Saggio sul capitalismo

 

 

 

 

LIBRO SECONDO

 

IL CAPITALISMO TECNOCRATICO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PARTE PRIMA: IMPRESE E CONCENTRAZIONE

   

 

CAPITOLO DECIMO

 

 

LA CONCENTRAZIONE PRODUTTIVA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         38. - Concentrazione e forme di mercato. - Lo sviluppo del sistema capitalistico è indissolubilmente legato all’incremento delle dimensioni dell’impresa, in qualunque modo esse vogliano o possano essere definite. Necessariamente un tale incremento determina una disuguaglianza nella distribuzione statistica delle imprese e quindi un conseguente processo di concentrazione che può essere definito secondo tre modi:

 

 

                  1)  concentrazione settoriale

                  2)  concentrazione territoriale

                  3)  concentrazione economica

                            

 

    La tecnocrazia del sistema capitalistico, vale a dire il dominio della tecnica produttiva ed economica sulla determinazione e sulla distribuzione del reddito della collettività, è direttamente sviluppata attraverso l’utilizzazione dell’impresa nella sua forma capitalistica, quindi in linea di massima di grandi dimensioni.

    Coloro che utilizzano in massima parte l’impresa capitalistica, che assume nella totalità dei casi la configurazione di una società a responsabilità limitata, sono i componenti del Consiglio di amministrazione e i dirigenti ai massimi livelli, formalmente vincolati all’impresa da un rapporto di lavoro subordinato. In questo modo la figura del capitalista puro, di stampo ottocentesco, è esautorata e sostituita da un «gruppo dirigente» che ha per obiettivo lo sviluppo dell’impresa nelle sue varie componenti definite dalla dimensione ma anche, nei limiti del possibile, la continuità dalla propria presenza nella struttura aziendale, continuità normalmente associata all’esercizio del potere conseguente all’incremento della dimensione economico-finanziaria dell’impresa.

    Questo mutamento nella struttura del potere di fatto nella gestione dell’impresa implica probabilmente una minore tensione sociale derivante dai rapporti di lavoro ma implica anche, a livello sociale, politico e psicologico, una dipendenza molto forte dell’ambiente socio-economico e culturale dagli obiettivi e dai mezzi atti a raggiungerli messi in atto dal gruppo dirigente delle imprese capitalistiche. Il benessere economico derivante dall’inarrestabile flusso di produzione di merci e servizi posto in essere dalle grandi imprese capitalistiche diviene molto elevato, contribuisce in misura non indifferente a congelare determinati «istinti di lotta» ed arreca benefici al livello di vita della maggioranza di coloro che, in modo o nell’altro, partecipano alla «funzione produttiva».

      Per i componenti dei vertici aziendali, che in rare occasioni sono anche i proprietari dell’impresa, l’esercizio del potere economico attraverso la struttura aziendale è esercitato non tanto per il tramite del diritto di proprietà quanto per il tramite della loro professionalità, vale a dire della loro capacità di lavoro intellettuale che sia in grado di organizzare l’intera struttura e di condurla sempre ad un maggior livello di sviluppo, formulando e mettendo in atto opportuni programmi e piani aziendali.

     Attraverso la programmazione aziendale sono gestite dal gruppo dirigente la funzionalità e lo sviluppo dell’impresa che costituiscono in pratica la gratificazione più importate per il lavoro svolto, gratificazione certo non disgiunta dal conseguimento di un guadagno economico spesso ingente. 

      Il collegamento fra lo sviluppo delle dimensioni aziendali, le funzioni svolte dal gruppo dirigente e l’applicazione sistematica all’economia dell’impresa dei principi dell’organizzazione «scientifica» del lavoro e della programmazione aziendale costituisce il punto principale e naturale della concentrazione produttiva.

      Innanzitutto lo sviluppo pratico ed effettivo del sistema capitalistico non può essere disgiunto, e di fatto storicamente non lo è stato, dall’esistenza di imprese che assumono in modo naturale le grandi dimensioni sin dal suo nascere, come può essere per  tutte quelle imprese che operano nel campo dell’energia e della produzione di quelle «infrastrutture» necessarie per lo sviluppo delle altre imprese. In altri termini vi sono settori nei quali la dimensione minima degli impianti produttivi non può scendere, per motivi tecnico-economici, al di sotto di una determinata soglia dimensionale. Tale soglia dimensionale implica, per le ragioni analizzate nei precedenti capitoli e segnatamente nel Secondo del Libro Primo dedicato alla dimensione aziendale, una capacità produttiva minima che necessita per essere operativa di un ingente investimento di mezzi finanziari e di un ingente numero di addetti alla produzione. Da un punto di vista del mercato le conseguenze possono essere sintetizzate in un «necessario» livello minimo del volume delle vendite che determina, in pratica, o una concentrazione di una rilevante quota del mercato in poche grandi imprese o anche spesso una divisione del mercato fra alcune grandi imprese che divengono le sole produttrici di una determinata merce o servizio per una vasta area geografica.

      Secondo l’impostazione teorica che ne ha dato il Prof. Sylos Labini nel primo caso di può parlare di oligopolio differenziato e nel secondo di oligopolio concentrato.

     La valutazione della concentrazione produttiva costituisce, in effetti, uno studio analitico e complesso di tutti i parametri che definiscono la dimensione aziendale per cui si determina una situazione di oligopolio differenziato o concentrato non solo e non tanto in relazione ad un parametro definito (come per esempio la quota di mercato) ma in relazione al complesso dei parametri che definiscono la dimensione dell’impresa nella sua «globalità» ed è quasi inutile aggiungere che la valutazione dei parametri dimensionali non deve limitarsi ad un momento determinato ma riguardare invece un periodo di tempo sufficientemente lungo dal quale sia possibile apprezzare l’andamento complessivo della struttura aziendale e dei suoi riflessi e condizionamenti sulla struttura del mercato.

    Nel Capitolo Secondo del Libro Primo si è affermato che l’equilibrio economico dell’impresa capitalistica è una sapiente amministrazione dei parametri nei quali si concreta la dimensione e che la gestione del rischio aziendale nelle sue tre configurazioni di rischio combinatorio, sistematico e di composizione costituisce l’essenza dell’impresa capitalistica. Nel presente Capitolo si precisa che la concentrazione produttiva, e quindi in buona sostanza l’economia dell’oligopolio, non è soltanto una questione di «potere economico», certamente esistente ed operante,  ma è piuttosto una questione attinente alla economicità, o equilibrio economico che dir si voglia, dell’impresa il cui sviluppo dimensionale è in qualche modo imprescindibile dallo sviluppo complessivo del sistema capitalistico.

     Anche l’analisi della concentrazione produttiva deve tenere conto della sostanziale unitarietà del fenomeno aziendale sicché le forme di concentrazione messe in elenco all’inizio del paragrafo costituiscono, nello sviluppo aziendale, modi differenti di esprimere il medesimo fenomeno economico che è appunto la concentrazione produttiva.

     A livello di tecnica economica si può quindi affermare che l’analisi della concentrazione produttiva e delle conseguenti forme di mercato è costituita dallo studio della combinazione dei parametri dimensionali e delle modalità in cui può essere intesa. 

     In modo analitico si può affermare che il fenomeno della concentrazione settoriale attiene ai fenomeni di disuguaglianza riferiti ai diversi parametri dimensionali riscontrabili nei diversi settori produttivi; il fenomeno dalla concentrazione territoriale, in modo analogo, attiene ai fenomeni di disuguaglianza dei vari parametri dell’impresa riferiti alla dislocazione delle imprese sul territorio di una nazione o di più nazioni e, in ultimo, il fenomeno della concentrazione economica attiene ai fenomeni di disuguaglianza riscontrabili fra le imprese sempre in relazione ai diversi parametri dimensionali.

     In linea di massima la concentrazione settoriale e la concentrazione territoriale possono essere definite «macroeconomiche» in quanto misurano un aggregato definito (per esempio il valore aggiunto o gli addetti) per i diversi settori economici o per le diverse aree geografiche. In questo modo se, per esempio, gli addetti del settore agricolo sono 100, quelli del settore industriale 1000 e quelli del commercio e servizi 500 l’indice di concentrazione dovrà misurare il grado di disuguaglianza relativo agli addetti e, nel caso specifico, tenere conto che il settore agricolo occupa il 6,25% del totale degli addetti, quello dei servizi il 31,25% e quello industriale il 62,5%.  

   La concentrazione economica è massimamente di tipo «microeconomico» in quanto è riferita a fenomeni di disuguaglianza delle imprese singolarmente intese. Tuttavia nel sistema capitalistico parlare di «imprese singole» può essere in alcuni casi, che sono però i casi più rilevanti dal punto di vista analitico, una forma per occultare una realtà economica di una determinata dimensione e con precise connotazioni.

      Si supponga infatti di assumere le imprese di una nazione o di un territorio più vasto (o anche più piccolo) e di classificarle in funzione del loro valore aggiunto prodotto. Per ottenere una tale statistica si fa normalmente riferimento alla veste giuridica dell’impresa ed in particolare ciascuna  entità giuridicamente autonoma rappresenta un’impresa. Un esempio di tabella riferita al numero delle imprese e al valore aggiunto potrebbe essere la seguente:

 

 

Numero imprese                    Valore Aggiunto                  Valore Aggiunto                                                              

                                              medio                                  totale

 

              100                               500.000                                  50.000.000

       200.000                                      200                                  40.000.000

    2.799.900                                        10                                  27.999.000 

------------------                                                             --------------------

    3.000.000                                                                            117.999.000

 

 

      Con i dati dell’esempio fatto la concentrazione è pari al 72,4255% ed in effetti le 100 principali imprese producono quasi il 43%  del valore aggiunto complessivo.

