Saggio sul Capitalismo

 

 

CAPITOLO OTTAVO

 

LE FLUTTUAZIONI DELLO SVILUPPO

 

 

 

 

30. Il ciclo economico: nozione. Il sistema economico capitalistico procede nel proprio sviluppo per cicli, vale a dire con andamenti delle grandezze economiche che oscillano nel tempo. Gli elementi principali del ciclo economico sono costituiti dalle diverse fasi che lo identificano e dai parametri che lo caratterizzano.

Tradizionalmente le fasi del ciclo economico sono così individuate:

 

1) ripresa

2) espansione

3) crisi

4) recessione

 

mentre i parametri più significativi sono costituiti da:

 

a) reddito complessivo

b) investimenti produttivi

c) occupazione

d) prezzi

 

 

Di questi parametri il reddito nazionale è quello più squisitamente macroeconomico ed è «conseguente» alla dinamica degli altri parametri.

In prima istanza il reddito nazionale può essere misurato in termini reali, quindi valutando solamente la dinamica della produzione di merci e servizi senza tenere conto dell’andamento dei prezzi ovvero in termini monetari, quindi sommando la dinamica produttiva a quella propriamente monetaria.

Se il sistema economico capitalistico continua ad essere rappresentato con l’equazione dell’equilibrio economico per l’impresa individuato nei capitoli precedenti si può nuovamente scrivere, come punto di partenza per la valutazione dell’andamento reale e monetario del reddito prodotto:

 

(1)                 yt (g - h) p = (µ + a + b - rc) MI

 

nella quale il reddito prodotto, espresso in termini monetari, è dato dal primo membro. Dall’equazione (1) si può quindi scrivere:

 

(2)                         yt (g - h) p = RN

 

nella quale RN indica il reddito nazionale o comunque il reddito complessivo del sistema economico considerato.

Se nell’equazione (2) si tengono ferme le variabili g e h e si indica con a l’incremento della quantità yt, con b l’incremento dei prezzi e con d l’incremento del reddito nazionale sarà valida la relazione:

                           (1+a) (1+b) - 1 = d

Nei sistemi capitalistici si assiste nel corso del tempo ad un incremento continuo, a volte lento altre volte più impetuoso, dei prezzi, quindi del parametro b cosicché il saggio di variazione del reddito complessivo d ne è «positivamente» influenzato.

Il parametro a relativo alla variazione della produzione reale di merci e di servizi osserva anch’esso un andamento tendenzialmente crescente ma l’esistenza di diverse fasi dello «sviluppo» indicano chiaramente che tale parametro ha oscillazioni più o meno consistenti.

Prendendo per il momento atto delle semplici variazioni dei due parametri, senza quindi analizzarne le cause, le varie fasi del ciclo economico possono essere così sintetizzate:

 

Ripresa     a   inverte la tendenza precedente, diventando positivo

o, semplicemente, meno negativo;

Espansione   a   consolida la tendenza di crescita e il suo valore

è comunque positivo

Crisi       a    inverte la tendenza precedente, diventando negativo

o, semplicemente, meno positivo;

Recessione    a     consolida la tendenza di riduzione e il suo valore resta negativo per alcuni anni

 

Gli effetti complessivi sul saggio di variazione del reddito complessivo dipendono anche dalle variazione di b che nelle varie fasi del ciclo può assumere diversi valori o, più che altro, diverse «accelerazioni».

Tradizionalmente i prezzi aumentano nelle fasi di ripresa ed espansione e si riducono nelle fasi di crisi e depressione ma il sistema capitalistico ha sperimentato aumenti di prezzi, anche consistenti, in fasi di recessione economica.

La variazione del reddito complessivo limitatamente alla produzione di merci e servizi è condizionata direttamente dall’andamento dei successivi parametri sopra individuati, in particolare gli investimenti e l’occupazione.

Investimenti e occupazione costituiscono il lato degli impieghi del valore aggiunto (almeno in parte) e la loro fluttuazione, o andamento ciclico, dipende dall’uso che ne fanno le imprese del sistema economico.

Il sistema economico, si è già visto, è diviso in vari settori produttivi ognuno dei quali presenta in concreto una propria dinamica così come una propria dinamica presenta, in fin dei conti, ciascuna impresa. Il risultato finale per il sistema nel suo complesso, individuato nel parametro a, sarà pertanto una media ponderata di tutte le variazioni del flusso di produzione di ciascuna impresa. E’ chiaro, pertanto, che le imprese di più grandi dimensioni, dato il loro peso relativo maggiore, saranno in grado di influenzare in modo più consistente il parametro indicato.

Dal Capitolo Sesto sappiamo già che, sotto un profilo strettamente formale, l’equilibrio economico della grande impresa si presenta nei medesimi termini della piccola impresa. In particolare, indicando con KG i mezzi investiti nella grande impresa e con KP i mezzi investiti nella piccola impresa si può scrivere:

 

(1)             (yt)’ p’ (g - h) + r c KG = KG (µ + a + b)

(2)             (yt)" p" (e - g) + r x KP = KP (p + l+ k)

 

nelle quali le varie percentuali di impiego dei mezzi utilizzati nella piccola impresa sono individuati con le lettere dell’alfabeto greco, il saggio di profitto è indicato con p per le piccole imprese e sia i prezzi che le quantità prodotte sono differenziate da due diversi esponenti. Infine i simboli g e h della grande impresa sono rispettivamente individuati con e e g nella piccola.

Un elemento che accomuna le grandi e le piccole imprese è la determinazione del livello delle scorte espresso dalle due seguenti equazioni:

 

(3)               M’ = (1 - g) (yt)’ p’ grande impresa

(4)               M" = (1 - e) (yt)" p" piccola impresa

 

Per l’impresa capitalistica, sia essa di grandi o piccole dimensioni, il volume delle scorte rappresenta un costo in termini finanziari, vale a dire di mezzi in qualche modo immobilizzati per far fronte a improvvise impennate della domanda di mercato. Da un punto di vista economico le scorte rappresentano un valore in attesa di essere realizzato. Nella valutazione dell’equilibrio economico corrente pertanto le scorte possono essere rappresentante come un costo mentre nell’equilibrio prospettico possono essere rappresentante come un’opportunità di profitto. In effetti utilizzando il volume delle scorte secondo quest’ultima accezione il valore aggiunto prodotto dell’impresa viene scisso in due componenti: il valore aggiunto realizzato e il valore aggiunto atteso. E’ chiaro quindi che anche nel valore aggiunto distribuito si verrà a creare la medesima differenziazione ed è chiaro che il profitto potrà intendersi effettivamente realizzato se il volume delle scorte, nel lungo periodo, rimane sostanzialmente stabile messo in rapporto con il flusso di produzione ottenuta. Ma non vi è dubbio che il primo sintomo del ciclo economico è proprio offerto dalla variazione delle scorte e quando il rapporto con la produzione ottenuta diventa più alto del livello considerato accettabile, quindi economicamente opportuno, la prima conseguenza è un saggio di profitto «apparente» e il provvedimento più immediato è un calo dell’utilizzazione sia degli impianti che, ovviamente, del lavoro con l’ovvio intento di riportare il rapporto scorte/produzione al livello economicamente opportuno.

Seguendo questo schema di pensiero le due equazioni possono essere così riformulate:

   (5) (yt)’ p’ (g - h) + (yt)’ p’ (1 - g) + r c KG = KG (µ + a + b)

   (6) (yt)" p" (e - g) + (yt)" p" (1 - e) + r x KP = KP (p + l+ k)

 

In modo molto elementare il livello delle scorte può essere messo in rapporto con il valore aggiunto distribuito, espresso dal secondo membro delle predette equazioni. In riferimento alla grande impresa si potrà quindi scrivere:

 

                                 (yt)’ p’ (1 - g)

(7)             v = --------------------------------

                              KG (µ + a + b)

 

Dalla relazione (7) si evince che un aumento di g determina una riduzione del rapporto ma anche, ovviamente, che la crescita del flusso di produzione, conseguente ad un aumento del capitale investito, più forte dell’incremento del capitale investito determina un aumento del rapporto. I due effetti, quindi, tendono ad annullarsi. Nelle imprese che producono merci, quindi che hanno scorte di prodotti, il valore di v subisce delle variazioni più o meno consistenti in ogni periodo e l’impresa cerca di contrastare eventuali aumenti, finché le è possibile, tramite un aumento di g che sia in grado di compensare il fatto che il saggio di variazione della quantità prodotta sia più sostenuto di quello relativo al capitale investito. Il rapporto fra la variazione del flusso di produzione e la variazione delle scorte ripropone anche il rapporto fra lo sviluppo della grande impresa e quello della piccola, ed i reciproci rapporti o «scontri».

