Saggio sul Capitalismo

 

 

 

 

CAPITOLO NONO

 

 

IL CONTESTO ECONOMICO INTERNAZIONALE

 

 

 

 

34. Il commercio internazionale. Il sistema capitalistico è fondato sulla divisione del lavoro, sul progresso tecnico e sul profitto il quale ultimo ha costituito nelle prime fasi dello sviluppo l’incentivo fondamentale per l’investimento produttivo da parte di singoli «mercanti» o imprenditori particolarmente legati all’impresa nella qualità sia di capitalisti che di amministratori. La produttività dell’impresa capitalistica può essere intesa, come rilevato in capitoli precedenti, in termini puramente tecnici ovvero in termini economici. In termini puramente tecnici la produttività si esprime con un flusso di produzione di merci o di servizi, in termini economici la produttività si esprime più propriamente nelle condizioni durevoli dell’equilibrio economico, finanziario, patrimoniale ed organizzativo. Fra la produzione tecnica e la produzione economica esiste una indubbia connessione ma mentre la produzione tecnica è un problema che riguarda in massima parte l’organizzazione interna dell’impresa la produzione economica ha un importante «limite» nel flusso della quantità di merci e servizi vendute sul mercato e del relativo prezzo. In ogni epoca la produzione economica è governata dall’equilibrio economico durevole e conseguentemente l’impresa è preordinata al profitto ma nelle fasi relative alla nascita del sistema capitalistico, quindi massimamente nel Regno Unito del secolo XVIII, l’impresa si trova storicamente in una nuova fase di sviluppo che associa la produttività crescente alla crescente complessità e autonomia dell’organizzazione aziendale. L’esistenza di Stati nazionali politicamente indipendenti, determinata in modo particolare nel corso del 1600, e il forte incremento della produttività del lavoro nell’impresa nel corso del 1700 registrato in modo notevole soprattutto nel Regno Unito sono i fenomeni alla base dei quali sta lo sviluppo del commercio internazionale nel corso del secolo XIX, commercio internazionale non più basato su scambi commerciali di merci prodotte nel settore agricolo o artigianale ma piuttosto di merci prodotte da imprese capitalistiche, quando si tratta di prodotti finiti e richieste per la produzione di merci «industriali» quando si tratta di materie prime.

Il dominio economico del Regno Unito, e quindi delle imprese in esso residenti, sulla restante parte del mondo esercitato praticamente per tutto il secolo XIX ha determinato una particolare struttura del commercio internazionale con una ovvia posizione predominante delle imprese inglesi che erano meglio attrezzate delle altre dal punto di vita tecnologico, economico, organizzativo e finanziario. In questa fase del nascente capitalismo si possono evidenziare due distinti processi: il primo riguarda in modo specifico le imprese del Regno Unito che sono tese a «difendere» la propria posizione economica nel commercio internazionale e quindi a invocare in modo irriducibile il «libero scambio», il secondo riguarda le imprese nascenti nel resto dell’Europa, segnatamente Germania, Olanda e Francia, che al contrario hanno necessità di «protezione» per poter efficacemente organizzare sul proprio territorio imprese che producono merci e servizi in tutto simili a quelle inglesi ma con costi d’impianto molto più consistenti dato il divario tecnico-produttivo che le separa dalle imprese inglesi.

In questo contesto il commercio internazionale delle merci e dei capitali risente direttamente delle esigenze delle imprese residenti che saranno più o meno interessate allo scambio in oggetto a secondo del tipo di merce necessaria alla propria struttura economica.

In primo luogo la produzione capitalistica, che è stata inizialmente soprattutto produzione industriale, ha necessità di materie prime e di fonti di energia conseguentemente là dove nasce una impresa capitalistica che esercita la produzione industriale dovranno esservi materie prime e fonti di energia sufficienti a mantenere il desiderato ritmo di produzione. Se una o più materie prime necessarie per la produzione mancano dal suolo, per ovvie e assorbenti ragioni naturali, devono necessariamente essere reperite nei luoghi dove esse si trovano allo stato di natura e la medesima cosa vale, ovviamente, per le fonti di energia la cui facile reperibilità e il costo relativamente modesto costituiscono una base indispensabile per l’avviamento di un processo produttivo industriale. Il commercio internazionale del sistema capitalistico ha quindi una prima base economica nella necessità per le imprese industriali di disporre delle materie prime necessarie. La dislocazione delle materie prime necessarie all’industria non è completamente uniforme con la geografia politica sicché è stato necessario per le imprese del Regno Unito importare da altri Paesi, spesso facenti parte dell’Impero coloniale, quanto era necessario per lo sviluppo del sistema industriale.

Inoltre l’industrializzazione si avvale ovviamente dello «strumento» tecnico-economico dell’impresa che sia nel primo passaggio da artigiana a industriale che nei successivi incrementa la propria dimensione e, in particolare, tutti i parametri nella quale essa si esprime: capacità produttiva, addetti, quota di mercato, capitale investito e valore aggiunto. L’incremento delle dimensioni aziendali pone almeno due «problemi» pratici fra di loro strettamente connessi: la necessità di finanziamenti crescenti per il sostenimento dei forti investimenti produttivi necessari allo svolgimento tecnico dei processi e la necessità di regole giuridiche che consentano una amministrazione degli affari aziendali quanto più possibile svincolata dalle vicende personali dell’imprenditore considerato nella sua classica figura di capitalista.

Tali due «problemi» sono risolti da un intervento deliberato dei pubblici poteri nelle questioni economiche.

Nel primo caso si tratta di verificare la posizione relativa dell’economia nazionale nel contesto storico così come si presenta a livello internazionale e che determina quello che si definisce il modello di sviluppo e quindi assumere le politiche conseguenti alle «esigenze» delle imprese.

Nel secondo caso più che di un vero e proprio intervento nel sistema economico attraverso la politica del bilancio statale o del credito si tratta di un intervento giuridico atto a configurare per le imprese quegli strumenti che siano i più idonei alla loro crescente complessità organizzativa. Questi strumenti giuridici sono il riconoscimento di una «personalità giuridica» alle imprese costituite secondo lo schema delle società anonime o a responsabilità limitata o, nella dottrina anglosassone, delle corporations che è fondato sul diritto di proprietà, sulla possibilità di nominare con Consiglio di amministrazione che si occupi della effettiva conduzione dell’impresa e sulla responsabilità patrimoniale del capitalista limitata al capitale investito nella società, a meno che non vi sia il riscontro di una «personale» responsabilità in taluni atti amministrativi che sono considerati illeciti dall’ordinamento giuridico.