     Se nella situazione descritta si suppone ora che vi siano tre grandi gruppi d’impresa che controllano ciascuno, in media, 30 grandi imprese e 100 medie imprese la situazione verrebbe a modificarsi nel modo seguente:   

 

 

 

Numero imprese                    Valore Aggiunto                  Valore Aggiunto                                                    

                                               medio                                  totale                                   

 

                      3                        15.020.000                               45.060.000                                                                            

                    10                             500.000                                 5.000.000        

           199.700                                    200                               40.000.000

        2.799.900                                      10                               27.999.000 

--------------------                                                          --------------------

        2.999.613                                                                       117.999.000

 

 

da cui discende una concentrazione pari al 72,438% e quindi un po’ maggiore della precedente. In questo caso tre gruppi di grandi dimensioni controllano il 38% del Valore Aggiunto complessivamente prodotto.

     Indipendentemente dagli esempi numerici è comunque chiaro che la concentrazione da considerare, qualunque sia il parametro assunto per la valutazione, deve tenere conto dei rapporti economico-giuridici fra le diverse imprese operanti sul mercato sicché il fenomeno, forse più di ogni altro, induce a considerare (o dovrebbe) il gruppo aziendale come il soggetto realmente operativo sul mercato capitalistico. E’ in questa ottica multiaziendale che il fenomeno della concentrazione settoriale, territoriale ed economica diviene un elemento determinante delle condizioni di equilibrio economico, finanziario, patrimoniale e organizzativo del singolo gruppo che, al di là delle differenziazioni giuridiche delle imprese operanti, necessariamente deve essere considerato come un fenomeno unitario, almeno sotto il profilo economico.  

    La formazione del gruppo aziendale, come sarà meglio specificato nei prossimi capitoli, accentua di molto il carattere oligopolistico del mercato capitalistico e determina, unendo le necessarie condizioni di equilibrio economico durevole al potere economico di fatto, una concentrazione in poche mani o menti di un potere che trascende lo stesso potere economico arrivando a condizionare, di fatto, l’ambiente e la vita quotidiana di milioni di cittadini. La contropartita per l’esercizio di tale potere è costituita da un complesso di fenomeni in parte contraddittori quali possono essere un incremento del benessere economico individuale e un sostanziale condizionamento psicologico quanto a dipendenza dal consumo che in una società «opulenta» diviene impropriamente fuso dall’analisi economica con il semplice atto di acquisto. Ma a questo proposito il fatto più inquietante, almeno sotto un profilo di ragionevolezza del funzionamento del «mercato», sembra essere quello che la produzione capitalistica esercitata dai grandi gruppi aziendali oligopolistici non è indirizzata solo alla massificazione del consumo di generi alimentari o di abbigliamento ma riguarda tutte le merci e i servizi prodotti o producibili, inclusi, per esempio, i farmaci, le fonti energetiche in genere, l’informazione e alcuni dei «servizi» necessari al soddisfacimento di taluni dei bisogni «primari» della popolazione che meriterebbero, in una società appena più «civile», una differente considerazione rispetto a quella meramente economica.  

     La questione è che, al di là di alcune pregevoli intenzioni e di alcune più o meno significative manifestazioni di fatto, il denaro e il potere da esso conseguente esercitano ancora un fascino troppo intenso sulla mente umana per poter essere trasformati, come auspicava J.M. Keynes, in una «passione morbosa» da essere consegnata alla specialista di malattie mentali.

    In sé la concentrazione produttiva e l’impresa capitalistica possono essere considerati come strumenti per un ipotetico operatore economico più o meno concreto ma uniti all’istinto del potere in tutte le sue ramificazioni mentali che esso può assumere divengono un meccanismo, talvolta inconscio e occulto e altre dichiarato e palese, di condizionamento fisico e psichico (forse soprattutto psichico) del comportamento economico e del modo di pensare di tutti coloro che, siano essi «produttori» o «consumatori» di ricchezza, sono comunque «vincolati» all’impresa capitalistica e al suo divenire economico, sociale e politico.    

 

 

 

 

 

 

          39. - L’economia produttiva dell’oligopolio. -   L’analisi degli aspetti economico-produttivi dell’oligopolio parte dall’ovvia considerazione che la produzione in un determinato mercato, sia esso settoriale o geografico, è divisa fra almeno tre categorie di «imprese» convenzionalmente denominate grandi, medie e piccole.

      La definizione dimensionale dell’impresa è qualcosa di sufficientemente preciso, come visto nel Capitolo Secondo del Libro Primo, da esigere una maggior precisione anche nella classificazione suddetta, a parte l’ovvia considerazione che una impresa che produce un Valore Aggiunto di 10.000 è più grande, in senso economico, di una impresa che produce solamente 1.000.

     Sempre in riferimento al Capitolo Secondo del Libro Primo si può dire che i parametri per definire le diverse grandezze d’impresa devono essere tutti quelli relativi alla definizione di dimensione e quindi capacità produttiva, addetti, capitale investito, quota di mercato e valore aggiunto. Il carattere unitario del fenomeno aziendale compie il resto dell’analisi con le sue ovvie e inevitabili connessioni fra i diversi parametri.

     Un dato certo per la valutazione della dimensione più o meno grande attiene alla struttura finanziaria dell’impresa nel senso che una maggiore dimensione è associata sempre a investimenti finanziari, quindi non direttamente «produttivi», che coprono una rilevante aliquota degli investimenti totali.

     Da un punto di vista tecnico-produttivo la grande impresa è sicuramente quella che di più ed in modo più efficace utilizza la divisione del lavoro e il progresso tecnico nel processo produttivo, associando quindi alla dimensione propriamente economica un apparato organizzativo complesso che prevede in modo minuzioso compiti e responsabilità produttive di ogni singolo addetto.

     Un altro segno sicuro della differente dimensione dell’impresa è dato dalla esistenza o meno della funzione della programmazione a breve e medio e lungo termine.

       Secondo i buoni manuali di economia aziendale l’attività d’impresa non può non essere programmata ed in effetti, superando una certa soglia dimensionale, è decisivo per le sorti dell’impresa definire piani di sviluppo che prevedano crescita della capacità produttiva, differenziazione dei prodotti e strategie aziendali in genere. 

     Il carattere decisivo della programmazione aziendale è a ben vedere connesso con due fondamentali e intimamente connessi aspetti della dinamica dell’impresa capitalistica, vale a dire il controllo economico di una parte rilevante dei mercati di approvvigionamento dei fattori produttivi e di collocazione del prodotto ottenuto e l’esercizio del potere in funzione degli obiettivi che di volta in volta la direzione dell’impresa di prefigge. L’economia produttiva dell’oligopolio altro non è che la gestione, a livello di singolo gruppo o d’impresa, delle variabili che sono determinanti per l’acquisto e l’utilizzazione dei fattori della produzione e per la collocazione sul mercato dei prodotti ottenuti ovviamente sempre nell’ottica dell’equilibrio economico, finanziario, patrimoniale e organizzativo visto nella prospettiva del lungo periodo e quindi «durevole».

       Dal punto di vista produttivo la struttura oligopolistica domina il «mercato» capitalistico e l’esercizio della programmazione economica a livello della singola struttura oligopolista conferisce al mercato medesimo una connotazione di pianificazione che pervade non solo la vita e l'organizzazione dell’impresa che la mette in atto ma in misura rilevante anche l’ambiente nel quale essa opera.

      Poiché la questione del «mercato» riveste una connotazione ideologica e politica molto importante e poiché la struttura oligopolistica della produzione capitalistica è impossibile senza una pianificazione da parte dell’impresa è necessario procedere nell’analisi di ciò che si vorrebbe che fosse il sistema capitalistico e di ciò che esso è nella pratica quotidiana degli affari economici.

      Innanzitutto per l'impresa capitalistica oligopolistica il mercato costituisce il «luogo» presso il quale si aprovvigiona dei fattori della produzione e presso il quale colloca i propri prodotti, siano essi merci o servizi. Il mercato dei fattori della produzione ha una segmentazione connessa con i diversi  «tipi» necessari per la produzione e quindi, in sostanza:

 

 

 

                     1)  mercato delle materie prime

                     2) mercato dei servizi alla produzione

                     3) mercato del lavoro   

                     4) mercato dei beni strumentali 

 

 

     L'acquisizione dei fattori della produzione complessivamente intensi è sostanzialmente determinato dal tipo di processo produttivo che si intende mettere in atto e dal tipo di merci o servizi che si intende produrre. Per questa via, quindi, l'acquisizione dei fattori della produzione è connessa principalmente con il mercato di collocazione del «risultato produttivo» per cui l'impresa acquisterà quei fattori della produzione che sono necessari per l'ottenimento nei termini e nei tempi richiesti delle merci e dei servizi che si intendono collocare sul mercato.

     L'acquisto dei fattori della produzione è il primo atto connesso all'economia dell'impresa la quale, soprattutto quando è di grandi dimensioni, inizia il processo produttivo acquisendo innanzitutto il primo e più importante fattore della produzione, ancorché «generico»: la moneta. Attraverso l'acquisizione della «moneta» l'impresa capitalistica costituisce la propria dimensione finanziaria e condiziona i rimanenti parametri della dimensione ma ciò che è più importante costituisce la propria essenza di impresa economica, di una impresa cioè che produce non tanto per il soddisfacimento di un bisogno di consumo quanto per la prospettiva di un arricchimento in modo diretto di coloro che investono denaro nella struttura e in modo più ampio di tutti coloro che entrano a far parte dell'organizzazione.