Se il mercato di una merce più o meno definita (per esempio gli elettrodomestici elettrici) è formata dalla seguente struttura oligopolista:

 

Imprese                     Produzione                 Produzione

                                 Impresa                      Totale

Grandi (3)                  1.000.000                 3.000.000

Medie (20)                     50.000                  1.000.000

Totale produzione                                         4.000.000

 

e il flusso di produzione è diviso fra vendite e scorte con una percentuale delle seconde pari al 10% per le grandi e 20% per le medie complessivamente si avrà la seguente situazione:

 

                         produzione      scorte            vendite

Grandi                 3.000.000    300.000        2.700.000

Medie                  1.000.000    200.000           800.000

 

In queste condizioni opportune indagini di mercato, condotte soprattutto dalle imprese di grandi dimensioni, fanno supporre un aumento del flusso della domanda, per un periodo definito (per esempio un anno) del 20%, quindi complessivamente di 700.000 unità.

La circostanza che l’incremento delle vendite mantenga inalterati i rapporti di mercato delle imprese del settore che è per ciascuna di esse si verifichi un aumento delle vendite del 20%. Tuttavia dalla relazione (7) è chiaro che il mantenimento dell’equilibrio per ciascuna impresa è dato da un incremento non solo del capitale investito ma anche dalla costanza del rapporto fra i mezzi investiti (parametri a e b) e del saggio di profitto.

Ora, se con qualche forzatura piuttosto evidente si può comunque supporre che «effettivamente» la quantità vendita di ciascuna impresa si incrementi del 20% è assolutamente certo che l’incremento del capitale investito sarà diverso da impresa a impresa per una serie piuttosto consistente di motivi sia economici che finanziari ed organizzativi. La diversa crescita del capitale investito comporta inevitabilmente una variazione del rapporto v e con esso una diversa distribuzione del valore aggiunto complessivo fra realizzato ed atteso.

Per esempio, se una delle tre grandi imprese è particolarmente dinamica sul mercato e possiede una capacità di vendita superiore alle altre due e tale superiorità è in qualche modo nota al gruppo dirigente dell’impresa il medesimo potrà affrontare una strategia di «aggressione» del mercato tentando di incrementare le vendite del 30% (per ipotesi). Ma l’ipotesi più probabile è che ciascuna delle tre grandi imprese arrivi più o meno «preparata» all’incremento delle vendite valutato dalle indagini di mercato e che anzi i progetti d’investimento siano finalizzati all’incremento del consumo della merce in oggetto. In questo caso gli investimenti non sono più semplicemente (si fa per dire) quelli tecnico-produttivi necessari per la fabbricazione del prodotto ma riguardano anche (e forse soprattutto) i costi necessari alla messa in opera di una adeguata campagna di pubblicità e d’immagine in modo che il consumatore non si limiti acquistare maggiori unità del bene in oggetto ma che indirizzi i propri acquisti ad una impresa piuttosto che ad un’altra.

Si supponga così, molto semplicemente, che ciascuna delle tre grandi imprese preveda, in ogni caso, di incrementare le vendite di un saggio non minore del 25%. Se l’ipotesi si realizza le tre grandi imprese avranno un incremento di mercato pari a (25% 2.700.000) = 675.000 unità, che costituisce oltre il 96% dell’incremento previsto per il mercato totale, lasciando alle piccole imprese, mediamente, solo 1.250 unità (incremento medio del 2,5%).

L’incremento delle vendite può avvenire sia tramite un nuovo flusso di produzione che una riduzione delle scorte. La dinamica di tale incremento è una questione squisitamente interna all’impresa che si troverà ad affrontare il mercato in funzione delle proprie strategie e delle proprie possibilità economiche e finanziarie.

E’ chiaro che se le tre grandi imprese partono da una ipotetica situazione di eguaglianza (soprattutto di profitto realizzato) e durante lo sviluppo produttivo una di essa riesce ad collocare sul mercato una quantità di merci relativamente più elevata la posizione «finale» denoterà differenti posizioni economiche, con la prima impresa che si avvantaggerà sulle altre.

In particolare se la prima impresa incrementa del 10% il capitale investito, del 30% le vendite e del 25% la produzione il parametro delle scorte sarà:

                      1.250.000 (1 - 93,6%)

         v = ------------------------------------- = 3,63%

                      2.200.000 (30% + 70%)

 

laddove il medesimo parametro calcolato con i dati precedenti era pari al 5%.

Se questa situazione economica riesce effettivamente alla grande impresa in considerazione è chiaro che le restanti due imprese non potranno incrementare ciascuna del 30% le vendite, in quanto tale ipotesi presupporrebbe un incremento complessivo del mercato di almeno 810.000 unità (900.000 30% 3). Se tali due imprese ottengono un incremento delle vendite del 20% incrementando il capitale investito del 10% e la produzione del 25% il parametro v sarebbe per loro pari al 7,73%. Il profitto effettivamente realizzato sarebbe allora pari al 26,37% per la prima grande impresa e al 22,27% per le restanti due imprese. In valore assoluto le scorte diminuiscono per la prima grande impresa mentre aumentano per le altre due grandi imprese.

Se le due grandi imprese «in difficoltà» hanno intenzione di riportare il livello delle scorte a quello precedente possono, dato che ormai hanno investito il loro capitale sia in attrezzature produttive che in lavoro, ridurre il grado di utilizzazione degli impianti in essere in modo da «calibrare» il flusso della produzione con la nuova situazione di mercato. Ma questa semplice ed ovvia scelta di gestione implica per l’impresa prima e per il sistema economico poi una riduzione dell’occupazione, quindi del reddito prodotto e distribuito e, in linea generale, della capacità di spesa in beni di consumo della popolazione residente (che costituisce verosimilmente anche il suo mercato, in tutto o in parte).

Il grado di utilizzazione degli impianti e in generale della capacità produttiva costituisce l’altro importante parametro, insieme alla variazione delle scorte, per la definizione del ciclo economico.

Il grado di utilizzazione degli impianti dipende, chiaramente, dal numero degli addetti impiegati e dalle ore di lavoro effettivamente lavorate, quindi dai parametri N e t come individuati nel Capitolo Sesto. La variazione di N e di t implica sia una variazione nel flusso di produzione che nella produttività oraria per addetto. In particolare indicando con w la produttività e con l il grado di utilizzazione della capacità produttiva si può scrivere l’equazione:

                    (8)            y t = t N w l

L’equazione (8) può essere adattata sia alla circostanza nella quale semplicemente varia il grado di utilizzazione sia nel caso in cui l’impresa accresca la propria capacità produttiva (o la riduca a seconda dei casi) cambiando il volume degli impianti in dotazione. In effetti l’impresa capitalistica di grandi dimensioni modifica di continuo sia il grado di utilizzazione della capacità produttiva sia il volume degli impianti acquisendone di nuovi e dimettendo quelli resi obsoleti dalle condizioni sia tecniche che economiche della produzione. Il flusso di produzione yt di un determinato periodo, normalmente un anno, è quindi influenzato dalla utilizzazione degli impianti in essere (espressa dalla 8)), dall’ingresso nel processo di produzione di impianti nuovi e dalla dimissione di impianti non più utilizzabili. L’equazione (8) può pertanto essere così riscritta:

 

             (9)         y t = t N w l + t’ N’ w’ l’ - t" N " w" l"

 

nella quale il secondo addendo esprime il flusso di produzione relativo al nuovo impianto produttivo e il terzo il flusso di produzione che cessa per effetto della dimissione degli impianti.

Ciascuna delle quattro variabili individuate (tempo, addetti, grado di utilizzazione e produttività) ha la propria diretta influenza sul flusso di produzione corrente.