Nella fase iniziale dell’ascesa del sistema capitalistico, e segnatamente nel secolo XIX, l’aspetto predominante del commercio internazionale ma, si potrebbe dire con più precisione, dei rapporti economici internazionali riguarda principalmente l’aspetto finanziario e quindi la formazione del capitale in quelle nazioni di nuova industrializzazione che si sono trovate difronte un sistema già consolidato come quello del Regno Unito.

La formazione del capitale in un sistema economico di nuova vocazione industriale è un «atto» complesso, costoso e sufficientemente lungo ma in ogni caso prevede almeno due distinti provvedimenti da parte delle autorità politiche di quel Paese: la messa in atto di una politica monetaria e industriale che favorisca l’accumulazione finanziaria da parte delle imprese e una contemporanea politica protezionista che attraverso dazi ed altri strumenti sia in grado di favorire sia a livello nazionale che a livello internazionale il commercio delle merci prodotte dalle imprese residenti.

L’incentivo alla formazione del capitale è necessario per sopperire al divario tecnologico fra le imprese nazionali e quelle imprese che già operano nei mercati internazionali. Lo svantaggio tecnologico si presenta sia nell’acquisizione dei fattori della produzione e nella organizzazione all’interno delle imprese sia sul piano più proprio della concorrenza sui mercati di collocazione del prodotto. Sia in un caso che nell’altro si avvertono i sintomi del carattere internazionale del capitalismo e la sua dialettica con gli assetti politici e sociali vigenti nei diversi stati.

Le imprese residenti nel Paese economicamente più sviluppato impiegano una tecnologia produttiva verosimilmente più efficacie ma soprattutto dispongono di una migliore organizzazione aziendale che consente loro di ottenere migliori risultati sotto il profilo strettamente economico. In più anche le merci prodotte saranno qualitativamente migliori, almeno quelle che richiedono un processo tecnologico di una certa intensità. In questo modo le imprese di quel determinato sistema economico possono immettere sui mercati internazionali i propri prodotti a prezzi più bassi ma forse più di tutto possono mettere in commercio merci non altrimenti reperibili.

Il divario tecnologico sempre presente fra i vari Paesi e la assoluta irripetibilità dei modelli di sviluppo non ostacola il commercio internazionale ma lo rende comunque soggetto al vigente standard economico nel senso che le imprese che nascono nel sistema più arretrato, a parte il maggior fabbisogno di capitale necessario per avviare l’industria, sono inevitabilmente condizionate dal sistema politico, sociale ed economico del proprio Paese. In modo inevitabile il passaggio da una economia agricola-artigianale ad una industriale comporta una radicale modifica non solo del sistema di produzione ma più in generale della struttura economica, politica e sociale della società. Il successo del modello di sviluppo intrapreso dal Paese arretrato dipende molto dalla reazione che la popolazione tiene nei confronti dei cambiamenti dovuti per l’adeguamento ad un determinato standard produttivo: la reazione deve essere adeguata per raggiungere il prima possibile lo standard economico del Paese più sviluppato. Per ottenere questo livello non è sufficiente che si mobilitino le sole «forze spontanee» dell’economia ma è necessaria un diretta azione dello Stato che deve al medesimo tempo incentivare la formazione delle imprese nazionali e controllare in modo adeguato il flusso di merci proveniente dagli altri Paesi, e segnatamente da quelli più sviluppati.

L’intervento dello Stato riguarda non solo il sostegno alle imprese industriali ma è mirato alla creazione delle necessarie infrastrutture che sono indispensabili per un veloce incremento dell’attività economica. Le infrastrutture suddette hanno significato nel secolo XIX soprattutto l’incremento dei mezzi di trasporto e di tutto ciò che è conseguente, quindi la creazione di una rete stradale e ferroviaria interna che consenta il collegamento delle imprese di produzione sia con i mercati di acquisto delle materie prime, qualora vi fossero nel sottosuolo, sia con i mercati di collocazione delle merci prodotte. Lo sviluppo dei mezzi di trasporto, quindi della ferrovia e della navigazione, è stato un passaggio obbligato per lo sviluppo del commercio internazionale e, indubbiamente, lo è ancora oggi che alle ferrovie e alla navigazione si sono aggiunti i mezzi su strada e la navigazione aerea.

In definitiva il commercio internazionale nel sistema capitalistico è determinato dall’iniziativa delle imprese che hanno necessità o di materie prime non presenti nel sottosuolo nazionale o di allargare il confine dei propri mercati di collocazione del prodotto. Insieme ai movimenti delle merci vi è un importante movimento di capitali sia di carattere finanziario che industriale e commerciale. La fitta rete di rapporti fra i diversi Paesi cui tali scambi danno origine ha grandi riflessi sulle condizioni economiche di ciascuno Stato e, nella pratica, comincia a farsi sentire un elemento tipico del capitalismo che è dato dal differente grado di sviluppo economico (ma anche sociale, politico e tecnologico) che diventa un elemento di distinzione fra i diversi Stati ma, spesso, anche una fonte di sfruttamento degli Stati più industrializzati nei confronti di quelli meno industrializzati. Le forme di sfruttamento sono purtroppo tante quante la natura umana è in grado di escogitarne ma da un punto di vista strettamente economico si può dire che si indirizzano sostanzialmente verso tre direzioni:

 

a) il mercato delle materie prime

b) il mercato del lavoro

c) la dislocazione degli insediamenti produttivi

 

Con il mercato delle materie prime le imprese industriali dei Paesi industrializzati o in via di industrializzazione sfruttano economicamente le risorse minerarie là dove esse sono collocate dalla natura, ovviamente forzano o cercando di forzare i rapporti economici con quegli Stati detentori del suolo e sottosuolo.

Con il mercato del lavoro le imprese industriali sono in grado di produrre forti migrazioni sia all’interno di una nazione che a livello internazionale con tutte le conseguenze economiche che ne derivano (e che non è precisamente questo il paragrafo delle quali discutere).

Con la dislocazione degli insediamenti produttivi, infine, le imprese industriali sono in grado di produrre in una certa zona geografica un relativo benessere economico ma anche di determinare in concreto i flussi del commercio internazionale di merci e capitali. Le merci possono essere prodotte in un certo Paese dove il costo del lavoro è relativamente basso e quindi collocate sui mercati dei Paesi sviluppati ad un prezzo congruo con il livello di vita di tali Paesi. In questo caso nella Bilancia dei Pagamenti del Paese preso in considerazione vi sarà verosimilmente un’esportazione di capitali o comunque un investimento estero di una impresa nazionale (quindi una posta sostanzialmente «attiva») ma vi sarà anche un’importazione di prodotti finiti dal Paese sottosviluppato. Tale commercio potrebbe sembrare in qualche modo favorevole alle condizioni economiche del Paese sottosviluppato ma in realtà il basso salario e, in generale, le non soddisfacenti condizioni in cui si trova chi lavora rende in qualche modo sterile ai fini di un miglioramento delle condizioni di vita il commercio medesimo.