     Se l'acquisizione dei fattori della produzione è la prima fase del processo produttivo capitalistico la «combinazione» dei medesimi è sicuramente il secondo e soprattutto per l'impresa oligopolista di grandi dimensioni  costituisce il «momento organizzativo» della produzione.

       In precedenti parti del Saggio si è fatto riferimento alla combinazione dei fattori della produzione come ad uno degli elementi caratterizzanti l'equilibrio economico, in particolare quando si è parlato di «ordine combinatorio».  L'ordine combinatorio è il momento nel quale la direzione dell'impresa decide, in base ai programmi di sviluppo formulati, il grado e le modalità d'impiego dei fattori della produzione nella prospettiva di ottenere i risultati produttivi programmati. Si può quindi affermare che la produttività complessiva dell'impresa ha il primo stadio nell'ordine combinatorio.

      I fatti economici salienti dell'ordine combinatorio per le imprese capitalistiche possono essere così elencati:

 

               1)  l'innovazione tecnico-produttiva;

               2)  la gestione delle «risorse umane»; 

               3)  la complessiva gestione delle risorse «economiche».

 

 

     Classicamente l'innovazione tecnico-produttiva può assumere la configurazione di una nuova merce prodotta oppure di una merce vecchia ma prodotta con nuovi metodi produttivi.

     Quale che sia l'origine e la «destinazione» finale dell'innovazione tecnologica è chiaro che essa è destinata a incidere in modo determinante nella posizione economico-tecnica dell'impresa capitalistica e, in generale, nella struttura della società capitalistica.

    L'impresa capitalistica è praticamente inscindibile dal processo di innovazione tecnologica sulla quale fonda il proprio sviluppo e la propria posizione dominante di potenza economico-finanziaria ed in effetti la gestione dell'innovazione costituisce uno degli aspetti essenziali dell'economia di tale impresa. Tenendo in debito conto che il fenomeno dell'innovazione tecnologica è specularmente collegato al fenomeno dell'obsolescenza è chiaro come questi agiscano in modo contrapposto sulle posizioni di equilibrio economico, finanziario, organizzativo e patrimoniale combinando insieme quegli elementi di opportunità e di rischio che sono, come già precedentemente detto, l'essenza stessa dell'impresa capitalistica.

      L'innovazione tecnico-produttiva procede in modo incessante per l'impresa capitalistica, anche quando le fasi economiche non sono le più consone allo sviluppo. Vi sono tradizionalmente innovazioni tecnologiche che provengono da «fattori esterni» all'impresa, come una scoperta scientifica o un nuovo «prodotto» (come per esempio la radio), e vi sono innovazioni tecnologiche che provengono direttamente dalle imprese. In questo processo formativo non vi è dubbio che l'impresa abbia preso nettamente il sopravvento rispetto ad una situazione esistente, grosso modo, nel secolo XIX: le innovazioni tecnologiche provengono quasi esclusivamente dal sistema delle imprese capitalistiche e in ogni caso è lo sfruttamento economico di una nuova scoperta tecnico-scientifica che ne determina, in pratica, il successo, diffondendo la merce o il servizio presso  il pubblico dei «consumatori».  Ma una delle questioni più significative per l'economia produttiva dell'oligopolio è che il flusso delle innovazioni tecnico-produttive implica un forte investimento in attività di ricerca e sviluppo, attività di per sé rischiose in quanto connesse con lunghi tempi di gestazione, con utilizzazione di risorse economiche e umane di rilevanti dimensioni e con «risultati» che possono non essere all'altezza delle aspettative desiderate. 

      La complessa gestione connessa con l'innovazione tecnologica rafforza la necessità della programmazione aziendale nel tentativo sia di controllare al meglio le opportunità e i rischi conseguenti sia di prevenire o comunque di controllare le possibili strategie analoghe delle imprese concorrenti, se ve ne sono. 

     In modo diretto l'innovazione tecnologica incide su ciascun segmento del mercato dei fattori della produzione, in alcuni casi rendendo alcuni di essi obsoleti ancora prima di essere immessi nel processo produttivo. Inoltre l'innovazione tecnologica è differente da settore a settore e in ogni caso segue un ritmo di crescita che è connesso soprattutto con le capacità innovative di alcune imprese per così dire leader.

    In sintesi, quindi, l'innovazione determina un costo in funzione degli investimenti effettuati e allo stesso tempo pone l'impresa, sempre che le scelte si rivelino «giuste»,  nelle condizioni di sfruttare economicamente o il nuovo metodo di produzione o il nuovo prodotto.

     Normalmente il processo innovativo, sia che riguardi l'immissione sul mercato di una nuova merce sia che riguardi una diversa organizzazione all'interno dell'impresa, determina un cambiamento della struttura produttiva che implica per l'impresa una modifica nella gestione delle risorse umane.

     In effetti l'impresa capitalistica costituisce l'esempio tipico di un soggetto in continuo divenire e l'innovazione tecnologica è solamente un fattore del cambiamento, anche se particolarmente rilevante. Trattandosi di entità economica l'impresa capitalistica misura i propri investimenti, in qualunque fattore della produzione siano effettuati, attraverso il «grado di recupero» che significa, in pratica, la valutazione del margine ottenibile sia nella sua entità assoluta e relativa (rapportata al capitale investito) sia nei tempi effettivi.

      L'ottenimento di un margine che giustifichi l'investimento implica per l'impresa una attenta «gestione» delle risorse umane sicché al fianco della programmazione economica necessariamente deve essere posta in atto una struttura organizzativa che sia in grado di definire per ciascun addetto compiti, produttività e responsabilità e, ovviamente, mettere in atto un apparato di controllo del funzionamento complessivo dell'organizzazione.

     All'interno dell'organizzazione dell'impresa capitalistica la divisione del lavoro diviene massima, soprattutto per le funzioni meramente produttive o amministrative mentre un gruppo ristretto di dirigenti determina sia le strategie generali che le modalità attraverso le quali tali strategie devono essere compiute.

     In termini economici la gestione delle risorse umane pone due problemi essenziali che sono il costo e il rendimento del lavoro.

     Sul lato del costo del lavoro le scelte dell'impresa possono essere diverse e implicare un utilizzo più o meno forte del fattore lavoro. Anche in tal caso vi sono sostanzialmente due modi per l'impresa capitalistica per affrontare il problema del costo del lavoro: il primo è costituito dalla possibilità di utilizzare in modo più o meno flessibile sia la forza lavoro che il salario conseguente; il secondo è costituito dalla possibilità di affidare a terze imprese alcune fasi della lavorazione del prodotto e quindi risparmiare non solo sul lavoro ma anche sul costo degli altri fattori della produzione.

     Per ciò che attiene al rendimento del lavoro è chiaro che l'impresa, ovviamente attraverso i propri massimi dirigenti, è in grado (deve essere in grado) di determinare in modo sufficientemente preciso il livello di produttività richiesta affinché il ritmo della produzione proceda secondo i programmi e normalmente  l'intreccio dell'utilizzo delle risorse umane con l'innovazione tecnologica impone anche un determinato livello qualitativo sia di ciò che si produce sia di come si produce. 

     La «combinazione» del fattore lavoro con i rimanenti fattori della produzione, quelli che nel Capitolo Secondo del Libro Primo sono stati definiti «strumenti della produzione», pone tutti i problemi di incertezza e di rischio (ma anche di opportunità) tipici di ogni processo combinatorio. Statisticamente possono verificarsi quattro casi, e precisamente:

 

 

                1)  il rendimento del lavoro e quello degli altri fattori

                     rientrano nelle previsioni della programmazione;

                2)  il rendimento del lavoro è conforme alle previsioni ma

                     uno o più strumenti produttivi non danno il rendimento voluto;

                3)  il rendimento del lavoro non è conforme alle previsioni ma

                      lo sono i rimanenti strumenti produttivi;

4)      né il lavoro né gli strumenti della produzione danno i risultati

voluti (o previsti).

 

 

     Quando l'impresa si trova nella posizione descritta nel punto 1) è chiaramente nella posizione ottimale e deve semplicemente mantenere tale assetto produttivo mentre nella posizione descritta nel punto 4) dovrà necessariamente rivedere tutta l'organizzazione produttiva, sia del lavoro che degli strumenti produttivi.  Nelle posizioni «intermedie» di cui al punto 2) e 3) l'impresa dovrà valutare in modo attento e preciso i motivi degli scostamenti e assumere le decisioni conseguenti.

      Ciascuna delle «combinazioni produttive» più sopra indicate impone, ovviamente, una determinata struttura dei costi per l'impresa. I costi dell'esercizio economico-industriale sono già stati esaminati in capitoli precedenti e nel presente si fa ad essi richiamo. Con tale richiamo l'analisi è inevitabilmente collocata sul terzo punto relativo alla complessiva gestione delle risorse economiche disponibili per l'impresa.

     I fattori della produzione possono essere classificati sotto due ampie categorie:

 

                        a)   fattori a costo anticipato

                        b)  fattori a costo posticipato

 

 

     I fattori a costo anticipato sono le materie prime e i beni strumentali, le prime definite anche «fattori d'esercizio» e i secondi «fattori strutturali».