La prima puntualizzazione necessaria rispetto all’equazione (9) è che il totale dell’occupazione in un certo periodo è dato dalla somma algebrica degli addetti alla produzione N, N’ e N". L’impresa avrà lavoratori impiegati nella produzione riferita agli impianti in essere (N nella formula) ma anche lavoratori da impiegare nella utilizzazione dei nuovi impianti produttivi (N’). Tale ultimi lavoratori potrebbero essere assunti nel periodo corrente utilizzando direttamente il mercato del lavoro ma è anche molto probabile che i lavoratori occupati negli impianti in dimissione siano «trasferiti» negli impianti di nuova acquisizione cosicché la variazione dell’occupazione per l’impresa considerata dipende tutta dalla necessità o meno di far funzionare il nuovo impianto con gli addetti esistenti. Nel caso di un «perfetto» trasferimento di lavoratori dai vecchi impianti dimessi ai nuovi impianti il valore di N’ è esattamente pari al valore di N" e l’immissione di un nuovo impianto nel processo produttivo non determina alcuna variazione nell’occupazione dell’impresa.

La seconda puntualizzazione attiene alla circostanza che l’impresa capitalistica, ma in generale il sistema delle imprese presenti nel sistema economico, ha un investimento in attrezzature e impianti produttivi «differenziato» per ciascun flusso di produzione. Ad ogni addendo della (9) è associato nell’impresa (e nel sistema economico) un certo volume d’investimento in attrezzature produttive cosicché la dotazione corrente di capitale produttivo è determinata dalla somma algebrica dell’investimento nei vari tipi di impianto. Ma non è finita qui. Nell’equilibrio economico dell’impresa espresso, per esempio, dalla equazione (1) il costo delle attrezzature e impianti produttivi è assunto per intero, quindi quell’equilibrio è riferito al ciclo di vita completo dell’impianto e, in quanto tale, si tratta di un equilibrio economico di lungo periodo. Quando diviene necessario valutare l’andamento ciclico della produzione e delle altre variabili economiche diviene necessario anche determinare il costo dell’utilizzazione «corrente» di tutta l’attrezzatura produttiva, costo normalmente denominato ammortamento del capitale fisso e già esaminato nel Capitolo Sesto. E’ quasi inutile sottolineare che ciascun gruppo di impianti ha una propria specifica durata e che in un determinato periodo il totale del costo di utilizzazione del capitale tecnico-produttivo è dato dalla somma dei costi di utilizzazione del singolo impianto o gruppo d’impianti. Indicando con A il costo dell’attrezzatura in essere, con A’ quello dell’attrezzatura acquisita nel periodo, con A" quello dell’attrezzatura in dimissione e con n, n’ e n" rispettivamente il tempo di utilizzazione (normalmente espresso in anni) delle varie «categorie» produttive si può scrivere:

                (10)           Ic = A’ - A"

che esprime gli investimenti netti correnti come differenza fra l’acquisto e la dimissione delle attrezzature nel periodo considerato e anche:

                                             A               A’

                    (11)    Am = ---------- + ----------

                                              n                   n’

 

per indicare il totale degli ammortamenti correnti del capitale produttivo. Tenendo in debito conto le due equazioni appena indicate si può stabilire con un’altra semplice relazione il totale della dotazione del capitale tecnico-produttivo che concorre a determinare il flusso di produzione corrente e quindi:

 

             (12)             K = A + A’ - A" - Am

 

L’equazione (12) esprime le decisioni di investimento da parte delle imprese e quindi il cambiamento della dimensione della capacità produttiva espressa, sinteticamente, dalla variabile K (dotazione dei mezzi di produzione).

Nell’economia capitalistica le decisioni di investimento, e segnatamente le decisioni di investimento da parte delle imprese di più grandi dimensioni, precedono le decisioni di acquisto da parte dei consumatori delle merci e dei servizi derivanti dal conseguente processo di produzione sicché si viene a creare in ciascuna impresa, e per conseguenza nel sistema economico, una relazione fra produzione del singolo tipo di impianto e costo del medesimo, relazione nota di solito come rapporto Capitale\Prodotto. E’ ovvio che ciascuna impresa si attende un determinato rapporto Capitale\Prodotto per ciascun tipo di impianto che corrisponde, verosimilmente, alle condizioni di equilibrio economico durevole (a meno di errori di valutazione). Quando queste condizioni sono realizzate l’impresa procede in modo regolare nella ricerca e nel perseguimento del profitto ma è la norma che non sempre le faccende economiche vadano nella direzione voluta (che per le imprese è sempre la crescita di investimenti, vendite e profitti). Ma l’equazione (12) mette in evidenza anche i rischi connessi con le decisioni di investimento. In primo luogo è chiaro che se il totale degli ammortamenti correnti è maggiore della spese in nuovi beni d’investimento (A’ < Am) la capacità produttiva tendenzialmente decresce e comunque se tale disequazione è realizzata a livello macroeconomico indica sia una prospettiva di minor produzione sia un invecchiamento più elevato della dotazione del capitale produttivo esistente. D’altra parte per accrescere la capacità produttiva il volume corrente degli investimenti A’ deve necessariamente essere superiore alla somma degli ammortamenti Am e del volume di investimenti che sono posti fuori produzione A"

Le questioni rilevanti per il ciclo economico, direttamente conseguenti dalle equazioni (9) e (12), sono essenzialmente due. La prima è che, anche in presenza di un grado di utilizzazione costante della capacità produttiva e, al limite del 100%, le oscillazioni della medesima, e quindi del conseguente flusso di produzione, sono inevitabili per il semplice fatto che è quasi impossibile che la somma algebrica delle quattro variabili della (12) sia, in ciascun periodo, nulla. La seconda è che, in effetti, un grado di utilizzazione della capacità produttiva esiste ed è oscillante variando da impresa a impresa e da settore economico a settore economico. Semplificando al massimo e indicando con d il grado di utilizzazione della capacità produttiva e con n il rapporto Capitale\Prodotto la (12) può essere opportunamente trasformata nella seguente equazione:

           (13)          n yt d = A + A’ - A" - Am

Il primo membro della (13) indica gli investimenti produttivi necessari all’esecuzione del flusso di produzione corrente mentre il secondo, determinato nel sistema economico indipendentemente dal primo, indica il flusso di investimenti effettivamente effettuati dall’impresa o dalle imprese del sistema economico.

In queste condizioni la diseguaglianza:

            (14)           n yt d < A + A’ - A" - Am

indica un eccesso di capacità produttiva (quindi fattori produttivi non completamente utilizzati) mentre la diseguaglianza:

            (15)           n yt d < A + A’ - A" - Am

indica una carenza di capacità produttiva che può essere compensata, a seconda dell’altezza di d attraverso un aumento del medesimo.

Nella prima ipotesi il ciclo economico è indirizzato, ovviamente, alle fasi di crisi e recessione mentre nel secondo è indirizzato alle fasi di ripresa e espansione.

 

 

31. Le cause cosiddette esogene. Le cause esogene dei cicli economici sono convenzionalmente definite tali per il loro carattere «esterno» rispetto al vero e proprio meccanismo economico e sono individuate tradizionalmente dalle politiche economiche e sociali di governi nazionali o sovranazionali oppure da variazione della popolazione residente o da altri fenomeni ancora ma in effetti il sistema capitalistico, essendo assai di più di un puro fenomeno economico, è così profondamente legato alla struttura politica e sociale che lo circonda e dai suoi «movimenti» che quei fatti, sempre convenzionalmente definiti «esogeni», finiscono per diventare parte integrante della dinamica del sistema.