 

 

35. La posizione delle imprese. La tradizionale analisi economica del commercio internazionale riposa su un’origine di carattere macroeconomico trascurando in pratica le motivazioni economiche che inducono le imprese a rivolgere i propri acquisti di fattori della produzione o le proprie vendite di prodotti finiti ai mercati esteri. Questa tradizione può essere considerata per molti aspetti paradossale e fanno parte di essa in particolare le due seguenti teorie:

 

a) dei costi comparati, di Ricardo;

b) della dotazione dei fattori della produzione, di Heckscher, Ohil      e Samuelson

 

La teoria dei costi comparati è esposta da David Ricardo nel Capitolo 8 che inizia con un sostanziale pregiudizio del grande economista inglese. Il pregiudizio che il commercio estero non sia in grado di far aumentare in modo permanente la ricchezza di una nazione per il semplice fatto che per l’acquisto di una merce estera occorre dare in cambio una merce nazionale o comunque un «valore» ad essa equivalente e prosegue affermando che, qualora la merce «A» sia producibile in un certo Paese al costo di 100 mentre in un altro è producibile al costo di 80, converrebbe senz’altro ai due Paesi specializzarsi nella produzione della merce più redditizia, da scambiare poi con quella dell’altro Paese. In tal modo, insiste Ricardo, se il Paese che produce la merce «A» a 100 produce anche la merce «B» a 120 mentre la medesima merce è prodotta dall’altro Paese a 60 ciascuno dei due Paesi ha convenienza a specializzarsi nella produzione e nel commercio di quella merce per lui relativamente meno costosa (e quindi più redditizia). In particolare si avrà:

 

                            Paese «1»                   Paese «2»

Merce A                   100                                80

Merce B                    120                               60

 

dove il Paese «2» produce a minor costo entrambe le merci. I «costi comparati» per le due merci saranno 1,2 per il Paese «1» e 0,75 per il Paese «2», considerando la merce B come unità di misura. In questo modo la Merce B è relativamente più costosa nel Paese «1» e, ovviamente, è conveniente per il Paese acquistarla dall’altro, secondo la ragione di scambio esistente che, per mantenere il vantaggio comparato, deve rimanere compresa fra 1,2 e 0,75. Si supponga infatti che la ragione di scambio internazionale di pari a 1. Per ottenere una unità della Merce A il Paese «2» sostiene un costo di 80, mentre se dovesse acquistare la medesima merce dal Paese «1», il costo sarebbe pari a 100. In modo analogo il Paese «1» sostiene un costo di 100 per la Merce A prodotta al proprio interno ma solamente 80 acquistandola dal Paese «2». In questo modo è evidente che il Paese «2» ha la convenienza a produrre la Merce B e il Paese «1» la Merce A.

La teoria dei costi comparati non è errata sotto il profilo della stretta logica economica ma, al pari di molti teoremi dell’economia teorica, è in qualche misura irrilevante.

La specializzazione produttiva di un Paese dipende da molti fattori fra i quali la «dotazione» di materie prime ne costituisce uno dei principali ma lo sviluppo del capitalismo è determinato in modo predominante dallo sviluppo dell’impresa nella sua qualità di organizzazione economica che non solo è alla ricerca continua dell’equilibrio economico ma produce una modifica strutturale alla produzione e alla distribuzione del reddito nonché all’ambiente nel quale opera. Il sistema capitalistico tende ad uniformare le condizioni di produzione delle imprese e le condizioni di vita delle popolazioni residenti, uniformità che deriva soprattutto dal carattere standardizzato della produzione industriale. Ne segue il dubbio se valga o meno il «principio della specializzazione produttiva» e del conseguente commercio internazionale sostenuto dalla teoria dei costi comparati. Infatti finché si tratta di panni di lana e di vino, come nell’esempio di Ricardo, vi è un elemento di indubbia connessione con le condizioni agricole e climatiche delle due nazioni prese in considerazione, Inghilterra e Portogallo, ma il sistema capitalistico produce una serie «infinita» di merci che possono essere indifferentemente prodotti in un Paese o nell’altro (come per esempio un medicinale, una carrozza o un attrezzo per l’agricoltura) e il conseguente commercio internazionale dipenderà tutto dalla capacità dell’impresa produttrice di allargare i propri mercati di collocazione del prodotto anche agli stati esteri, subendo a seconda delle circostanze, la concorrenza internazionale delle imprese che producono la medesima merce.

Indubbiamente la differenza fra i diversi gradi di tecnologia raggiunta nella produzione hanno una influenza notevole ma tale problema attiene più che altro all’organizzazione e allo sviluppo delle imprese.

Per le imprese europee importare caffé dal Brasile o té dall’India costituisce un affare economico connesso con l’incremento del consumo di caffé e di té dalle popolazioni europee e, quanto a costi comparati, è abbastanza evidente che la migliore posizione economica delle imprese acquirenti rispetto a quelle venditrici più che un «vantaggio comparato» determina un «vantaggio assoluto» determinato dalla potenza economica relativamente, si fa per dire, maggiore per le imprese capitalistiche europee. La teoria ricardiana, infatti, per essere confermata dovrebbe verificare in ciascun Paese partecipante al commercio internazionale un eguale grado di sviluppo tecnico-economico e un eguale sviluppo della struttura produttiva delle imprese mentre si dà il caso che le imprese capitalistiche operanti nei sistemi industriali hanno storicamente proceduto ad un rafforzamento della propria organizzazione economica mentre le imprese produttrici di materie prime, sia agricole che industriali, operanti nei Paesi meno sviluppati hanno continuato a rimanere ad uno stadio tecnico-economico relativamente modesto.

In questo stato delle cose anche la teoria della dotazione dei fattori della produzione mostra i propri limiti non tanto teorico-formali quanto ai fini della effettiva rilevanza della teoria nello spiegare le origini del commercio internazionale.

La teoria della dotazione dei fattori della produzione è dovuta agli economisti Heckscher, Ohlin e Samuelson e, in modo molto simile alla teoria ricardiana, afferma che un determinato Paese si specializzerà nella produzione di quelle merci che richiedono una più abbondante utilizzazione del fattore della produzione del quale il Paese medesimo è relativamente più ricco (o dotato).