     I fattori a costo posticipato sono i servizi di lavoro e i servizi all'impresa, denominati, alcune volte, servizi generali.

     I fattori a costo anticipato, come già detto a suo luogo, costituiscono un fattore di rigidità nell'economia dell'impresa, sia essa oligopolista o di altro genere: tali classi  di fattori, infatti, devono essere immessi nel processo produttivo prima della loro utilizzazione, sostenendo il relativo costo ma più di tutto sono soggetti al rischio della non completa utilizzazione che può derivare, per esempio, da un processo rapido di obsolescenza o da una errata valutazione da parte dell'amministrazione aziendale della effettiva capacità dell'impresa di collocare sul mercato le merci o i servizi prodotti (o da altre cause ancora). Inoltre mentre le materie prime costituiscono un fattore teoricamente a «rapido rigiro» i beni strumentali hanno tempi d'impiego molto più lunghi e determinano, in pratica, l'orizzonte temporale della produzione. La natura dei beni strumentali, soprattutto quando sono di ingenti entità sia tecnica che economica, pone all'impresa i soliti problemi connessi con la flessibilità dell'utilizzazione dei fattori della produzione, flessibilità che deve essere accordata con il carattere specializzato della produzione industriale: l'equilibrio fra flessibilità dell'impianto e specializzazione produttiva è delicato ma anche dirompente come spesso accade  alle cose delicate.

     L'impresa capitalistica ha alcuni modi per prevenire i rischi connessi con la rigidità dei fattori strutturali, quali sono i beni strumentali.

     Anzitutto l'impresa capitalistica può differenziare la produzione compiendo un processo d'integrazione orizzontale, processo che può portare anche alla produzione di merci completamente differenti una dall'altra. In secondo luogo l'impresa capitalistica, nella sua essenza di entità dinamica e di entità finanziaria, può costruire più stabilimenti produttivi, magari dislocati anche in nazioni differenti, dotati di diversa tecnologia produttiva  ed anche affidare ad alcuni di essi una funzione spiccatamente innovativa conferendogli la connotazione di impianti-pilota, sia come processo produttivo sia come merce prodotta. Inoltre l'impresa se è sufficientemente preparata in termini di conoscenza, mezzi economici e struttura organizzativa può mettere in atto processi industriali di riconversione produttiva, adattando gli impianti esistenti o acquisendone di nuovi  per lo svolgimento di un processo di produzione differente da quello in essere. 

       In ogni caso la presenza dei fattori strutturali all'interno delle imprese oligopoliste determina per il mercato quello che è stato definito «grado di monopolio» da Kalecki e «prezzo di eliminazione» dal Prof. Sylos-Labini.

      Riprendendo in esame le formule esposte nel Capitolo Sesto del Libro Primo si può procedere nel modo seguente al fine della determinazione dei costi e delle condizioni di equilibrio economico dell'impresa:

 

 

             (1)      yt  p  g   -   BI  =   PR  + A + t Nw - r AF

 

 

che esprime la solita formula dell'equilibrio economico nel lungo periodo, almeno fino a quando i fattori strutturali contenuti nel valore «A» possono essere impiegati produttivamente.

     Il passo successivo consiste nel definire le variabili come composizione dei mezzi impiegati dall'impresa, ovvero dal capitale. In simboli si avrà:

 

 

                    (2)               A    =    a   MI

 

                    (3)             tNw   =    b   MI        

 

                    (4)              AF    =    c   MI

 

                    (5)               BI     =   z   MI

 

 

      Mediante semplici sostituzioni e altrettanto semplici passaggi d'algebra si può ottenere il prezzo di equilibrio per l'impresa, vale a dire:

 

 

 

                                               +   a   +  b  +  z  -  rc)   MI

                    p   =       ------------------------------------------------

                                                              yt   g

 

 

 

      Un'ovvia condizione «tecnica» impone che sia  sempre:

                  

                                         a  +  b  +  c  +  z   =    1 

 

vale a dire che la somma  delle percentuali di composizione di tutti i fattori della produzione sia pari all'unità .

     Secondo l'impostazione di Kalecki il grado di monopolio sarebbe dato dall'espressione:

 

                                                                a   MI

                                            ß     =     ----------------

                                                                  yt  g

 

 

mentre il prezzo di eliminazione del Prof. Sylos-Labini sarebbe:

 

 

                                                                 (a + z)  MI

                                            p (e)   =   --------------------

                                                                      yt   g

 

 

 

      Ciò posto si può verificare la posizione di equilibrio dell'impresa e le sue variazioni procedendo ad opportune modifiche nei parametri della determinazione del prezzo.

      La più semplice delle ipotesi è data dalla variazione dei mezzi impiegati e della quantità prodotta  mantenendo costanti tutti i restanti parametri. In questo caso è chiaro, data la struttura della formula, che un incremento di MI più elevato di  yt determina un incremento del prezzo e, viceversa, un incremento di MI più basso di un incremento di yt determina una riduzione del prezzo. Queste considerazioni sono di carattere essenzialmente «aritmetico» e, in quanto tali, possono essere realizzate o meno nella pratica. Nella gestione degli affari dell'impresa capitalistica vi sono due variabili che hanno una «resistenza debole», per così dire, alle variazioni dei mezzi impiegati e del flusso di produzione: il prezzo stesso e il saggio di profitto.

      Per esemplificare la questione in modo estremamente elementare si supponga che valgano i seguenti dati:

 

                  a + b + z - rc   =   60%

                  µ      =   20%           

                  MI   =   15.000

                  yt     =   1.000 

                   g     =    75%

               

per cui  la formulazione del prezzo sarà:

 

 

                                 (20%   +   60%)   15.000

                     p  =  -------------------------------  =   16

                                         1.000    75%

 

 

       Il prezzo così ricavato è un prezzo di equilibrio determinato da due variabili dotate di un certo grado di certezza come la struttura della produzione e il flusso di produzione ottenibile e da due variabili più improntate all'incertezza e comunque «attese» come il saggio di profitto e la quantità effettivamente venduta.

      In queste condizioni se la quantità venduta fosse, alla fine, effettivamente il 70% il mantenimento del saggio di profitto al 20% implicherebbe, sempre a parità d'altre condizioni, un prezzo di 17,14 ma è chiaro che nel mondo degli affari esiste una necessaria e immanente «sequenza temporale» degli eventi economici per cui se l'impresa produce effettivamente il flusso indicato e lo colloca sul mercato al prezzo «atteso», quindi di 16,  una riduzione della quantità venduta dal 75% al 70% determina, nelle condizioni date, una riduzione del saggio di profitto al 14,66%.

     In effetti però il flusso produttivo assunto nella formula si riferisce all'intero ciclo di vita degli impianti, almeno nelle assunzioni sin qui fatte, e ciò comporta che l'impresa avrà una necessaria verifica periodica sia del ritmo della produzione sia del ritmo delle vendite. Da questa verifica periodica l'impresa è quindi in grado di valutare gli scostamenti fra le attese e ciò che è stato effettivamente realizzato e sia le capacità dell'amministrazione che la potenza economica della struttura aziendale dovrebbero essere in grado di modificare in tutto o in parte il corso degli eventi. L'azione amministrativa può ovviamente riguardare tutte le variabili di ricavo e di costo, quindi l'intera struttura produttiva (a parte ovviamente i fattori strutturali) ma è abbastanza ovvio supporre che il primo elemento oggetto di attenzione sarà il grado di assorbimento del mercato, se non altro perché nelle ipotesi date è l'elemento che ha subito uno scostamento rispetto alle previsioni.   

      In queste condizioni la gestione dell'impresa diviene soggetta a quel doppio meccanismo di crescita e di fluttuazione ciclica analizzati nei capitoli dedicati alla dinamica del sistema nel Libro Primo.    

     Normalmente l'impresa, definito l'orizzonte temporale della produzione, passa alla segmentazione della medesima determinando previsioni annue, mensili e giornaliere: la produzione complessivamente attesa, nel caso ipotizzato 1.000 unità, viene divisa in sotto-periodi e il controllo della gestione avviene sulla base di ciò che è effettivamente successo in un determinato periodo di tempo, per esempio un anno. Se la «sequenza produttiva» prevista fosse 150, 200, 300, 250, 100  l'impresa dovrà controllare la gestione del primo anno verificando anzitutto se effettivamente il flusso produttivo è stato di 150 unità e quindi valutare i costi e i ricavi attinenti alla produzione effettiva.

     Lo scostamento della quantità prodotta potrebbe esse dato da un impiego dei fattori della produzione diverso da quello ipotizzato ovvero da un diverso rendimento dei medesimi o le due cose insieme. In ogni caso il mantenimento della posizione di equilibrio ipotizzata dipende dalla somma algebrica degli scostamenti: se tale somma è maggiore di zero la posizione di equilibrio subisce, in linea di principio, un deterioramento mentre se è minore di zero si rafforza.

     Il deterioramento della posizione di equilibrio significa che l'impresa deve ricorrere ad un aumento del prezzo per mantenere il medesimo saggio di profitto ma significa anche che la somma algebrica degli scostamenti è stata, relativamente al periodo in esame, proporzionalmente maggiore dello scostamento del flusso di produzione effettivo rispetto a quello atteso.   

     Lo scostamento del flusso della produzione e la variazione della quantità venduta, quindi del  parametro «g», costituiscono un’altra ipotesi di variazione della posizione di equilibrio economico. Una riduzione della quantità prodotta e una riduzione della quantità venduta determinano, a parità d’altre condizioni, un incremento del prezzo di equilibrio e conseguentemente, anche in questo caso, occorre verificare effettivamente cosa l’impresa è in grado di fare: se imporre il prezzo senza subire riduzioni nella quantità venduta o se subire un declino del saggio di profitto o una combinazione delle due cose insieme.