L’impresa capitalistica è un produttore e un distributore di ricchezza economica e, storicamente, la ricchezza prodotta e distribuita è cresciuta nel corso del tempo. L’incremento della ricchezza distribuita ha determinato, in media, un aumento del reddito individuale per la popolazione di quelle nazioni e territori che hanno sperimentato il sistema capitalistico. Tale incremento della ricchezza non è avvenuto in modo «automatico» e nemmeno «indolore» perché nel primo capitalismo il passaggio dal sistema agricolo-artigianale con i suoi ritmi consolidati da millenni al sistema industriale di fabbrica ha comportato un cambiamento radicale sia dal punto di vista materiale che intellettuale di tutti coloro che sono stati coinvolti nel passaggio. E se l’indigenza, la povertà e le diseguaglianze di ceto e di reddito sono sempre esistite nelle società non capitalistiche (ed esistono tutt’ora) è però indubbio che il sistema capitalistico è stato ed è particolarmente «efficiente» nel rendere tali diseguaglianze più visibili e più palpabili per il semplice ed assorbente motivo che è stato in grado, ed è in grado, di rendere «merce» tutto ciò che in qualche modo gli appartiene. Nel sistema capitalistico è merce il flusso di produzione o un macchinario ma è merce anche il lavoro manuale e intellettuale e tutto ciò che non è rigidamente riconducibile o ricondotto ad un rapporto economico costituisce, nel giudizio della cosiddetta «saggezza convenzionale», un fenomeno irrazionale e per ciò stesso dotato di una connotazione negativa. Il contesto politico, sociale e culturale è il primo ad intrattenere un rapporto organico e dialettico, come direbbe Marx, con il sistema economico, quindi con la struttura tecnico-organizzativa del sistema capitalistico e le decisioni che governi e parlamenti nazionali e internazionali possono prendere non solo nel campo strettamente economico ma anche in quello sociale e politico incidono in modo diretto sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza determinando spesso la convenienza o meno per le imprese capitalistiche di tenere determinati comportamenti piuttosto che altri.

I rapporti organici e dialettici di carattere sociale e politico che danno origine ai cicli economici possono riguardare due distinte fattispecie:

a) l’assetto istituzionale e il contesto politico-sociale;

b) la posizione di equilibrio economico della singola impresa.

 

Nel caso a) la struttura politica e sociale, soprattutto attraverso i suoi organi istituzionali, imprime al sistema economico una determinata organizzazione che va, sostanzialmente, dal liberismo al collettivismo.

Nel caso b) l’impresa capitalistica, ma in generale il sistema delle imprese produttive, a seconda delle risorse di cui dispone e dei programmi formulati, interagisce con il contesto politico-sociale attraverso l’ordine di composizione come elemento determinante, insieme a quello combinatorio e sistematico, dell’equilibrio economico durevole.

L’assetto politico-istituzionale agisce sui meccanismi della produzione e della distribuzione della ricchezza economica intervenendo sia nella legislazione sia nel sistema culturale.

Il sistema di produzione capitalistico può essere informato al liberismo economico (ma anche politico e sociale) ovvero al collettivismo e, ovviamente, ai diversi possibili casi intermedi. Nel caso del liberismo l’impresa capitalistica è fondata su ciò che è ormai cristallizzato come «libera iniziativa» secondo la quale ogni individuo è libero di compiere le scelte economiche (ma anche politiche e sociali) che ritiene più opportune. L’interferenza della struttura statale è ridotta al minimo e tende ad assecondare il cosiddetto andamento del mercato sia delle merci che dei fattori della produzione. L’intervento «minimo» delle pubbliche strutture, quindi della politica nazionale e internazionale, negli affari economici riposa ovviamente sulla consapevolezza che le sole forze del mercato siano in grado di provvedere in modo efficacie ed efficiente sia alla produzione che alla distribuzione della ricchezza. Se questo è l’assetto politico e istituzionale del sistema capitalistico la possibilità per le politiche nazionali e internazionali di dare origine a cicli economici, sia in positivo che in negativo, è ridotta ai minimi termini.

In questo contesto l’impresa capitalistica, fondata sulla libera iniziativa economica e lasciata libera di compiere gli atti necessari a conseguire il massimo risultato economico possibile, incontra un inaspettato ostacolo «istituzionale» nella propria organizzazione tecnico-produttiva. All’interno dell’organizzazione della grande impresa capitalistica la «libera iniziativa» è, per ovvie ed assorbenti ragioni, del tutto inesistente (non sarebbe certo tollerabile o efficiente per l’economia dell’impresa che il direttore di produzione decida per una strategia X mentre il direttore di marketing decida, in modo autonomo, per una differente strategia Y) ed anzi la produttività complessiva dell’impresa è proprio legata alla divisione del lavoro e alla circostanza che ognuno compia il proprio lavoro nel modo non tanto più scrupoloso possibile quanto nei tempi e nei modi necessari per raggiungere gli obiettivi che la direzione dell’impresa ha posto.

Se l’impresa capitalistica opera in un contesto sociale e politico improntato al liberismo economico è inevitabile la competizione economica non solo fra le imprese di un po’ tutte le dimensioni ma, di riflesso, anche fra gli individui che vivono in quella particolare società. In altri termini si viene a creare un modello economico che condiziona anche un modello di vita e di cultura.

Il problema delicato del liberismo economico è connesso con la sua natura liberale e quindi con la circostanza che l’esercizio della libertà, comunque si voglia intendere questo termine, è sempre connesso con la detenzione di un potere che nel sistema capitalistico è essenzialmente un potere economico.

Rimanendo nel tema specifico del ciclo economico si può infatti osservare come le decisioni assunte dalle imprese «libere» rispetto alla produzione pongano il problema di cosa produrre e quanto produrre e in questo aspetto la differenza fra ciò che è e ciò che deve essere è particolarmente significativa (e illuminante). Infatti la libertà della iniziativa economica è connessa, come tutte le azioni libere, con le responsabilità conseguenti. La rigida logica del liberismo economico vorrebbe, quindi, che se una impresa «sbaglia» nell’effettuare un certo investimento ovvero se le merci che produce non sono più «idonee» a soddisfare la domanda di mercato, la responsabilità ricada interamente su di essa. Ma a questo proposito vi sono almeno due questioni. La prima è che se l’impresa è di dimensioni sufficientemente grandi avrà la potenza economica per scaricare su altri i suoi pur parziali fallimenti, la seconda è che se il fallimento di una certa iniziativa economica è sufficientemente grande da compromettere in modo durevole l’equilibrio patrimoniale l’impresa, di certo non completamente a torto, coinvolgerà nelle conseguenze economiche delle proprie iniziative soggetti che in qualche modo si trovano costretti a subire determinati avvenimenti (come un creditore che non riesce a riscuotere il proprio credito o un dipendente che perde il posto di lavoro). In questo caso non si può dire che alla libertà di un determinato soggetto corrisponda sempre la libertà di un altro soggetto (e senza scendere al livello di fallimenti economici o al solito rapporto impresa-lavoratore si pensi solo ad un caso di «ristrutturazione industriale» che, deciso dalla grande impresa, metta in difficoltà economiche una serie di piccole e medie imprese che hanno come mercato l’impresa medesima).

Comunque sia il liberismo economico ha i suoi effetti sul ciclo economico in funzione degli andamenti delle imprese presenti sul «mercato» le quali, nonostante la loro notevole influenza sulle scelte dei consumatori rispetto a cosa consumare e quanto e come, forse per un motivo legato alla stessa struttura «naturale» della vita umana, sono soggette per intero alle fasi di ripresa, espansione, crisi e depressione. In altri termini evitare il ciclo economico per l’impresa capitalistica e, in generale, per l’economia capitalistica sembra essere praticamente impossibile.

Ciò che sembra incidere maggiormente sull’andamento ciclico delle grandezze economiche, anche in un sistema liberista, sono le politiche di bilancio dello Stato e le politiche di «libero scambio» determinate da provvedimenti internazionali.

La politica di bilancio di uno Stato «liberista» dovrebbe tendere al pareggio o, al più, unire un disavanzo delle partite non correnti (essenzialmente per investimenti pubblici strutturali) ad un pareggio delle cosiddette partite correnti, normalmente riferite alla gestione dell’apparato burocratico-statale (che dovrebbe anche essere il meno «burocratico» possibile). L’aspetto più macroscopico di tale politica è un prelievo fiscale minimo sia sulle imprese che sui redditi dei cittadini che dovrebbe essere sufficiente ad incentivare nuove iniziative economiche.

I provvedimenti internazionali di «libero scambio» hanno la funzione di rendere più agevoli gli scambi commerciali e finanziari fra le diverse nazioni consentendo quindi alle imprese movimenti di merci e di capitali senza o con pochi vincoli giuridici.

Questi provvedimenti sono assunti in modo indipendente dalla struttura istituzionale interna nel senso che un sistema collettivista o comunque dedito a interventi massicci nell’economia «nazionale» può essere anche molto «liberista» nella politica internazionale.

