economia serve. Il «sapere perché» facilita l'arte di trovare rimedi. L'economia infatti non è fuori dal nostro controllo: il nostro «destino economico» è nelle nostre mani




Spremiture e risanamento

di Roberto Napoletano Direttore il sole 24 ore



C'è un dato che rischia pericolosamente di passare inosservato e va invece tenuto sempre a mente. I tre quarti dei soldi che da un po' di giorni in qua vengono quotidianamente spesi per sostenere i titoli italiani non sono italiani. Sono della Banca centrale europea e sono stati messi in moto sulla base di un'apertura di credito che parte dalla credibilità di Mario Draghi, attuale governatore della Banca d'Italia e da novembre futuro presidente della stessa Bce. Questi soldi hanno consentito ai titoli sovrani della Repubblica italiana di recuperare oltre cento punti di spread rispetto ai titoli pubblici tedeschi, i Bund, e non è poco. Il Berlusconi di oggi, reduce da settimane di minimo storico di credibilità politica, ha mostrato di avere capito la lezione, più di altri si è messo nei panni del "commissariato" e non si è nascosto dietro giri di parole: il trenta per cento dei soldi che ci stanno aiutando sono dei cittadini tedeschi. Alcune "ostinazioni" tremontiane (tabù Iva, ritocco di aliquote Irpef per i redditi alti, scetticismo su alcuni temi-chiave della crescita) e bossiane (tabù pensioni) hanno impedito che una manovra certamente pesante di correzione dei conti pubblici, con 16 miliardi di tagli su 20 solo per il 2012, risultasse anche più strutturale, fino in fondo equa e in grado di coniugare correttamente il rigore e lo sviluppo possibili. Su enti locali, ministeri e assistenza, le scelte operate entrano nella carne viva di sprechi e inefficienze, che andavano aggrediti da tempo, il punto è vedere (e vigileremo) se la linea di sbarramento tracciata lascerà spazio oppure no alle ennesime deroghe o, peggio ancora, a nuove addizionali destinate a gravare su cittadini e imprese. Come è potuto accadere che un Paese, pieno di squilibri profondi e attraversato da un'irrisolta e diffusa questione morale e civile, riesca in pochi giorni a varare un decreto così impegnativo, ma rischi di bruciare tutto perché l'altolà della Lega impedisce di toccare l'ineludibile capitolo previdenziale e le resistenze del ministro Tremonti vietano di sostituire la "spremitura" ulteriore del ceto medio che lavora e i redditi li dichiara con un punto di Iva in più o con un aumento strutturale dell'aliquota che grava sui super-redditi? Uno o due punti di Iva in più (strada già intrapresa con successo fuori dall'Italia) avrebbero avuto sui consumi un effetto depressivo di certo ben più contenuto di quello che può arrivare dalla penalizzazione dell'unico ceto numericamente significativo che ancora consuma in Italia. Sui tagli dei costi della politica (mini-Comuni, Province e altro ancora) è giusto riconoscere che si è fatto più di qualcosa anche se bisogna fare ancora di più. Liberalizzazioni e privatizzazioni dei servizi pubblici locali così come le liberalizzazioni annunciate per gli ordini professionali sono tutte decisioni che andranno viste in profondità ma si muovono nella direzione giusta. Il capitolo lavoro andrà anche quello guardato attentamente ma parte dalla centralità del contratto aziendale e appare, quindi, in linea con l'accordo siglato di recente da Confindustria e tutte le organizzazioni sindacali che ha l'obiettivo di innovare le relazioni industriali di questo Paese. La prova di coesione attesa non c'è stata, la visione è ancora debole, la reazione però si è vista, c'è. In tempi non sospetti, avevamo avvertito: guai se l'Italia diventa lo "Stato da vendere". Costi quel che costi, a tutti i livelli e in tutte le responsabilità, ora e non domani, deve essere fatto il possibile (e l'impossibile) per scongiurare tale prospettiva.