     La determinazione del parametro «g» è cruciale nel processo di formazione dei ricavi e quindi della posizione di equilibrio dell'impresa. La capacità di vendita sul mercato dei prodotti ottenuti dal processo produttivo e ai prezzi che consentano il mantenimento dell'equilibrio economico costituisce la cosiddetta «potenza commerciale» dell'impresa capitalistica che potrebbe sembrare un semplice «accessorio» della gestione ma che in effetti è la ragione stessa dell'esistenza dell'impresa nella sua forma capitalistica la cui gestione, interamente permeata da rischi, trova nella cessione sul mercato delle merci  prodotte  il momento della realizzazione effettiva di quanto prodotto e quindi anche l'effettivo riscontro dei rischi temuti che in ogni caso incidono sulla formazione effettiva del profitto.

     La potenza commerciale ed economica dell'impresa capitalistica è in grado, attraverso un'organizzazione «appropriata» e la formulazione di piani economici a breve e lungo termine, di limitare o prevenire in parte i rischi aziendali e di incidere in modo determinate sulla formazione della quantità venduta attraverso appropriate politiche di marketing che sono tanto più potenti e tanto più raffinate quanto più potente e raffinata è l'intera struttura aziendale.

     In altre parti del Saggio è già stato affermato che l'equilibrio economico dell'impresa, e quindi «anche» la formazione del profitto, dipende dall'ordine aziendale nelle sue tre configurazioni di ordine sistematico, combinatorio e di composizione ed in questa sede non si può far altro che sottolineare tale affermazione, tenendo opportunamente conto che le dimensioni della struttura dell'impresa svolgono una funzione importante nella definizione «pratica» dei vari tipi di ordine.

      Dopo l'acquisto e la combinazione dei fattori della produzione la terza fase del processo economico è costituita dalla scelta della combinazione produttiva tenendo conto delle possibilità e delle opportunità del mercato.

     Nell'economia dell'impresa oligopolistica l'analisi delle opportunità di mercato costituisce in effetti un elemento capace di informare tutta la gestione aziendale e nella pratica degli affari vi è un settore specializzato nell'organizzazione dell'impresa, il marketing, che si occupa in modo specifico del problema.

     La questione delle opportunità di mercato è molto complessa e il suo sviluppo procede di pari passo con lo sviluppo tecnico e quello economico.

     Le imprese capitalistiche sono alla costante ricerca di nuovi mercati che ottengono o con nuovi prodotti o con una maggior penetrazione dei prodotti esistenti. In ogni caso l'impresa produce un'azione di carattere commerciale che tende ad accreditare il prodotto sul mercato utilizzando tutte le tecniche che sono necessarie per l'accettazione del medesimo da parte dei consumatori. L'azione di carattere «commerciale» in effetti riguarda una serie di elementi che sono i potenziali acquirenti, il tipo di prodotto, un «giusto» rapporto prezzo\qualità, i canali della distribuzione commerciale, il prezzo e la qualità dei prodotti concorrenti e, certamente non ultimo, un adeguato sostegno promozionale che richiede risorse economiche né più e né meno della produzione in senso tecnico.

         La combinazione produttiva più appropriata è data proprio da quella che fornisce il tipo di prodotto che meglio soddisfa le esigenze «commerciali» sicché se l'impresa sceglie, per esempio, di fabbricare un certo prodotto (per esempio sacchetti di plastica) con dei materiali poco resistenti acquisterà anche un certo tipo di materie prime oppure, a seconda del tipo di prodotto, adotterà un processo produttivo non particolarmente «qualificato». La cosa essenziale è vendere i sacchetti prodotti al prezzo che assicura l'equilibrio economico.

      E' forse utile insistere che la combinazione produttiva più appropriata è determinata da un'insieme di fattori che in parte attengono alla attuale struttura dell'impresa ma che in massima parte attengono alle previsioni formulate dall'amministrazione circa la direzione e il grado di sviluppo previsti. In tal senso più che i profitti attuali o passati diventano importanti i profitti attesi dalla nuova combinazione produttiva. E' su queste attese di profitto che l'impresa procede all'approntamento di nuovi processi produttivi che implicano nuovi investimenti in attrezzature produttive ma in genere nuovi investimenti in ciascun fattore della produzione.

     La decisione di investire in nuovi impianti e quindi di determinare un incremento della qualità e della quantità del flusso produttivo riposa su due motivazioni fondamentali: la prima è il mantenimento dell'efficienza della complessiva struttura aziendale e la seconda, certamente non disgiunta dalla prima, è l'acquisizione o il consolidamento della posizione relativa dell'impresa sul mercato, quindi dei suoi «rapporti di forza» con le imprese concorrenti.

      Le modalità attraverso le quali i rapporti di forza si realizzano nella pratica degli affari sono numerose ma a livello analitico possono essere ricondotte, senza troppe forzature, entro lo schema noto del marketing mix che prevede quattro variabili: prezzo, produzione, distribuzione e promozione.

     Ciascuna di queste quattro variabili costituisce per l'impresa al medesimo tempo un'opportunità ed un rischio che in quanto tali devono essere opportunamente gestiti. Vi sono merci o servizi, ma soprattutto segmenti di mercato, nei quali la concorrenza con le imprese si fonda soprattutto sul prezzo mentre in altri si fonda sulla qualità della produzione e in altri ancora sul tipo di promozione che viene svolta. Ma le grandi dimensioni delle imprese e lo sviluppo tecnico ed economico tendono a indirizzare la concorrenza su ciascun elemento del marketing mix sicché ogni impresa, ovviamente tenendo conto del tipo di merce o servizio che intende immettere sul mercato, dovrà studiare una particolare combinazione del marketing mix e tale «particolare combinazione» definisce in pratica anche l'organizzazione produttiva e aziendale più confacenti per l'ottenimento di quanto programmato.

     In questo contesto le strategie dell'impresa dipendono molto dalla effettiva struttura del mercato e dalla sua posizione relativa.

      Nel sistema economico capitalistico vi sono settori produttivi dotati di un elevato grado di concentrazione produttiva con imprese che, per produrre con una «normale» efficienza, devono necessariamente assumere grandi dimensioni, come i settori dell'energia e delle telecomunicazioni. In settori più «tradizionali», come quello meccanico o quello tessile, è possibile la coesistenza di imprese di grandi dimensioni con imprese di medie e piccole dimensioni ognuna delle quali «serve» un particolare segmento di mercato con un ben definito tipo di prodotto.

      In ogni caso i rapporti fra le imprese, pur realizzandosi nella pratica attraverso i componenti del marketing mix, rappresentano sempre l'espressione dell'esercizio di un potere che è essenzialmente un potere economico ma che in molti casi è potere puro e semplice. L'esercizio di questo potere proviene dall'impresa in quanto organizzazione di mezzi e di uomini, ma soprattutto di uomini e ha per fine il consolidamento e lo sviluppo dell'impresa nella sua forma capitalistica.

     Il potere dell'impresa capitalistica che si trova in una posizione di forza sul mercato si realizza attraverso i componenti del marketing mix ma la qualità di organizzazione economica dell'impresa in oggetto costituisce il fondamento indispensabile per l'esercizio del potere medesimo e non vi è dubbio che lo standard produttivo e organizzativo della grande impresa oligopolistica influenza in modo rilevante sia la struttura produttiva del settore o dei settori nei quali opera sia le stesse condizioni di economicità delle imprese di minore consistenza economica, finanziaria e produttiva che si trovano, in qualche modo, in concorrenza.

      Di questa circostanza si può ovviamente dare una rappresentazione contabile che però è anche, a ben vedere, una rappresentazione economica. Tale rappresentazione può essere data riprendendo la semplice formula dell'equilibrio economico sopra vista e in particolare, indicando con k la sommatoria   a + b + z - rc, si può scrivere:

 

 

                                                +  k)   MI

                             p   =    ----------------------

                                                    yt  g

 

 

la quale con una semplice modifica strutturale può essere scritta  nella forma:

 

 

                                             p   =     +  k)    a   

 

 

nella quale  a   è dato dal rapporto   MI / (yt g).

     Supponiamo ora che per una data grande impresa siano validi i parametri seguenti, riferiti al profitto e ai mezzi investiti:

 

 

                  µ =  20%     a  =  25%   b =  20%   c  =  30%   z  = 25%      

 

 

mentre il rendimento delle attività finanziarie  sia   r  =   15%. In queste condizioni si avrà, relativamente al parametro k:

 

 

                  k   =   25%  + 20% + 25%  -  30%  15%   =   70,5%

 

 

per cui   (µ +  k)   =   90,5%. Se il rapporto a  è pari, per esempio,  a 50  il prezzo di equilibrio per la grande impresa sarà semplicemente dato dalla formula:

 

 

                                     p   =   90,5%     50    =  45,25

 

 

      Determinato in questo modo il prezzo di equilibrio per la grande impresa si può procedere con l'introduzione di una ipotetica (ma anche reale, se si vuole) concorrente di medie dimensioni per la quale si suppone siano validi i seguenti dati:

 

 

                  µ =  25%     a  =  15%   b =  35%   c  =  5%   z  = 45%      

 

 

per cui il primo parametro per la determinazione del prezzo di equilibrio, considerando un saggio di rendimento delle attività finanziarie sempre del 15%, sarà il seguente:

 

                 

                  k   =   15%  + 35% + 45%  -  5%  15%   =   94,25%

 

 

per cui sarà     +  k)   =   1,1925%. Da questi dati il mantenimento del prezzo al livello della grande impresa, pari a 45,25, è possibile solo se  a risulta essere pari a 37,94.