I fattori della produzione presi in considerazione sono normalmente il capitale e il lavoro e dal rapporto fra i due ne deriva l’intensità di impiego che dovrebbe determinare sia un maggior utilizzo di un fattore rispetto all’altro sia, ciò che più conta per la teoria, l’esportazione verso mercati esteri delle merci prodotte con più alta intensità del fattore relativamente abbondante. Da questa teoria deriva quindi che un Paese nel quale il capitale impiegato nella produzione è relativamente abbondante, quindi nel quale i processi produttivi e i prodotti conseguenti sono «ad alta intensità di capitale», esporterà verso altri Paesi quel tipo di beni e, al contrario, importerà beni «ad alta intensità di lavoro».

Anche in questo caso, come nella teoria dei costi comparati, i rilievi più che attenere alla formalizzazione del modello attengono alla effettiva rilevanza del medesimo applicata al divenire dell’economia capitalistica e i limiti indicati per la teoria ricardiana possono essere ripresi per ribadire che il commercio internazionale è il necessario riflesso delle condizioni di sviluppo delle imprese e l’acquisto di fattori della produzione come le materie prime o la collocazione dei prodotti finiti risentono più di una «logica aziendale» che macroeconomica come suggeriscono le due tesi sopra indicate.

Per le imprese capitalistiche il commercio internazionale è semplicemente, si fa per dire, un’opportunità di mercato o una necessità, quando si tratta di acquistare una materia prima non disponibile nel suolo nazionale. Non solo. Le imprese che in qualche modo hanno dato origine al capitalismo moderno sono state proprio quelle di carattere commerciale che, acquistando merci e manufatti vari dalle imprese artigiane, hanno provveduto al trasferimento di quelle merci dai luoghi della produzione a quelli del consumo. Con il miglioramento dei mezzi di trasporto, le scoperte geografiche e alcuni miglioramenti tecnici nella produzione le imprese commerciali nei secoli XVI e XVII hanno considerevolmente ampliato sia il mercato delle materie prime che dei prodotti finiti divenendo non solo degli intermediari commerciali ma delle vere e proprie imprese capitalistiche nelle quali la presenza del capitale finanziario è l’elemento caratteristico della gestione. Tale capitale finanziario, che trasforma il mercante in mercante-banchiere, è necessario sia per finanziare le imprese artigiane che si dedicano alla produzione delle merci, consentendo il tal modo una produzione crescente, sia un incremento dei mercati di collocazione delle merci. L’incremento della dimensione dei mercati di collocazione delle merci è uno dei più importanti passaggi per la trasformazione della produzione artigianale in produzione industriale e impone, come rilevato da Adam Smith, un incremento della produzione complessiva e, più specificatamente, della produttività dell’impresa. E’ precisamente dalla riunione in grandi «capannoni» di una serie consistente di «artigiani indipendenti» che nasce la fabbrica moderna, nel senso capitalistico del termine, e sotto questo profilo non vi è dubbio che il commercio internazionale abbia contribuito in modo determinante alla costituzione e allo sviluppo dell’impresa capitalistica la quale, forse per una sorta di «vincolo» a queste origini, è spiccatamente una impresa «internazionale», vale a dire una impresa i cui mercati di acquisto dei fattori della produzione e di collocazione dei prodotti non hanno, almeno potenzialmente, nessun limite di spazio.

La posizione delle imprese capitalistiche mercantili è dunque determinante nella definizione del commercio internazionale in quanto la loro funzione economica, pur non essendo diretta alla produzione nel senso «comune» del termine, è quella di collegare i vari mercati operanti in diverse regioni o Paesi sparsi nei continenti e quindi di consentire alle imprese di produzione di svolgere in modo sempre più efficacie la loro funzione economica e si può senz’altro affermare che difficilmente il sistema capitalistico avrebbe potuto «decollare» senza l’apporto delle imprese mercantili e, ovviamente, di trasporto.

Come per ogni altro tipo di impresa anche per le imprese mercantili l’equilibrio economico, finanziario, patrimoniale e organizzativo è determinato dall’ordine aziendale nelle sue tre configurazioni di ordine sistematico, combinatorio e di composizione ma nella sua fase nascente tale tipo d’impresa è stata condizionata nel proprio sviluppo in modo sproporzionato dall’ordine di composizione che ha condizionato a sua volta l’equilibrio interno e il commercio internazionale.

L’elemento dell’ambiente socio-economico e politico che ha condizionato lo sviluppo dell’impresa mercantile-finanziaria è stata una particolare concezione della ricchezza nazionale elaborata da filosofi ed economisti di quei secoli e nota nella storia del pensiero economico come «mercantilismo».

La teoria mercantilista afferma esplicitamente che la ricchezza di una nazione non può aumentare tramite la produzione nazionale ma solamente attraverso il commercio estero, affermazione fatta sul presupposto che tale ricchezza è costituita non tanto dal flusso di produzione o dal livello medio dei redditi quanto dalla disponibilità di oro o argento da parte di uno Stato, oro e argento che erano a quel tempo utilizzati come moneta coniata. Soprassedendo sulla fondatezza economica della teoria è però senz’altro da notare che è stata sviluppata in un periodo nel quale l’industria nel senso capitalistico del temine non era ancora nata e il sistema economico era dominato soprattutto da alcune grandi imprese commerciali di nuova costituzione i cui «reggenti» sono quelli che per primi hanno formulato in modo esplicito la teoria mercantilistica.

La conseguenza di tale posizione è stata una politica diretta all’incremento delle esportazioni e al contenimento delle importazioni in modo da ottenere una bilancia commerciale attiva e quindi incrementare le riserve di metalli preziosi, sotto forma di moneta, dello Stato. In particolare la politica in parola ha determinato una serie di vincoli e di ostacoli all’incremento delle importazioni facendo intervenire lo Stato in modo pesante nei rapporti economici nazionali e internazionali.

E’ quasi inutile sottolineare che il successo di una politica mercantilistica è determinato dalla posizione economica delle imprese nazionali che operano sui mercati esteri, quindi le imprese mercantili dedite al commercio internazionale e dal loro relativo dominio sui mercati internazionali. E’ è forse utile sottolineare una volta di più che non sono né i costi comparati né la dotazione dei fattori della produzione a determinare il commercio internazionale quanto piuttosto lo sviluppo quantitativo e qualitativo delle imprese che nella trasformazione da mercantili-finanziarie a industriali trovano nel commercio internazionale una delle loro fondamentali basi di appoggio economico.