In linea di principio, ma anche di fatto, la libera circolazione di merci e di capitali fra le diverse strutture nazionali implica per le imprese delle nazioni coinvolte nel «libero scambio» un allargamento del mercato sia di collocazione delle merci che di acquisizione di fattori produttivi e questo ha un indubbio potere di incidere in modo favorevole sull’andamento ciclico dell’economia.

Anche in questo caso però le differenze di struttura e di sviluppo economico e i differenti assetti politici pongono i loro condizionamenti sulla effettiva applicazione del libero scambio.

Anzitutto è chiaro che le politiche di libero scambio sono possibili di norma quando gli assetti politico-istituzionali dei vari paesi coinvolti sono se non uguali almeno molto simili. Quando infatti vi sono barriere di carattere politico per un qualche motivo insormontabili anche gli accordi di carattere commerciale saranno molto limitati e per conseguenza sarà limitato il commercio di merci e di capitali.

D’altra parte quando il libero scambio di merci e di capitali avviene in modo regolare è inevitabile che le imprese operanti nei sistemi economici più potenti possano limitare o condizionare lo sviluppo delle imprese operanti nei sistemi più deboli cosicché, in definitiva, una parte importante delle fluttuazioni cicliche di una economia «debole» sono condizionate dall’andamento ciclico dell’economia «forte».

Anche nelle politiche di libero scambio è piuttosto naturale che il governo di una certa nazione «protegga» le imprese nazionali ed è quindi altrettanto inevitabile che il maggior peso politico delle nazioni economicamente più potenti imponga accordi sovranazionali nei quali sono presi in considerazione soprattutto gli interessi economici delle imprese di quella nazione.

La differente struttura economica e il differente grado di sviluppo costituiscono un potente ostacolo alla pratica liberista internazionale, proprio in vista della «difesa» delle imprese nazionali.

In effetti quando in una certa nazione ci si pone il problema dello sviluppo economico, quindi dello sviluppo dell’impresa nella forma «capitalistica», inevitabilmente ci si trova davanti il problema del livello economico-strutturale dal quale l’impresa dovrebbe partire. Se vi è almeno un sistema che ha già in atto determinate tecnologie produttive è inevitabile che anche le imprese del sistema che sta per svilupparsi adottino tali tecnologie e quanto più lo sviluppo tecnologico sarà elevato tanto più sarà difficile per un determinato sistema economico non ancora sufficientemente sviluppato adeguarsi allo standard esistente. In questi casi è praticamente impossibile che lo stato rimanga neutrale rispetto al funzionamento del sistema economico in quanto le imprese hanno necessità di aiuti sia sotto forma di «sovvenzioni» economiche e finanziarie sia sotto forma di protezione commerciale. L’ascesa industriale delle economie europee nel secolo XIX è avvenuto proprio attraverso un massiccio intervento dello stato che ha consentito, con appropriate politiche, sia la formazione «nazionale» di un capitale produttivo e finanziario necessario allo sviluppo economico sia lo sviluppo del mercato interno del consumo e dell’investimento. Le differenze strutturali fra le diverse economie costringe quindi i vari governi ad adottare determinate politiche ma è chiaro che l’intervento dello stato è tanto più necessario quanto più un sistema economico che intende svilupparsi si trova tecnologicamente arretrato rispetto allo standard produttivo corrente del sistema capitalistico internazionale.

Le pratiche interventiste e protezionistiche costituiscono una alternativa al sistema della libera iniziativa economica e non vi è dubbio che quanto più lo stato interviene nel sistema economico tanto più la sua influenza sarà grande anche nella determinazione del ciclo economico.

L’intervento dello stato nel sistema può essere di diverso grado ma inizia con una politica di bilancio che tende a condizionare i comportamenti di imprese e cittadini con l’intento di raggiungere un determinato obiettivo, o una serie di obiettivi.

Con lo strumento fiscale lo stato può incentivare la formazione e lo sviluppo di alcuni settori industriali piuttosto che di altri sia concedendo riduzioni d’imposta alle imprese nazionali sia applicando imposte «appropriate» sulle merci importate in modo da incentivare il consumo delle merci prodotte dalle imprese nazionali che in questo modo si trovano ad operare in un mercato in qualche misura protetto.

Con la spesa pubblica lo stato può intervenire attraverso tre strumenti che sono solitamente definiti macroeconomici:

1) investimenti in infrastrutture

2) trasferimenti correnti

3) costi di mantenimento dell’apparato statale

 

In prima istanza si può dire che l’intervento dello stato nel sistema economico può essere misurato dalla differenza fra le entrate tributarie e la spesa pubblica assunta nelle tre componenti come appena individuate. Tale differenza, presa in valore assoluto, va rapportata al reddito nazionale in modo da «misurare» l’entità dell’intervento statale. Ovviamente, in linea puramente ipotetica, possono darsi tre casi: le entrate tributarie superano la spesa pubblica, entrate tributare e spesa pubblica sono equivalenti, la spesa pubblica supera le entrate tributarie.

L’interferenza dello stato nel sistema economico vi è in ogni caso, anche in quello del pareggio, se non altro perchè i soggetti dai quali sono prelevati i tributi difficilmente corrispondono ai soggetti che sono beneficiati da trasferimenti di reddito o comunque da «servizi pubblici» e in ogni caso la connessione fra la prestazione tributaria e la fruizione del servizio pubblico è di difficile riscontro nella pratica economica. In questi casi si può dire che, comunque, l’azione dello stato attua una redistribuzione della ricchezza prodotta dalle imprese e erogata sotto forma di redditi ai fattori della produzione.

L’intervento dello stato diviene forte quando il totale della spesa pubblica supera di parecchi punti percentuali le entrate tributarie e, più di tutto, quando tale disavanzo è persistente negli anni.

Gli effetti del disavanzo statale sul funzionamento dell’economia capitalistica, quindi sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza da parte del settore delle imprese «private», è in qualche modo controverso.

Quando il bilancio dello stato è in disavanzo è necessario che il medesimo sia in qualche modo finanziato e le vie per tale finanziamento sono solitamente l’incremento della moneta in circolazione o l’incremento (o la costituzione) del debito pubblico sotto forma di titoli mobiliari, quindi in pratica attraverso l’incetta di risparmio presso imprese e «semplici» cittadini.

L’incremento della circolazione della moneta tende a creare, di solito, un incremento più o meno sostenuto dei prezzi e quindi dei redditi, almeno dal punto di vista nominale. Ma la valutazione effettiva degli effetti del disavanzo pubblico sull’andamento del ciclo economico va rapportata alla struttura produttiva esistente nel sistema economico considerato. Occorre quindi valutare la posizione del sistema produttivo in generale e delle singole imprese in particolare ed ancora una volta è particolarmente importante la potenza economica delle imprese.

E’ quasi banale affermare che il sistema delle imprese capitalistiche attraverso la produzione e la distribuzione della ricchezza domina la struttura economica della società e condiziona fortemente sia quella politica che quella sociale. Le politiche di bilancio messe in atto dallo stato possono contrapporsi ai progetti e ai fini delle imprese «private» ma ciò che accade solitamente nei sistemi capitalistici è il fatto che un intervento via via più massiccio dello stato nell’economia, quindi nel processo di formazione e distribuzione della ricchezza economica, crea una contrapposizione (o una dialettica) fra l’esercizio del potere economico delle imprese e l’esercizio del potere economico dello stato. Apparentemente il potere economico delle imprese è finalizzato alla ricerca del profitto «capitalistico» mentre quello dello stato sembrerebbe finalizzato ad una «semplice» socializzazione dei mezzi di produzione ma in realtà sia in un caso che nell’altro ciò che più conta è la continuità dell’organizzazione economica la quale più è grande e meno dipende dal profitto inteso nel senso comune di guadagno per il capitalista. L’impresa capitalistica privata rimane di certo imprescindibile dall’esistenza del profitto ma la continuità dell’organizzazione è possibile solo con la contemporanea esistenza di una serie di altre circostanze (che sono poi sempre date dall’ordine aziendale).