      Il significato operativo delle semplici elaborazioni aritmetiche appena esposte può essere così stigmatizzato: se il capitale complessivamente investito nell'impresa di grande dimensioni fosse  pari a 300.000 UM poiché si è assunto che  a  = 50  necessariamente il flusso delle vendite dovrà essere pari a 6.000 unità. Per l'impresa di medie dimensioni che vuole investire o che investe 37.940 UM di capitale nel processo produttivo il livello delle vendite deve quindi essere pari a 1.000 unità: al di sotto di tale livello produttivo non è possibile mantenere sia il medesimo prezzo della grande impresa sia il livello programmato del saggio di profitto.    

      In queste condizioni diventa importante per l'impresa di medie dimensioni capire se attraverso l'investimento della somma preventivata e secondo le proporzioni indicate è effettivamente possibile ottenere il livello produttivo e di vendite che consenta l'equilibrio economico come sopra individuato. Se la scelta tecnica dà il risultato sperato l'impresa può approntare il processo produttivo, in caso contrario dovrà o rinunciare o imporre modifiche alla struttura della produzione tali da ottenere se non il prezzo della grande impresa almeno un divario per così dire accettabile. In ogni caso le scelte dell'impresa sono nettamente condizionate dallo standard produttivo e tecnologico della grande impresa sicché ciò che è possibile a livello di «numeri»  deve essere traducibile in effettive operazioni aziendali in generale e produttive in particolare in assenza delle quali l'impresa non avrà le condizioni di economicità richieste per l'approntamento né del processo produttivo e né dell'organizzazione aziendale.

      Un'ultima questione riguarda le formule e i numeri sopra riportati. Si potrebbe sostenere, in linea puramente ipotetica, una struttura dei mezzi di produzione esattamente identica per la grande impresa e per la media e piccola impresa e in tal caso, indipendentemente dalla quantità di mezzi economici immessi nel processo di produzione, si arriverebbe tendenzialmente al medesimo prezzo di equilibrio con l'unica incognita rappresentata dalla quantità prodotta e venduta. Una tale situazione è difficilmente realizzabile nella pratica degli affari in quanto la differente proporzione in cui sono impiegati i mezzi economici costituisce la vera differenza fra la grande e la media e piccola impresa. Non si tratta infatti di semplici differenze di  «scale produttive» ma di modi differenti di organizzare la produzione e l'intera vita dell'impresa. In definitiva, come ripetutamente osservato, è l'ordine aziendale a determinare l'equilibrio economico che non è né automatico né spontaneo. La grande impresa capitalistica ha risorse umane, tecniche ed economiche che le consentono, nella normalità dei casi, di gestire in modo più efficacie che non le medie e piccole imprese l'ordine combinatorio, l'ordine sistematico e l'ordine di composizione e quindi di conseguire le attese condizioni di economicità e funzionalità della struttura ma è altrettanto chiaro che appena il gruppo dirigente, per incapacità o altre motivazioni, non è più nelle condizioni di governare il divenire dell'ordine aziendale l'impresa, per quanto sia potente la sua struttura o la sua capacità produttiva o la sua solidità finanziaria, sarà soggetta ad un declino economico rapido e irreversibile e purtroppo come accade quasi sempre nelle vicende umane mentre la costruzione di una struttura funzionante richiede tempo e impegno la dissoluzione richiede spesso semplicemente l'ozio o il non agire.          

 

 

 

 

        

             40. - L’economia finanziaria dell’oligopolio. -  L'impresa oligopolista di grandi dimensioni è caratterizzata, come ripetutamente descritto, da una forte connotazione finanziaria e il complessivo assetto finanziario di tale tipo d'impresa risulta essere particolarmente complesso, oltre ché strettamente intrecciato con gli altri aspetti della gestione aziendale. Schematicamente gli aspetti salienti dell'economia finanziaria dell'oligopolio possono essere così classificati:

 

 

                          1)   natura giuridica dell'impresa; 

2)      decisioni di investimento;

3)      decisioni di finanziamento. 

 

 

        Come di solito avviene nell'analisi economica i tre aspetti indicati sono soggetti a reciproci vincoli e interconnessioni ma l'esigenza dell'analisi impone una trattazione massimamente separata.

      La natura giuridica dell'impresa oligopolista potrebbe sembrare un elemento accessorio all'analisi economica ma in realtà gli strumenti giuridici messi a disposizione dei privati per la gestione delle imprese dalle varie legislazioni dei Paesi in cui si è sviluppato il capitalismo costituiscono un fattore determinante dell'organizzazione economica.

      Lo strumento giuridico messo a disposizione dei privati per l'organizzazione dell'impresa è costituito dalle «società commerciali», quindi da organismi collettivi che sono normalmente strutturati con un organo «volitivo» che è costituito dall'assemblea dei soci e con un organo «amministrativo» che è costituito dal consiglio di amministrazione, nominato dall'assemblea. Caratteristica essenziale della società commerciale è quella di costituirsi come entità giuridica autonoma rispetto alla posizione giuridica dei singoli soci i quali sono chiamati a rispondere per le obbligazioni contratte dalla società solamente con il capitale sottoscritto e versato. La società in oggetto può emettere particolari titoli «di proprietà», normalmente denominati «azioni», che certificano l'iscrizione nel libro dei soci del sottoscrittore e quindi il possesso dei diritti che la legislazione in materia accorda ai soci. Le azioni emesse dalla società hanno eguale valore nominale e vi sono casi in cui la società è in grado di emettere, sempre secondo la legislazione vigente, diverse categorie di azioni che hanno differenti diritti di voto o differenti partecipazioni agli utili distribuiti. In ogni caso la regola giuridica fondamentale e in qualche modo intaccabile della società per azioni è che ogni azione dà diritto ad un voto e che nelle assemblee le decisioni sono prese a maggioranza dei soci presenti.   

      Le possibilità offerte dalla società commerciale o per azioni sono molteplici per chi intende costituire o gestire o acquisire un'attività d'impresa.

      Innanzitutto la costituzione di una società per azioni, sempre in ossequio alle differenti legislazioni vigenti nei vari Paesi capitalistici e non, non necessariamente esige che sia svolta nella pratica un'attività di carattere industriale o commerciale ma è sufficiente che i soci si pongano come obiettivo l'esercizio generico di un'attività economica ed anzi in molti casi l'atto costitutivo della società prevede una serie molto consistente di attività economiche da svolgere solo «sulla carta». Questa circostanza giuridica costituisce un primo elemento di «sganciamento» dalla struttura societaria dall'attività economica che può condurre, in molte circostanze, alla costituzione di pure «società di comodo», altrimenti definite, molto significativamente, «scatole vuote» con lo scopo occulto di aggirare una  legge o di evadere una o più imposte o, peggio, di esercitare vere e proprie attività illecite.

    Altro elemento distintivo della struttura di una società per azioni è il suo assetto finanziario-economico. Anche in questo caso nelle diverse legislazioni vi è un vincolo «primario» costituito dal capitale sociale minimo necessario per la costituzione della società e normalmente vi è l'obbligo formale di rendere pubblico o comunque disponibile in caso di necessità l'elenco dei soci e le loro quote di partecipazione alla società. La questione però non si esaurisce in questi termini perché il socio di una società per azioni può essere una persona fisica identificabile ma può essere anche un prestanome o un'altra società, sia essa una società per azioni o di altro tipo. In questo secondo caso si sviluppa uno dei meccanismi tipici della società per azioni che è costituito dal cosiddetto «controllo a cascata».

     Un gruppo di soci costituisce una società per azioni che ha per oggetto la gestione e la «partecipazione» in altre società e sottoscrive e versa un capitale sociale, per esempio, di  1.000.000 UM. Di questo denaro disponibile 900.000 UM viene impiegato per acquisire il cosiddetto «pacchetto di controllo» della società «B» in cui capitale sociale è pari, per esempio, a 3.000.000 UM:  la società «A» in tale modo dispone  della maggioranza relativa nelle assemblee per deliberare ma dispone anche, di fatto, del controllo di eventuali (ma quasi certe) società direttamente controllate da «B». Se «B» detiene il 60% del pacchetto azionario di un'altra società «C» e il 50% di una seconda società «D» chiaramente gli azionisti di «A» con un limitato investimento hanno di fatto il controllo di una serie di società: in particolare gestiscono la società «C» con una quota del 18%  (30%  60%) e la società «D» con una quota del  15%  (30%  50%). La cosa «interessante» del meccanismo descritto è che la società «A», normalmente denominata soggetto economico, controlla di fatto una quota di terzi, cioè di persone estranee al comando del gruppo, nel primo caso dell'82% e nel secondo dell'85%. Ma le possibilità dell'«ingegneria societaria» non finiscono qui. Si supponga infatti che gli azionisti di «A» non si sentano troppo sicuri del loro pacchetto di controllo del 30% sulla società «B». Con le disponibilità delle società «C» e «D» costituiscono una nuova società «E» nella quale viene sottoscritto e versato, da ciascuna di esse, una quota di azioni corrispondente a 800.000 UM, quindi complessivamente 1.600.000 UM  ai quali si aggiunge, per esempio, un terzo azionista con quote per 400.000 UM in modo che il capitale di «E» sia 2.000.000 UM. «C» e «D» detengono in questo modo l'80% del capitale di «E» la quale utilizza 750.000 UM per acquistare il 25% del capitale di «B». In questo modo gli azionisti di «A» detengono direttamente il 30% di «B» e indirettamente, cioè tramite le società «C» e «D», il 25%, quindi la maggioranza assoluta del pacchetto azionario di «B». Il loro impegno finanziario è però sempre il medesimo, quindi  1.000.000 UM con il quale riescono a controllare in pratica non una ma cinque società, almeno nell'esempio fatto.