 

 

36. I sistemi monetari, i rapporti valutari e i cambi. Nei due paragrafi precedenti i rapporti economici internazionali sono stati valutati in funzione essenzialmente microeconomica, assumendo prevalentemente la posizione di equilibrio delle imprese operanti nel sistema economico per definire la natura e la dimensione degli scambi internazionali. In questo paragrafo e nel prossimo sono deliberatamente analizzati gli aspetti macroeconomici dei rapporti internazionali. In particolare nel presente sono esaminati soprattutto gli aspetti monetari mentre nel prossimo saranno esaminati in modo più specifico quelli attinenti al cosiddetto «settore reale» dell’economia.

Una prima evidente influenza sul sistema monetario internazionale è data dal tipo di sistema monetario esistente nei Paesi coinvolti nello scambio internazionale. Storicamente i sistemi monetari sono stato divisi in due categorie:

 

1) sistemi metallici

2) sistemi cartacei

 

Nei sistemi monetari metallici è evidente che la circolazione della moneta è fondata su un metallo che per tradizione è stato l’oro o l’argento, vale a dire metalli definiti, forse un poco retoricamente, «preziosi».

La coniazione di monete metalliche come mezzo di pagamento implica ovviamente il possesso del metallo in questione che può essere ottenuto acquistandolo direttamente dalle imprese che lo estraggono dal sottosuolo. Quando una moneta metallica è coniata, per esempio con 10 grammi d’argento, il potere costituito che ha la facoltà del conio (battere moneta) indica sulla faccia il «valore nominale», vale a dire il valore di scambio attribuito a quel particolare «disco metallico» che consente al possessore di compiere le transazioni desiderate.

In questo modo la moneta metallica viene ad avere due valori: un valore intrinseco, dato dal contenuto di metallo puro e un valore di scambio dato dal valore nominale stampigliato. Il funzionamento del sistema monetario basato sulla circolazione metallica è assicurato dalla libera fusione e coniazione della moneta, in caso contrario nel corso del tempo si assisterà, magari proprio ad opera dell’ente pubblico preposto all’emissione della moneta, ad uno svilimento del metallo coniato o riducendone il peso o confezionandolo con una lega più o meno «pura» in modo che il valore intrinseco della moneta originaria si ridica in modo costante rispetto al valore nominale.

Nell’ambito di un mercato internazionale fondato sulla circolazione metallica il valore della moneta è dato principalmente dal valore del metallo coniato, quindi se due Paesi intrattengono rapporti di carattere commerciale il prezzo della merce, pur essendo espresso in valuta nazionale, è facilmente traducibile nella moneta estera, a condizione che le due monete abbiano un contenuto metallico effettivo e certo. In questo modo, se nel Paese esportatore vige un sistema basato sulla circolazione di monete d’argento e una partita di merce è ceduta sul mercato internazionale per 100 unità monetarie nazionali o l’importatore si procura effettivamente le 100 unità del Paese esportatore o paga con propria moneta metallica il cui valore deve essere, sotto il profilo intrinseco, pari alle 100 unità pattuite. In effetti quando ci si trova in presenza di un sistema monetario metallico diffuso in vari Paesi ci si trova difronte ad una moneta unica, che è data dal valore effettivo, quindi intrinseco, del metallo coniato.

Una prima variante al sistema anzidetto è la riduzione delle quantità di metallo coniato: una moneta di 10 grammi d’argento, per esempio, viene coniata con un altro metallo, per esempio rame, intangendo così il valore intrinseco. Dal punto di vista formale la moneta è sempre la medesima e ha sulla faccia il medesimo valore nominale, per esempio 100, ma la riduzione del contenuto del metallo fa sì che in effetti l’argento non sia più 10 grammi ma 8 o 7 o ancora meno. In questo modo se l’argento non coniato ha un valore di 10 unità monetarie è chiaro che la moneta «nuova» vale effettivamente 80 o 70 unità monetarie correnti, contro le 100 indicate sulla faccia.

In questo caso è chiaro che lo scambio commerciale internazionale deve avvenire sui valori effettivi delle monete scambiate sicché se l’impresa che esporta le proprie merci è anche quella nel cui Paese è avvenuta la «svalutazione» delle moneta una partita di merci che aveva un valore di 100 unità monetarie (quindi di 10 grammi d’argento) dovrà ottenere in cambio ora 80 unità monetarie (se il contenuto d’argento è sceso a 8 grammi). Se il Paese importatore ha mantenuto nel frattempo la «purezza» della propria moneta sarà necessario modificare la ragione di scambio fra le due monete e quindi se per una moneta di 10 grammi d’argento del Paese esportatore veniva data in cambio una moneta di 10 grammi, ma con il conio «nazionale», dopo il processo di svalutazione il Paese importatore dovrà pagare con una moneta di 8 grammi ovvero modificare il rapporto di scambio in modo da effettuare la transazione sempre al valore intrinseco della moneta coniata. In definitiva, se la moneta del Paese esportatore si chiama «lira» e quella del paese importatore si chiama «franco» poichè il contenuto effettivo di 10 monete coniate è di 100 franchi l’importatore dovrà consegnare solamente 8 grammi d’argento coniati in franchi sicché il prezzo delle 100 lire corrispondenti potrà essere ottenuto con una ragione di scambio pari a 1 franco = 1,25 lire: l’importatore pagherà così solamente 80 franchi e l’esportatore, convertendo i medesimi in lire al cambio corrente di 1,25, otterrà esattamente le 100 lire della propria vendita.

Il sistema della riduzione del contenuto metallico della moneta ha un carattere di alterazione del valore con mezzi qualche volta illegali. Perfettamente legale e «consono» al sistema capitalistico è invece l’altro sistema di alterazione del valore della moneta, che è anche però un’alterazione sostanziale al sistema monetario vigente. Tale sistema è fondato sulla cosiddetta circolazione «fiduciaria» della moneta.

Il sistema monetario basato sulla circolazione fiduciaria non prevede, di solito, la circolazione di monete metalliche d’oro o argento ma la circolazione di biglietti di banca «liberamente» convertibili in oro o argento. Tale sistema prevede la creazione di una Banca Centrale, detta Istituto di Emissione, che da un lato detiene le riserve metalliche nelle proprie casseforti e dall’altro provvede all’emissione dei biglietti di banca che assumono potere liberatorio illimitato per l’estinzione di obbligazioni di carattere pecuniario.