Il problema delle economie «miste» nelle quali l’intervento dello stato è massiccio sia come istituzione pubblica sia, spesso, come imprenditore (e quindi come impresa capitalistica) è duplice: da un lato impone alla produzione e alla distribuzione della ricchezza una connotazione di tipo «socialistico» (ma questo non dovrebbe essere, in effetti, un problema) e dall’altro imprese pubbliche che producono merci per il mercato (e non servizi pubblici) assumono una organizzazione affine e in molti casi uguale a quella delle imprese «private» con la variante, spesso, che il profitto non è un profitto ma una perdita di gestione che viene finanziata dal bilancio pubblico, quindi dalla collettività attraverso il prelievo tributario (o l’incremento della circolazione monetaria). La dialettica del sistema, allora, consiste precisamente in questo che le imprese private devono mantenere ed accrescere la loro struttura organizzativa tramite profitti realizzati dalla produzione e dal commercio di merci e servizi mentre le imprese pubbliche mantengono la loro struttura attraverso l’acquisizione di risorse economiche dal bilancio dello stato. E quando le imprese pubbliche che operano in un sistema capitalistico «di mercato» accumulano perdite molto rilevanti che sono in pratica pagate dai contribuenti (e quindi dalla ricchezza economica prodotta nelle imprese «private») interviene di solito una crisi nel rapporto dialettico fra stato e imprese capitalistiche che conduce alla richiesta di una gestione improntata all’economicità delle imprese pubbliche e, di seguito, alla richiesta di privatizzazione delle imprese medesime.

Il passaggio dall’impresa pubblica all’impresa capitalistica privata costituisce di per sé un fenomeno ciclico che ha anch’esso aspetti dialettici (o controversi). Se lo stato si «libera» di una acciaieria o di una fabbrica di dolciumi di certo non compromette la propria vocazione istituzionale ma se a diventare privati sono determinati servizi (come la sanità, l’istruzione o i trasporti) che sono di certo «mercificabili» da una qualunque struttura capitalistica privata ma che costituiscono anche non semplicemente una produzione «economica» ma un elemento, sia pure timido e imperfetto, di eguaglianza fra i cittadini dovrebbe esser sufficientemente chiaro che sta perdendo alcune sue peculiari caratteristiche, anche se si tratta di uno stato «liberale».

La valutazione dell’impatto e dell’opportunità di una azione di bilancio più o meno massiccia da parte dello stato nella formazione e nella distribuzione della ricchezza, viste nel loro andamento ciclico, deve necessariamente tenere in considerazione, come già più sopra visto, la struttura economica del sistema e, per conseguenza, il contesto economico internazionale nel quale il sistema medesimo è inserito. A questo proposito sono molto importanti due fattori «naturali» di uno stato, vale a dire la dimensione del territorio (con l’annessa possibilità di disporre di un certo «patrimonio» minerario e agricolo) e la dimensione e la dinamica della popolazione residente.

In prima approssimazione si può dire che la dimensione del territorio e della popolazione sono due elementi che tendono a produrre una dimensione media delle imprese più o meno grande nel senso che in un stato con 200 milioni di abitanti è relativamente più facile per una impresa diventare grande rispetto ad una analoga impresa che si trova ad operare in uno stato con 20 milioni di abitanti. L’impresa capitalistica è una impresa multinazionale per definizione e, per conseguenza, non è certo limitata dal mercato interno nel proprio sviluppo ma è indubbio tuttavia che, di solito, l’impresa che nasce e che magari si trova ad operare in un settore produttivo nuovo per prima cosa soddisfa il mercato che le è geograficamente più vicino e quindi, raggiunta una certa dimensione, si espande sui mercati internazionali.

Ovviamente la dinamica demografica non è semplicemente data da un incremento della popolazione residente ma contiene in sé altre caratteristiche che sono tutte importanti ai fini economici e, soprattutto, ai fini della valutazione dello sviluppo e del ciclo.

Anzitutto della popolazione diviene importante, per il sistema capitalistico, la capacità di prestare lavoro e quindi, a seconda delle legislazioni vigenti nello stato, è necessario valutare l’impatto dell’età minima per accedere al mondo del lavoro e l’età massima per uscirne. L’età minima è normalmente data dal raggiungimento della capacità di agire, quindi la maggiore età mentre l’età massima è un parametro variabile a seconda della «legislazione sociale» vigente. La capacità generica di prestare lavoro costituisce una limitazione per il sistema capitalistico che ha invece necessità di una specializzazione produttiva, sia quando si tratta di un operaio che deve essere impiegato alla catena di montaggio sia quando si tratta di un lavoratore «autonomo» che deve comunque disporre di determinate conoscenze tecniche per svolgere una determinata produzione (o una fase particolare di una produzione). Normalmente la specializzazione produttiva richiede una disciplina di tipo particolare, quindi una «preparazione di base» data dall’istruzione nei suoi vari gradi e in generale una attitudine al «lavoro sociale»: per entrare nel mondo del lavoro un cittadino che è nelle facoltà giuridiche previste dalla legislazione vigente deve possedere almeno questi due requisiti e il sistema capitalistico, fondato in modo esclusivo sul calcolo economico, è particolarmente «spietato» nel valutare le attitudini e le capacità di coloro che intendono prendere parte alla produzione, in modo diretto o indiretto, al fine di trarne un reddito che gli consenta di vivere, come spesso dichiarano le costituzioni dei paesi capitalistici, un’esistenza «libera e dignitosa».

La preparazione di base e l’attitudine al lavoro sociale sono elementi indispensabili anzitutto per avviare un processo di produzione e distribuzione che possa dirsi capitalistico ma diventano determinanti anche nell’influire in modo «pesante» sull’andamento ciclico dell’economia.

La preparazione di base, quindi il grado di scolarizzazione e di istruzione della popolazione, è per il sistema capitalistico una delle fonti del progresso tecnologico che costituisce, storicamente, una delle principali cause dello sviluppo economico. In un sistema capitalistico «consolidato» l’acquisizione di una preparazione scientifica nei più alti gradi di istruzione dà, in linea di massima, l’accesso a professioni tipicamente intellettuali che normalmente sono meglio pagate di quelle più strettamente materiali e alle quali è associato, in ogni caso, un «prestigio sociale» più elevato. Poiché però l’istruzione ha un costo diretto, anche quando è fornita da istituzioni pubbliche, normalmente per poter arrivare agli studi superiori è necessario disporre di una certa ricchezza personale nonché di un sistema scolastico che favorisca effettivamente l’accesso allo studio a tutti in modo indistinto. Se le condizioni generali della popolazione residente e se il sistema scolastico, insieme, non consentono, per ragioni politiche o sociali, l’accesso all’istruzione superiore a larghi strati della popolazione difficilmente il sistema economico, dopo una prima fase di sviluppo «spontaneo», manterrà il suo trend di sviluppo e perciò ad una fase di crescita economica farà seguito un declino dovuto soprattutto alla carenza di lavoro specializzato e qualificato.

L’istruzione e la scolarizzazione incidono non soltanto sulle capacità professionali della popolazione, quindi sull’efficienza produttiva del sistema, ma comportano anche una dinamica specifica nelle abitudini di consumo delle merci e dei servizi prodotti e, più in generale, una maggiore percezione dei fenomeni politici e sociali, oltreché economici. In questo modo un determinato comportamento sociale (per esempio leggere un libro) dà l’avvio ad una determinata produzione o, più propriamente, adeguati studi di mercato indicano che la richiesta di «cultura» è in aumento sicché diventa un affare economico produrre libri e tutto ciò che in qualche misura attiene alla cultura. In questo modo le imprese che operano nel sistema e che sanno meglio sfruttare (o creare) le opportunità di mercato modificano la struttura e la dimensione della produzione mettendo in produzione e commercio merci nuove o merci vecchie sotto nuove forme in modo da creare, periodicamente, un ciclo economico che va dall’ascesa al declino fino a che un nuovo prodotto o la sostituzione di uno esistente non dà vita ad un nuovo ciclo.