     Un altro aspetto certamente non trascurabile della società per azioni è la «mobilità» dell'investimento per colui che detiene le azioni. A questo proposito occorre distinguere, rimanendo nell'ambito dei gruppi oligopolisti, fra gli azionisti (o l'azionista) che detengono il pacchetto di controllo e gli azionisti, normalmente la maggioranza, che detengono azioni che di fatto non danno possibilità di controllo delle decisioni societarie. Quando si tratta di pacchetti di controllo la mobilità è assicurata da una contrattazione bilaterale nella quale due soggetti, in genere due società «finanziarie», si accordano sul prezzo di un pacchetto di azioni consapevoli entrambi del peso che esso ha sull'assetto societario. Quando si tratta di azioni che non danno il controllo della società lo scambio avviene in modo «anonimo» in un mercato altamente specializzato costituito dalla Borsa Valori (mobiliari)  ovvero in un mercato «parallelo» gestito da banche e istituzioni finanziarie in genere.

     L'esistenza della Borsa Valori, che sarà più oltre esaminata con più cura, costituisce un altro elemento importante per la «gestione» societaria in quanto le imprese costituiste sotto la forma di società per azioni intanto hanno una valutazione economica fornita dal mercato e dalle «preferenze» dei risparmiatori e quindi hanno la possibilità di allagare concretamente, all'occorrenza, il capitale «sociale» immettendo sul mercato, appunto, nuove azioni.

     Il funzionamento della Borsa dà la possibilità all'azionista di minoranza di disinvestire con relativa facilità il proprio investimento e di indirizzarlo o in altre società o in altre forme.

     Attraverso il meccanismo della Borsa Valori e, in generale, del mercato finanziario si produce all'interno dell'assetto di «comando» delle società per azioni una significativa frantumazione  del potere  e delle responsabilità dei singoli azionisti sino ad arrivare alla formazione della cosiddetta «public company» nella quale non vi è in realtà nessun «proprietario» della società e l'esercizio del potere giuridico e economico è esercitato dal Consiglio di Amministrazione. In questo caso la gestione effettiva dell'impresa non solo è svincolata dalla proprietà ma quest'ultima svolge un ruolo secondario di ratifica delle decisioni assunte dal Consiglio di Amministrazione e nella maggioranza dei casi non partecipa a nessuna assemblea e si disinteressa completamente dell'andamento effettivo della gestione. Questa prassi tende a configurare l'azionista come un semplice finanziatore verso il quale l'unico obbligo è quello di corrispondere annualmente un dividendo.

     Gli elementi caratteristici delle società commerciali, con le loro possibilità giuridiche, costituiscono un fattore di sviluppo dell'impresa oligopolista, sviluppo ovviamente collegato alle dimensioni delle impresa ovvero alle sue concrete possibilità di sviluppo economico-finanziario.    

    Per la singola impresa oligopolista le possibilità giuridiche messe a disposizione dell'ordinamento costituiscono una parte significativa dell'ordine  di composizione nella cui determinazione effettiva l'impresa ha una «controparte» costituita dallo Stato e dall'atteggiamento che il medesimo tiene nei confronti delle attività economiche e finanziarie ed anche, ovviamente, nei confronti dell'impresa come istituzione economica. Se lo sviluppo del sistema capitalistico è inscindibile dallo sviluppo dell'impresa capitalistica in qualche modo anche lo sviluppo dell'impresa capitalistica è inscindibile da un atteggiamento «favorevole» dello Stato nei confronti dell'attività d'impresa.

     La questione è complessa e sarà ripresa più avanti ma in questa parte dell'analisi  è opportuno evidenziare alcuni importanti punti del complesso rapporto che lega l'esercizio di una impresa alle regole giuridiche messe in atto dallo Stato.

     L'impresa capitalistica è una organizzazione economica che sfrutta determinate risorse materiali, immateriali e umane per l'esercizio, a scopo di lucro, di un'attività produttiva. Il processo di sfruttamento delle risorse da parte dell'impresa avviene in forma pianificata al fine di rendere l'azione economico-organizzativa la più efficace possibile. Durante la messa a punto della pianificazione e durante lo svolgimento concreto delle azioni predisposte l'impresa, rispetto all'organizzazione statale e quindi al diritto vigente, incontra alcuni vincoli che sono più o meno numerosi e più o meno restrittivi a seconda della posizione «ideologica» dello Stato nei confronti dell'impresa. La specializzazione produttiva dell'impresa oligopolistica e le sue rilevanti dimensioni hanno determinato negli ordinamenti giuridici un complesso di norme altrettanto «specializzate»  che possono essere classificate secondo la nomenclatura seguente:

 

 

                      a)  diritto commerciale e societario;

                      b)  diritto del lavoro;

                      c)  diritto tributario.

 

 

       Le norme contenute in ciascuna di queste tre «aree giuridiche» possono essere pochissime ma estremamente efficaci oppure, all'opposto, molto numerose e molto poco efficaci ma ciò che interessa maggiormente in questa sede è che l'impresa oligopolista, ma in generale il complesso del sistema delle imprese, è sottoposta ad alcuni vincoli che pongono delle ovvie «rigidità» nell'esercizio delle correnti operazioni economiche e finanziarie. Indipendentemente dalla posizione «ideologica» che si può assumere nei confronti dello Stato e del sistema delle imprese è comunque indubbio che la potestà giuridico-politica dello Stato e, molto più concretamente, la sua azione «amministrativa» determina nell'ambiente in cui opera l'impresa la presenza di un potere con il quale la medesima deve in ogni caso confrontarsi e rapportarsi.   

     L'ordinamento giuridico, a seconda del «tipo» società adottato, può imporre determinati obblighi rispetto alle assemblee, alla formazione delle maggioranze, alla nomina degli amministratori, alla pubblicazione di determinati atti societari come l'elenco dei soci e i bilanci annuali e può considerare le società nella loro essenza giuridica senza indagare più di tanto quella economica cosicché per l'ordinamento non diventa molto importante che una società detenga il potere di controllo su una o più società che nelle apparenze giuridiche sono  «indipendenti» e da ciascun atteggiamento adottato, sia nei principi giuridici che nella prassi amministrativa, ne deriva un complesso di atteggiamenti e di rapporti fra le «società commerciali» e lo Stato che è in grado comunque di determinare una larga fetta delle decisioni aziendali assunte dalle medesime, decisioni aziendali che influiscono ovviamente sulla situazione economica, finanziaria e patrimoniale delle società medesime, quindi delle imprese che esse «esercitano».

        Il rapporto fra l'organizzazione giuridica delle imprese e il potere dello Stato è tanto più complesso quanto più grandi sono le dimensioni delle imprese e si risolve, in definitiva, in un rapporto di forza fra due poteri, quello economico e quello politico-istituzionale. L'esito del rapporto dipende molto dal tipo di Stato vigente e dai suoi concreti atti amministrativi ma è indubbio che la potenza economica delle imprese può fare molto affinché l'atteggiamento dell'apparato statale sia «favorevole» alle loro aspettative. In questo modo le imprese, e segnatamente le imprese oligopoliste, possono determinare la formazione di determinate norme giuridiche di ordine societario, lavoristico o fiscale che rafforzano la loro posizione economico-finanziaria, magari ai danni di imprese meno equipaggiate sotto il profilo economico e organizzativo. Il rischio più grande insito in questo rapporto fra istituzioni politiche e imprese è che l'organizzazione dello Stato non raggiunga quell'autorevolezza politica necessaria da un lato a controllare in modo efficacie il «corretto» funzionamento delle imprese, e quindi in definitiva del sistema economico, e dall'altro a concedere all'impresa quella «libertà» di azione che è insita nella sua natura di organizzazione economica.

 

     Gli investimenti delle imprese oligopolistiche possono essere classificati secondo due categorie fondamentali:

 

 

1)      investimenti in attività tecnico-produttive;

2)      investimenti finanziari.

 

 

     Le decisioni d’investimento in attività tecnico-produttive sono relativi all’acquisto e all’approntamento di quei beni materiali e immateriali che servono per lo svolgimento del processo di produzione e anche per il funzionamento dell’organizzazione (come un immobile, gli arredi per gli uffici, i computers ecc.).

     Secondo i canoni ordinari relativi al funzionamento dell’impresa e specificatamente dell’impresa oligopolista le decisioni relative agli investimenti sono determinate dalla redditività futura presunta, redditività che normalmente è associata a un singolo atto d’investimento. Sempre secondo la norma la redditività attesa è confrontata con il costo di acquisto del finanziamento, quindi del saggio d’interesse e degli altri oneri finanziari connessi e dal confronto fra i due saggi si definisce o meno la convenienza ad investire da parte dell’impresa. Tale modo di procedere presenta alcune incongruenze logiche di fondo.