Con l’introduzione del sistema fiduciario il sistema monetario viene svincolato dal contenuto metallico della moneta e il valore della medesima, pertanto, segue il proprio andamento con la struttura dell’economia nella quale circola. In questo passaggio la formazione dei cambi fra le diverse monete aventi «corso legale» diviene un vero e proprio mercato a sé regolato sostanzialmente da due variabili:

 

a) dalla dinamica della bilancia dei pagamenti, soprattutto a breve termine;

b) dalla dinamica dei prezzi, soprattutto a lungo termine.

 

 

La bilancia dei pagamenti è lo strumento atto a misurare i rapporti di un sistema economico con il resto del mondo e si compone, tradizionalmente, di due parti: la parte commerciale, comprendente le esportazioni e le importazioni di merci e servizi e la parte «finanziaria», comprendente i movimenti dei capitali.

La dinamica della bilancia dei pagamenti, con i sui complessivi rapporti commerciali e finanziari con il resto del mondo, ha effetti soprattutto macroeconomici nell’economia considerata.

Anzitutto è da rilevare che una bilancia dei pagamenti in attivo incrementa le riserve valutarie dello Stato mentre quando essa è in passivo tale riserve si riducono ma il flusso di moneta da e per il Paese, giornalmente, determina una domanda e una offerta di valuta estera: la prima messa in atto dagli importatori e la seconda dagli esportatori (di merci, di servizi e di capitali). La domanda e l’offerta di valuta estera determina oscillazioni più o meno sostenute nel cambio. Ovviamente una bilancia dei pagamenti in disavanzo determinando una domanda di valuta più alta dell’offerta determina, corrispondentemente, una maggiore quantità di moneta nazionale da dare in cambio di una uguale quantità di moneta estera mentre nel caso di un attivo si verifica esattamente la situazione opposta. Correntemente è affermato che un disavanzo della bilancia dei pagamenti provoca una svalutazione della moneta (a livello internazionale) mentre un avanzo ne determina una rivalutazione (sempre a livello internazionale).

In queste condizioni «operative» dei sistemi economici capitalistici, più o meno integrati fra di loro (e anche più o meno «capitalistici»), vi sono tradizionalmente due possibilità-limite nella formazione dei cambi:

 

1) cambi fissi

2) cambi fluttuanti

 

Il sistema dei cambi fissi implica condizioni di stabilità monetaria fra i Paesi partecipanti allo scambio ed è per questo che la sua pratica attuazione avviene attraverso la costituzione di organismi monetari sovranazionali che siano in grado di «condizionare» le politiche valutarie dei singoli Paesi partecipanti i quali devono assumersi il concreto impegno di mantenere il cambio entro oscillazioni contenute e concordate in seno all’organismo sovranazionale. In questo modo sia il Governo di ciascun Paese che l’Istituto di Emissione sono chiamati a «vigilare» quotidianamente sul mercato dei cambi, il primo controllando soprattutto l’andamento strutturale della Bilancia dei Pagamenti e il secondo il funzionamento effettivo del mercato dei cambi.

Da un punto di vista strettamente teorico le oscillazioni dei cambi, seppure contenute, dovrebbero determinare corrispondenti «reazioni» sul lato dei movimenti di merci, servizi e capitali nel senso che una svalutazione monetaria, riducendo il prezzo in termini di valuta estera, dovrebbe favorire le esportazioni e ostacolare le importazioni e quindi, in tempi più o meno brevi, riportare la bilancia dei pagamenti in equilibrio. Indubbiamente una parte dei movimenti di merci, servizi e capitali sono influenzati dall’andamento del cambio, che quindi ha un effetto anche sulla cosiddetta «economia reale» ma a lungo andare è piuttosto la struttura della bilancia dei pagamenti a determinare l’avanzo o il disavanzo valutario. Poiché però la modifica strutturale della bilancia dei pagamenti presuppone una politica economia complessa e di lungo periodo normalmente è attraverso la gestione dei cambi, quindi della componente «monetaria» del commercio internazionale, che si cerca in ogni caso di pervenire al riequilibrio della bilancia dei pagamenti. In regime di cambi fissi il provvedimento principale per il riequilibrio della bilancia dei pagamenti è costituito dalla svalutazione o dalla rivalutazione del cambio, ovvero dalla modifica «ufficiale» della parità con le altre monete stabilita negli accordi internazionali.

Data la rigidità strutturale di un determinato sistema economico, almeno per periodi di tempo non brevi, la svalutazione del cambio determina un incremento generale dei prezzi che sarà tanto più intenso quanto più le condizioni economico-produttive delle imprese nazionali sono precarie mentre difficilmente la riduzione delle importazioni e l’incremento delle esportazioni per effetto della svalutazione daranno quegli effetti benefici sul riequilibrio della bilancia dei pagamenti: la svalutazione del cambio servirà soltanto a riequilibrare la parità con le altre monete. In più un perdurante disavanzo della bilancia dei pagamenti determinerà una riduzione delle riserve valutarie mettendo in condizione il Paese di chiedere agli organismi sovranazionali adeguati «prestiti» per far fronte all’emorragia di valuta, con ulteriori conseguenze negative.

La struttura dei cambi fissi, inoltre, non deve ingannare più di tanto rispetto al controllo delle parità. Infatti la parità «fissa» vale nei confronti delle monete aderenti all’accordo mentre restano escluse le restanti monete. Poiché la struttura del mercato dei cambi è tale che la variazione di una moneta nei confronti di un’altra ha ripercussioni sul complesso delle monete esistenti il mantenimento di una parità all’interno di un accordo valutario diventa un «fatto politico» in qualche misura indipendente dal reale valore della moneta sul mercato internazionale.

Il sistema alternativo ai cambi fissi è, ovviamente, quello dei cambi flessibili. In tale sistema il cambio delle monete è lasciato «liberamente» fluttuare in ragione delle oscillazioni della domanda e dell’offerta delle varie monete e il presupposto di fondo (o la speranza) è che il libero andamento del mercato internazionale delle valute porti più o meno automaticamente al riequilibrio delle bilance dei pagamenti e quindi alla stabilità delle valute.

Soprattutto in regime di cambi fluttuanti ma, in misura minore, anche in regime di cambi fissi la negoziazione del cambio avviene secondo modalità differenti a seconda che si tratti di moneta cartacea o assegni ovvero di altre forme di pagamento e in particolare si viene a creare una forma di segmentazione del mercato che deriva direttamente dalle esigenze «valutarie» degli operatori. Tale segmentazione si attua attraverso contrattazioni di cambi a contanti ovvero di cambi a termine.