Una cosa è però significativa in questi processi ciclici, sia dovuti all’intervento dello stato sia alla dinamica della popolazione e al grado medio di istruzione raggiunto, e cioè che ogni volta il sistema capitalistico compie sotto il profilo strettamente produttivo il proprio ciclo di ripresa, espansione, crisi e recessione ma alla fine del ciclo non si trova mai, contrariamente a quanto si possa supporre, allo stato di partenza perché in ogni caso le conoscenze scientifiche e tecniche acquisite rimangono indipendentemente dal ciclo economico. Siffatta circostanza è in grado di dare una prima spiegazione della diversità di crescita economico-sociale delle diverse economie e costituisce sicuramente una delle più importanti cause della separazione fra economie sviluppate ed economie sottosviluppate nelle quali l’avvio di un processo capitalistico di produzione e distribuzione della ricchezza economica diviene sempre più problematico proprio a causa dei differenti livelli di «istruzione media» che nel sistema capitalistico è in ogni caso la principale fonte dello sviluppo tecnologico e, di certo non meno importante, organizzativo delle imprese di produzione e in generale della società. Se poi un sistema economico sottosviluppato ma con un miliardo e più di abitanti (come la Cina odierna) riuscisse con molto tempo e molta «fatica» ad avviare un processo di industrializzazione si può stare certi che ciò avverrà con l’intervento indiretto o indiretto delle imprese di più grandi dimensioni operanti nei sistemi capitalistici avanzati (come gli Stati Uniti o il Giappone) che detengono la tecnologia produttiva e la capacità organizzativa più appropriate per avviare la produzione capitalistica nelle forme più opportune. E se, con altrettanta lentezza storica, le imprese capitalistiche dei paesi attualmente industrializzati si trovassero a privilegiare la produzione (e quindi la loro espansione aziendale) nei paesi attualmente in via di sviluppo determinando, per esempio fra mille anni, un cambiamento nella posizione economica relativa degli stati nazionali così come è attualmente definita (per esempio insediandosi stabilmente in quegli stati e privilegiando lo sviluppo delle unità produttive che operano nei medesimi cosicché quelle dei «vecchi» stati svolgano una semplice funzione «marginale») la sostanza filosofica del sistema non cambierebbe affatto ma sarebbe anzi di una impeccabile coerenza.

 

 

32. Le cause cosiddette endogene. Le cause endogene dei cicli economici attengono in modo diretto a taluni meccanismi «interni», quindi economici, del sistema capitalistico di produzione e distribuzione del reddito.

Da un punto di vista strettamente statistico si possono misurare le fluttuazioni delle grandezze macroeconomiche come il prodotto interno lordo, il livello generale dei prezzi, l’andamento degli investimenti ecc. ma è chiaro che tali grandezze macroeconomiche sono, in definitiva, la somma delle grandezze singolarmente determinate all’interno di una specifica impresa, sia essa di piccole o grandi dimensioni.

E’ già stato più sopra osservato che la dinamica di ogni specifica impresa non è costante nel tempo ma oscilla con movimenti più o meno regolari che sono legati alla variabilità delle condizioni economiche, finanziarie e patrimoniali in essere e in prospettiva.

In primo luogo l’impresa capitalistica nella propria essenza di impresa economica utilizza alcune risorse economiche (i fattori della produzione) per ottenere un flusso produttivo da collocare sul mercato al fine di ottenere un congruo profitto e, quando la struttura è diventata sufficientemente grande, per mantenere in efficienza l’organizzazione.

L’utilizzazione dei fattori della produzione pone all’impresa capitalistica alcuni «problemi» direttamente attinenti all’economicità di gestione. Se l’impresa ha dimensioni sopra la media, e quindi con un capitale investito particolarmente ingente, ha l’immediato problema su come ripartire gli investimenti fra produttivi e finanziari e la scelta fra le due aree economiche non è dettata, come potrebbe sembrare a prima vista, da esclusive ragioni di opportunità economico-finanziaria ma potrebbe avere, e nei sistemi capitalistici in effetti ha, una natura direttamente «industriale-produttiva» allorché tali investimenti finanziari sono diretti ad acquisire il cosiddetto pacchetto di controllo in imprese che producono, a monte o a valle, merci o servizi direttamente utilizzati nella produzione. E quando nel sistema economico si profila l’orizzonte di una crisi economica è piuttosto naturale per le imprese di più grande dimensione acquisire, tramite operazioni finanziarie ma anche tramite vere e proprie ristrutturazioni industriali, unità produttive di dimensioni minori che svolgono però una funzione produttiva giudicata essenziale. Indipendentemente dall’orizzonte di crisi economiche, in ogni caso, si assiste nel sistema capitalistico ad una crescente concentrazione produttiva e finanziaria che ingigantisce sempre di più alcune imprese ben definite, incrementandone sia la dimensione economico-finanziaria ma, forse più di tutto, la complessità dell’organizzazione (che in ogni caso viene gestita quasi sempre con grande sapienza).

Da un punto di vista più strettamente «industriale» l’impresa capitalistica incontra un problema di utilizzazione ed espansione della capacità produttiva quando le condizioni correnti o prospettiche indicano un incremento non desiderato delle scorte di merci o un grado di utilizzazione nei fattori produttivi non conforme alle condizioni dell’equilibrio economico durevole, come già evidenziato nel paragrafo 30).

L’incremento non desiderato delle scorte di merci può derivare da diversi fattori. Se si tratta di merci di largo consumo (come gli alimentari o i detersivi) si può verificare la situazione apparentemente paradossale di una produzione «eccedente» come effetto del semplice incremento della produttività tecnica (dovuta spesso a ragioni tecnologiche) più forte dell’incremento della relativa domanda di mercato dovuta ad un mutamento nella struttura dei consumi a sua volta collegata ad un incremento dei redditi medi della collettività presa in considerazione.

Quando le imprese di maggiori dimensioni che operano in prevalenza su questi mercati avvertono il fenomeno dell’incremento delle scorte possono ricorrere alla riduzione deliberata dei prezzi per incrementare i consumi cercando di combinare la predetta azione o con una diversificazione produttiva o con la ricerca di opportunità di vendite e di profitti su mercati esteri ovvero, ancora, sfruttando le risorse finanziarie esistenti nell’impresa per contrastare in ogni caso il declino dei profitti conseguente alla riduzione dei prezzi. La riuscita delle spesso complesse strategie economico-finanziarie delle grandi imprese dipende certamente da un complesso di fattori ma è chiaro che quanto più l’impresa è potente sotto il profilo economico, finanziario ed organizzativo tanto più è probabile il superamento della crisi che, in ogni caso, lascia sull’organizzazione e sui conti economci il proprio segno.

Se l’impresa industriale opera nel settore dei beni di consumo durevole vi è un ciclo economico che si può definire «naturale» costituito dal ciclo dei rimpiazzi. I beni di consumo durevole (come gli elettrodomestici o le automobili) vengono acquistati per essere utilizzati per più anni e conseguentemente la richiesta di tali merci avrà un andamento determinato dal ciclo di vita del bene in questione. Nella società industriale consumistica le imprese produttrici di tali merci prima incentivano l’acquisto attraverso un’azione promozionale che mette in evidenza la «solidità» e l’affidabilità del bene e poi, quando il mercato raggiunge il suo punto di saturazione, la strategia è di solito quella che mette in evidenza la maggiore «funzionalità» del bene dell’ultima generazione. In molti casi il progresso tecnologico determina un incremento effettivo del grado di funzionalità del bene (facendolo più veloce, più sicuro o, semplicemente, più attraente) ma in molti altri i «miglioramenti» sono concentrati in semplici accorgimenti di esposizione del prodotto.

In ogni caso si può prendere atto, con una certa tranquillità d’animo, che il ciclo dei rimpiazzi è governato quasi interamente dalle imprese produttrici di maggiori dimensioni e dalla loro potente organizzazione commerciale-pubblicitaria che indirizza i consumatori all’acquisto del bene in questione e quasi sempre confonde l’effettiva utilizzazione con il semplice atto di acquisto.