       L’impresa capitalistica non è un fenomeno speculativo, come già osservato, ma durevole e conseguentemente la redditività di un investimento deve essere inquadrata nel più vasto concetto di redditività dell’impresa. Inoltre se il saggio di redditività atteso e il saggio d’interesse costituiscono indubbiamente elementi importati nel calcolo di convenienza rimane sempre la questione pregiudiziale che la valutazione dell’investimento non è fatta su basi estemporanee ma è il frutto di una programmazione attenta e consistente da parte dell’alta direzione che in alcune circostanze è in qualche modo obbligata a effettuare investimenti se desidera proseguire in un modo o nell’altro l'attività.

      Per meglio apprezzare le decisioni di investimento da parte delle grandi imprese oligopoliste è forse necessario prendere in considerazione due grandi classi di fattori:

 

 

1)      fattori economico-generali;

2)      fattori economico-aziendali.

 

 

      I fattori economico-generali costituiscono parte integrante dell’ordine di composizione e possono andare da quelli più strettamente economici come il saggio d’interesse o un ciclo di borsa favorevole a quelli di ordine politico-sociale come disposizioni di legge che favoriscano le imprese o atti di programmazione economica nei quali le imprese, i sindacati dei lavoratori e il governo stabiliscono linee generali per lo sviluppo economico seguendo determinati parametri di stabilità economica e sociale.

      I fattori economico-aziendali sono tipici di ogni impresa, comprendono opportunamente tradotti in cifre i fattori economico-generali e sono direttamente conseguenti dalle decisioni di strategia aziendale assunte dall’alta direzione dell’impresa.

     La formazione delle strategie aziendali si concreta prima formulando programmi aziendali nei quali si delineano le direttrici di ordine generale e quindi formulando piani economico-finanziari nei quali le strategie sono tradotte in cifre. Le decisioni di investimento sono conseguenti a tali cifre che nella loro formazione riflettono sia la struttura attuale dell’impresa sia gli obiettivi che nella pratica l’alta direzione cerca di raggiungere nello spazio temporale definito dal piano: la crescita dell’impresa capitalistica è stretta fra le sue condizioni economiche, finanziarie, patrimoniali  e organizzative attuali e la sua capacità di innovazione al fine di ottenere merci o servizi che siano «opportunamente» accettati dal mercato.

     In ogni caso nel sistema capitalistico si possono distinguere almeno due tipi di impresa: l’impresa che ha come obiettivo la crescita e l’impresa che ha come obiettivo il mantenimento delle posizioni acquisite. Per l’impresa che appartiene al primo genere l’investimento in attività produttive o in attività finanziarie costituisce un passo obbligato da compiere anche in situazioni di crisi aziendale o di crisi generale del settore e del sistema economico. Inoltre per assicurarsi una posizione leader sul mercato il semplice investimento non è sufficiente essendo in ogni caso necessario produrre e mettere in atto innovazioni tecnologiche di impianti e prodotti e in generale innovazioni economiche e organizzative.

      In questa prospettiva è evidente come il saggio atteso di profitto costituisca un elemento specifico delle decisioni di investimento ma che la valutazione effettiva riposi su elementi più ampi che sono in definitiva la struttura dei costi e dei ricavi presunti e le strategie aziendali di rafforzamento e di espansione dell’attività economico-finanziaria. La struttura dei costi e dei ricavi presunti è definita dall'alta direzione dell'impresa e consiste nella pratica di tradurre in cifre i programmi aziendali e quindi formulare in modo distinto ma correlato il piano dei costi e il piano dei ricavi. 

      Il piano dei costi attiene all'acquisizione, all'utilizzazione e al rendimento tecnico-economico dei fattori della produzione, dove acquisizione, utilizzazione e rendimento dei fattori sono valutati alla luce del loro ordine combinatorio. Dal piano dei costi scaturisce il costo della produzione che si prevede di ottenere.

     Il piano dei ricavi attiene alla cessione sul mercato dei prodotti ottenuti e costituisce l'aspetto commerciale dell'impresa. In termini generali dal piano dei ricavi scaturisce, ovviamente, il ricavo della produzione venduta ma in effetti la formazione dei ricavi deriva da una valutazione più approfondita della situazione economico-finanziaria dell'impresa e della sua potenzialità commerciale. Normalmente l'impresa oligopolista produce una linea di prodotti che hanno determinati livelli qualitativi e un potenziale segmento di mercato e che esigono per essere collocati sul mercato una valutazione attenta di quelli che sono definiti i componenti del marketing-mix: prezzo, produzione, canale distributivo e promozione. Nella formulazione del piano dei ricavi è necessario il richiamo di ciascun componente del marketing-mix con la effettiva condizione dell'impresa e il loro complessivo impatto sulle condizioni di economicità.

       Rispetto agli investimenti di carattere finanziario l'impresa oligopolista procede secondo due modalità: la prima riguarda l'investimento in società che svolgono un'attività giudicata sinergica all'economia dell'impresa che pertanto cerca di acquisire il controllo economico; la seconda rigurda l'investimento in strumenti finanziari quali azioni, titoli di stato, obbligazioni pubbliche e private, fondi ecc. con il fine di ottenere un congruo utile sotto forma di rendimento corrente e di incremento della quota capitale investita.

     L'investimento in strumenti finanziari a fini di lucro costituisce un'attività economia forse troppo sbrigativamente definita «accessoria» ma che in ogni caso segue le logiche del rendimento atteso.

     L'investimento in altre società allo scopo di acquisirne il controllo economico costituisce una delle modalità più usate dall'impresa oligopolista per acquisire mercati o fattori della produzione che siano in grado sia di accrescere le dimensioni che di rafforzare le posizioni di equilibrio economico ma anche, spesso, le semplici posizioni di potere acquisito. L'investimento in altre società determina uno dei fenomeni tipici del sistema capitalistico che è la concentrazione finanziaria e insieme dà origine al fenomeno aziendale del gruppo. Le caratteristiche e le funzioni economiche della concentrazione finanziaria e del gruppo saranno però esaminate in un apposito capitolo, che è quello che segue al presente.

        Strettamente connesse alle decisioni di investimento sono le decisioni di finanziamento attraverso le quali l'impresa decide con quali fonti finanziare gli investimenti.

       Nel sistema capitalistico le fonti di finanziamento per le imprese costituiscono forse uno dei mercati più peculiari dei quali si è già trattato in capitoli precedenti sia a proposito della dimensione finanziaria che a proposito del mercato della moneta.

    La moneta rappresenta per l'impresa in generale e per l'impresa capitalistica in particolare un fattore generico della produzione attraverso il quale viene finanziata l'attività in senso lato: quindi non solo gli investimenti tecnici o in attività finanziarie ma anche, per esempio, temporanei fabbisogni di liquidità dovuti al naturale sfasamente fra le entrate e le uscite.

      Come già osservato nel capitalo relativo alla dimensione dell'impresa il finanziamento può avvenire tramite terzi o tramite il titolare o i soci dell'impresa: nel primo caso si tratta di un debito giuridicamente tale che impone quindi sia il pagamento di un interesse che la restituzione della somma secondo gli accordi contrattuali mentre nel secondo caso si tratta  di cosiddetto «capitale di rischio» in quanto soggetto al rischio della perdita per il finanziatore dovuta a motivi economici ed anche a un rendimento variabile in funzione dei risultati economici raggiunti dall'impresa.

     I rischi connessi al capitale «proprio» dell'impresa hanno di fatto messo in atto una serie di meccanismi economici e talvolta anche extraeconomici che tendono tutti o al frazionamento in più soggetti o al trasferimento verso altri soggetti.

      Il frazionamento del rischio d'impresa avviene normalmente con l'istituzione della società per azioni, come più sopra descritta, e con la possibilità conseguente di costituire tali società con larghi capitali raccolti presso il pubblico attraverso i mercati finanziari e limitando i rischi della gestione all'investimento da ciascuno effettuato.

     Il trasferimento dei rischi di gestione si avvale in qualche modo del frazionamento del finanziamento in quanto è chiaro che dietro l'apparenza giuridica della società vi è sempre un soggetto economico a cui fa capo, di fatto, l'impresa economica. Tale soggetto economico può essere una persona fisica o un'altra impresa ma in ogni caso è colui che si assume in pratica l'iniziativa economica connessa con l'impresa: attraverso il frazionamento del finanziamento il soggetto economico dell'impresa trasferisce parte del rischio di gestione su altri soggetti che, in virtù della responsabilità limitata, non sono solo gli altri «azionisti» ma in caso di dissesto della società sono anche in pratica i creditori sociali che difficilmente riescono a recuperare tramite azioni legali i loro crediti nei confronti di coloro che hanno in qualche modo provocato il dissesto. In effetti in tale procedura economica del trasferimento dei rischi d'impresa inizia a intravedersi la cosiddetta globalizzazione dell'economia. Coloro che gestiscono o costituiscono una società o un gruppo di società possono avvelersi di legislazioni «compiacenti» vigenti in particolari «paradisi fiscali» al fine di costituire vere e proprie «casseforti» attraverso le quali controllare in modo legale e legittimo le società del gruppo senza però esporsi troppo in prima persona e quindi far perdere con una certa agevolezza le proprie tracce quando il gruppo versa in cattive condizioni economiche. In questo modo per i creditori sociali recuperare i crediti significa spesso compiere il giro dei paradisi fiscali alla ricerca di movimenti bancari, documenti sociali vari e persone al fine di ricostruire effettivamente l'economia finanziaria del gruppo con il rischio però di imbattersi in entità sfuggenti per definizione che in quanto tali lasciano insoddisfatte le legittime pretese del creditore.