La contrattazione dei cambi per contanti avviene allorché le operazioni in valuta servono per regolarizzare una partita corrente e, nella pratica, consente di mantenere il cambio delle monete entro quei limiti definiti dalle cosiddette «operazioni di arbitraggio», operazioni messe in atto dalla speculazione per lucrare la differenza fra un cambio contrattato su una piazza ed il relativo cambio contrattato su una piazza differente.

Il meccanismo dell’arbitraggio può avvenire allorché vi sono differenze di quotazione rispetto a una cosiddetta «parità teorica». Se sulla piazza di Parigi il Franco Francese si cambia con 300 lire italiane e sulla piazza di Milano con 310 è chiaro che agli operatori conviene acquistare Franchi contro lire a Parigi e quindi immediatamente rivenderli a Milano. L’operazione di arbitraggio determinerà un incremento della domanda di Franchi a Parigi e una domanda di Lire a Milano, con il che il cambio dovrebbe stabilizzarsi all’incirca sullo stesso livello sulle due piazze.

La contrattazione del cambio a termine svolge la funzione essenziale di garantire l’operatore da oscillazioni indesiderate. Gli esportatori che offrono valuta saranno preoccupati di una rivalutazione della moneta nazionale, viceversa gli importatori di una svalutazione. In tal modo un esportatore che teme una rivalutazione può contrattare oggi il cambio corrente ma eseguire il contratto a termine (due mesi, tre mesi ecc.) rimanendo assolutamente indifferente alle oscillazioni del cambio che nel frattempo si verificano. Colui che opera a termine esercita in definitiva un’opzione che, al pari di tutte le opzioni economiche, ha un prezzo. Tale prezzo è fissato da un incremento (o un decremento) del cambio a termine rispetto al cambio corrente ed è differente a seconda che l’operatore si ponga come acquirente a termine di valuta straniera ovvero venditore. La differenza fra il cambio a pronti e il cambio a termine è un prezzo determinato con le regole economiche tipiche del mercato monetario ed è pertanto un saggio d’interesse. Il fatto di essere un saggio d’interesse implica, per tale differenza, che rispetto a una determinata valuta può essere sia negativa che positiva, a seconda del saggio d’interesse vigente per le valute oggetto di scambio.

Se il cambio a pronti della Lira italiana con il Franco Francese è pari a 300 lire per Franco e sul mercato monetario italiano il saggio d’interesse a breve termine è del 10% mentre su quello francese è del 5%, il cambio a termine di un anno è, approssimativamente, 330\1,05 = 314,28 cosicché si potrà dire che la Lira italiana subisce uno sconto nei confronti del Franco francese (o che il Franco ha un premio nei confronti della Lira). Se il cambio della Lira a pronti con la Sterlina inglese è pari a 3.000 e il saggio d’interesse sul mercato monetario britannico è del 12% il cambio a termine di un anno sarà approssimativamente 3.360/1,1 = 3.054,54 cosicché sarà la Lira italiana ad avere un premio a termine sulla Sterlina inglese.

La possibilità di operare sul mercato dei cambi a termine dischiude molte possibilità agli operatori e quindi, in buona sostanza, alle imprese capitalistiche (soprattutto le banche) e sicuramente una delle operazioni più comuni e più «comode» è costituita del riporto di valuta, denominato swap nella letteratura anglosassone.

Il riporto di valuta è in tutto simile al riporto sui titoli e consiste in una operazione a pronti seguita immediatamente da una operazione a termine, di segno contrario e di eguale importo e se l’operazione pura e semplice sul mercato a termine può avere il carattere di copertura di un rischio di cambio l’operazione di riporto sembra essere di natura esclusivamente speculativa, dove la speculazione mira a trarre un vantaggio sia dal differenziale dei saggi d’interesse a breve fra le diverse valute sia dei cambi. Come tutte le operazioni di carattere speculativo anche l’operazione di riporto è fondata sulla parziale disponibilità dei fondi necessari alla copertura dell’operazione a termine la quale, in molti casi, può diventare semplicemente una liquidazione di «prezzi differenziali», ovvero senza un effettivo movimento delle valute oggetto del contratto ma con un semplice passaggio della «differenza» che determina per un operatore un guadagno e per l’altro una corrispondente perdita.

La possibilità di operare sul mercato dei cambi in modo «autonomo» rispetto alle effettive esigenze della gestione delle aziende fa di questo mercato, al pari del mercato azionario, un oggetto «privilegiato» delle operazioni speculative messe in atto dalle aziende medesime. In molte circostanze le operazioni speculative determinano condizioni favorevoli per tutti gli operatori del mercato ma in altri possono risultare negative. In ogni caso, però, rispetto al mercato azionario vi sono due importanti differenze: la prima è che il mercato dei cambi è determinato comunque dalla struttura delle bilance dei pagamenti e quindi dal sistema monetario internazionale e la seconda è che su tale mercato operano, in via istituzionale, le banche centrali di diversi Stati che, controllando i flussi delle proprie riserve valutarie, compiono quelle operazioni necessarie al contenimento delle operazioni speculative più spregiudicate.

 

 

37. Gli effetti macroeconomici del commercio internazionale. Quando si prendono in esame gli effetti macroeconomici del commercio internazionale è necessario partire dalla rappresentazione macroeconomica del reddito di una collettività, rappresentazione che è solitamente affidata al sottostante schema:

 

Conto Economico Nazionale

 

Risorse                                                                Impieghi

Prodotto interno lordo                                             Consumi privati e pubblici

Importazioni                                                  Investimenti

                                                                               Esportazioni

 

Lo schema esposto richiama un consolidato principio della disciplina ragioneristica che vuole il totale delle risorse prodotte in un determinato periodo uguali agli impieghi. In effetti, considerato che lo schema in esame attiene ad un periodo di tempo determinato, normalmente un anno, si rinviene in esso il necessario equilibrio fra ciò che è stato prodotto e ciò che è stato utilizzato.

Le risorse provengono dal prodotto interno lordo, quindi dal valore aggiunto di tutte le imprese del sistema economico, e dall’importazione di merci e servizi dall’estero.

Gli impieghi sono determinati dal consumo pubblico e privato dei beni e servizi prodotti, dall’investimento in attrezzature, in costruzioni o scorte e dalla esportazione di prodotti nazionali su mercati esteri.

Dalla rappresentazione fatta attraverso lo schema sopra esposto si può innanzitutto notare che quando le importazioni superano le esportazioni necessariamente la somma dei consumi e degli investimenti supera il livello del prodotto interno lordo: in questo caso quindi le risorse utilizzate all’interno del sistema economico sono superiori a quelle create e in qualche modo il sistema vive «al di sopra delle proprie possibilità».

Come è noto la condizione di equilibrio macroeconomico è data dall’eguaglianza fra i risparmi e gli investimenti e quindi, riprendendo le equazioni del Capitolo Sesto si può scrivere:

 

          (1)                 In = Rs

          (2)                 Rs = k PR + j RL

 

e quindi sarà, necessariamente:

 

          (3)                   In = k PR + j RL

 

che esprime per l’appunto l’equilibrio macroeconomico.

Indicando ora con M le importazioni, E le esportazioni e PN il prodotto nazionale lordo il conto economico nazionale può essere così espresso:

 

                    (4)             PN + M = C + In + E

 

dalla quale è chiaro che se è:

 

                                                 M > E

allora sarà anche:

       

                                            PN < C + In

 

la quale, in modo appena più esplicito dà:

 

                             (5)             PN - C < In

 

L’equazione (5) presenta una ambiguità, data dal termine PN che esprime il prodotto nazionale ma non in reddito il quale invece è dato, nel caso del commercio estero, dalla relazione seguente:

 

                           (6)            RN = PN + M - E

 

vale a dire che il reddito nazionale è costituito dal prodotto lordo più le importazioni (che quindi fanno parte del reddito nazionale senza far parte del prodotto) e sottratte le esportazioni (che quindi fanno parte del prodotto nazionale ma non del reddito).

L’equazione (6) esprime la posizione «reale» del reddito nazionale in quanto indica la disponibilità di reddito, sotto forma di beni e servizi, di cui la collettività dispone in conseguenza della produzione nazionale e del commercio estero.

La disponibilità del reddito per la collettività deriva essenzialmente dalle imprese per le quali, considerando il commercio estero, si possono scrivere le equazioni seguenti:

 

          (7)           yt g p - yt h p + rc MI = µ MI + a MI + b MI

          (8)                                        X = xt g’ p’

        (9)                                       M = mt h p" + M’

 

L’equazione (7) indica la solita posizione di equilibrio dell’impresa, la (8) indica il volume delle esportazioni con il relativo prezzo di vendita sui mercati esteri (che può essere diverso da quello praticato per il mercato nazionale) e la relativa capacità dell’impresa di collocare sui mercati esteri la propria produzione e l’equazione (9) indica le importazioni divise in due componenti delle quali la prima è relativa ai beni intermedi utilizzati nei processi produttivi dalla imprese nazionali e la seconda, definita da M’, è relativa alle importazioni che si riferiscono direttamente ai beni e servizi esteri consumati dai residenti.

L’equazione (7) esprime il valore aggiunto dell’impresa indicato sia dal punto di vista delle fonti che degli impieghi e integrandola con le equazioni (8) e (9) si ottiene:

 

       (10)      yt p (g - h) + xt g’ p’ - mt h p" = MI (µ + a + b - rc)

 

dalla quale si trae la conclusione che il valore aggiunto dell’impresa si incrementa per effetto del commercio estero se é:

 

                               xt g’ p’ > mt h p"

 

Se l’espressione (10) viene considerata come rappresentante l’intero sistema delle imprese operanti sul territorio di una nazione essa dovrebbe rappresentare il reddito prodotto al primo membro e il reddito distribuito (lordo) al secondo. In effetti però nella equazione (10) così «riformulata» sarebbe assente il valore M’, vale a dire le importazioni di beni e servizi destinate in modo diretto al consumo (ma anche all’investimento, se proprio si vuole). L’introduzione della variabile M’ modifica l’espressione (10) nella seguente:

 

  (11)   yt p (g - h) + xt g’ p’ - mt h p" - M’ = MI (µ + a + b - rc)

 

L’incremento della produzione di merci e servizi nazionali destinati all’esportazione (definiti da xt g’ p’) determina chiaramente un incremento del valore aggiunto prodotto e quindi maggiore ricchezza da distribuire ai redditi da capitale e da lavoro.

L’incremento in oggetto è condizionato ovviamente dalle variazioni effettive del parametro «h» o, comunque dalla grandezza della variabile «yt p h» che esprime il valore dei beni intermedi utilizzati dalle imprese nella produzione corrente. Per incrementare la produzione è infatti necessario incrementare sia l’acquisto dei mezzi di produzione (quindi i redditi da lavoro e da capitali connessi) sia l’acquisto di beni destinati al processo di produzione, necessari per la fabbricazione di merci aggiuntive.

L’incremento dei beni e servizi importati e destinati alla produzione di altri beni determina, in modo analogo al precedente, una riduzione in via immediata del valore aggiunto delle imprese ma da questo maggiore impiego di beni, necessariamente (o quasi), ne deriva un maggior impiego di fattori della produzione «interni», quindi capitale e lavoro che incidono ovviamente sul flusso della produzione corrente sia esso destinato al mercato interno che al mercato estero. Anche in questo caso il valore aggiunto è in grado di aumentare se le imprese nazionali sono in grado di incrementare la produttività tecnico-economica più dell’incremento del valore delle merci e servizi importati.

La variabile M’ riferita ai beni e servi importati e direttamente consumati dai residenti implica uno spostamento degli impieghi del reddito dai consumi di merci nazionali verso il consumo di merci prodotte all’estero da imprese estere e, per conseguenza, limita la crescita del flusso di produzione corrente delle imprese nazionali destinate al mercato interno, quindi la variabile yt g p. Questa è la motivazione principale perché il valore M’ appare con il segno meno fra il reddito prodotto dalle imprese nazionali. Il valore M’ non ha effetti «immediati» sulla produzione delle imprese nazionali in quanto si risolve nel consumo finale di merci di provenienza estera senza quindi entrare nel «circolo produttivo». In ogni caso l’incremento di M’ determina un contenimento dello sviluppo del mercato interno delle imprese nazionali e, per conseguenza, del valore aggiunto da esse prodotto.

La questione fondamentale relativa alla variabile M’ è che dietro di essa vi sono le imprese estere che entrano in concorrenza diretta con i mercati di collocazione del prodotto delle imprese nazionali sicché lo spostamento della domanda per consumi da merci nazionali a merci straniere, oltreché dall’ovvio e strutturale andamento del reddito nazionale, dipende in modo decisivo dalla politica commerciale più o meno «aggressiva» delle imprese estere nei confronti di quelle nazionali o, ovviamente, dalla potenza economica relativa dei due gruppi di imprese.