Osservando la politica commerciale delle grandi imprese un po’ più in dettaglio si possono notare, connessi al fenomeno dei rimpiazzi, due precisi processi economici: il primo, essenzialmente legato al mercato di collocazione del prodotto è quello di accorciare il tempo di utilizzo del bene in questione (se si tratta di beni di consumo durevole) ovvero di incrementare l’acquisto di beni di largo consumo (spesso compiendo «operazioni promozionali» a prezzi scontati incentivando il consumatore «al risparmio»); il secondo, legato all’utilizzazione della capacità produttiva, è la modifica strutturale del processo di produzione che viene inserita dall’impresa in un preciso piano strategico di medio e lungo periodo. Questo secondo processo economico è forse il principale fattore tecnico-produttivo legato al ciclo delle economie capitalistiche ed incorpora in sè due fenomeni distinti ma correlati che sono l’incremento del volume degli investimenti e l’incremento dei consumi come conseguenza dell’incremento dei redditi prodotti. Nell’economia teorica il processo in questione è noto come «acceleratore-moltiplicatore».

Nelle proprie strategie economiche e tecnico-produttive di medio e lungo termine ogni impresa definisce un programma più o meno massiccio di nuovi investimenti che vanno sia a sostituire impianti e macchinari esistenti sia a incrementare, a seconda dei programmi di sviluppo, la capacità tecnico-produttiva dell’impresa. In ogni periodo amministrativo, pertanto, l’impresa capitalistica e segnatamente l’impresa di grandi dimensioni procede da un lato al rimpiazzo dei mezzi tecnici di produzione obsoleti e dall’altro all’immissione nel processo di produzione di nuovi mezzi tecnici. L’operazione economica dell’impresa ha, ovviamente, un effetto sulla dimensione totale degli investimenti che, a seconda delle circostanze, possono subire un incremento «netto» ovvero una riduzione «netta», quando i nuovi investimenti sono inferiori alle dimissioni di attrezzature produttive.

La sostituzione delle attrezzature esistenti con nuove e l’incremento della capacità produttiva attraverso investimenti nuovi determina per l’impresa una modifica del flusso di produzione che, nella norma, è più elevato rispetto alla situazione preesistente. Se le attese dell’impresa sono rispettate anche il flusso delle vendite subisce un incremento e con esso, verosimilmente, anche il profitto. L’impresa che acquista nuovi impianti in sostituzione di quelli esistenti e a incremento della capacità produttiva determina, com’è ovvio, un incremento della produzione nel settore dei beni d’investimento cosicché una impresa che opera in questo settore dovrà essersi attrezzata preventivamente per la produzione di quell’impianto o macchinario: ne segue necessariamente che se una impresa richiede, oggi, un nuovo impianto (in sostituzione o in aggiunta) in esecuzione di un preciso programma di strategia industriale-produttiva l’impresa o le imprese fornitrici di tale impianto dovranno essere attrezzate per fornirlo nei tempi e nei termini stabiliti. Sia che dispongano della capacità produttiva necessaria sia che non ne dispongano le imprese produttrici dell’impianto registreranno comunque un incremento della produzione che dovrà essere accompagnato, a loro volta, o da un incremento dell’utilizzazione della capacità produttiva o da un incremento della medesima tramite l’acquisto e la messa in opera di opportuni impianti di produzione. Il processo di «accelerazione» degli investimenti consiste precisamente in questo: che ad un aumento degli investimenti nelle imprese che producono essenzialmente merci e servizi per il consumo fa seguito un incremento degli investimenti nelle imprese che producono essenzialmente beni d’investimento. E la misurazione del processo di «accelerazione» può essere approssimativamente determinata tramite il rapporto Capitale\Prodotto rispettivamente delle imprese che producono beni di consumo e delle imprese che producono beni d’investimento.

Il fenomeno dell’accelerazione è tipicamente macroeconomico sicché una sua effettiva valutazione dipende molto dall’atteggiamento delle imprese e quindi, in definitiva, ancora una volta dalla struttura produttiva del sistema preso in considerazione.

Oltre alle solite dinamica delle scorte e della utilizzazione della capacità produttiva sugli effetti economici (e ciclici) del fenomeno in esame diviene molto importante la dinamica della obsolescenza considerata, se così si può dire, su tre livelli distinti:

 

a) l’obsolescenza dell’impianto;

b) l’obsolescenza del prodotto;

c) l’obsolescenza dell’impresa.

 

Il fenomeno dell’obsolescenza è legato in generale al ritmo con il quale l’impresa capitalistica determina le modifiche quantitative e qualitative della capacità tecnica di produzione ed il controllo del fenomeno è all’origine di quel ciclo di vita degli impianti che determina nella pratica il processo dell’accelerazione.

In effetti nel sistema economico preso nel suo complesso si può senza dubbio affermare che in ogni periodo vi è una sostituzione di attrezzature produttive e quindi sia un nuovo flusso di investimenti nelle imprese che producono merci e servizi destinati al consumo sia nelle imprese che producono impianti industriali e, in genere, attrezzature produttive oppure, ancora, «merci» connesse con le costruzioni. Il fenomeno dell’accelerazione degli investimenti si verifica soprattutto quando, in un determinato periodo, si sommano gli effetti della normale obsolescenza degli impianti ad una obsolescenza più generale che investe in modo diretto il processo di ammodernamento delle strutture organizzative delle imprese di maggiori dimensioni.

Nelle correnti impostazioni macroeconomiche del fenomeno l’accelerazione è vista come un processo «istantaneo» fondato sugli effetti che ha sulla domanda complessiva per consumi ed investimenti prima l’incremento dei consumi e quindi l’incremento degli investimenti, valutato secondo la dimensione del rapporto Capitale\Prodotto. Supposta 1.000 la domanda in un certo periodo per beni di consumo ed assunto un incremento del 10% l’effetto dell’accelerazione prende in considerazione il rapporto Capitale\Prodotto nelle imprese che producono beni di consumo. Se tale rapporto è, per esempio, pari a 3 un incremento di 100 nella produzione richiede un investimento aggiuntivo di 300. E se il Capitale\Prodotto è, sempre per esempio, pari a 5 nelle imprese che producono beni di investimento la produzione aggiuntiva di 300 richiederà un investimento in impianti e attrezzature utilizzate per la produzione di beni d’investimento pari a 1.500 sicché alla fine a fronte di un aumento della domanda del 10% si crea una nuova domanda complessiva per 1.900. In effetti però la grandezza effettiva di questo ipotetico incremento dipende tutta dal comportamento pratico delle imprese coinvolte nel processo. E’ chiaro che se le imprese che ricevono una domanda aggiuntiva di merci hanno le scorte o la capacità produttiva sufficiente per soddisfare queste nuove richieste il processo si arresterà al primo stadio non essendovi nessuna domanda aggiuntiva di beni d’investimento. E la medesima conclusione va applicata per le imprese che producono beni d’investimento che procederanno ad un incremento della capacità produttiva solo se ritengono che l’incremento della domanda sarà duraturo almeno per un certo periodo.

Le condizioni per ottenere un incremento sostanzioso della domanda aggregata attraverso il meccanismo dell’acceleratore sono quindi connesse con il diverso grado di obsolescenza delle imprese del sistema economico, quindi con la loro capacità di rinnovarsi nella struttura organizzativa aziendale e non semplicemente negli impianti o nei prodotti.

L’obsolescenza è un fenomeno che agisce in termini negativi sulle condizioni di equilibrio economico, finanziario e patrimoniale dell’impresa sicché è necessario per essa sia prevederlo che controllarlo. Controllare il fenomeno della obsolescenza significa per l’impresa di certo controllare il ciclo di vita degli impianti e dei prodotti immessi sul mercato ma è soprattutto il sistema organizzativo ad essere sottoposto al controllo della obsolescenza: un nuovo flusso di investimenti produttivi, sia per le imprese che producono beni di consumo sia per quelle che producono beni d’investimento, non avviene per circostanze fortuite ma è largamente governato dalle decisioni strategiche promananti dalla struttura organizzativa delle imprese di più grandi dimensioni che attraverso le loro «politiche commerciali» inducono sia a maggiori consumi sia ad una modifica strutturale, ossia permanente, nelle decisioni di consumo. Come affermano gli studiosi del marketing l’impresa ha la necessità di creare una «fedeltà» nel prodotto presso il consumatore ed è su tale fedeltà che, in definitiva, poggia il processo di sviluppo della produzione, quindi anche del connesso fenomeno dell’accelerazione. Le imprese di più grandi dimensioni «investono» una quantità enorme di risorse economiche nella promozione dei propri prodotti e tali investimenti se da un lato hanno certamente un costo non hanno invece la capacità tecnico-produttiva di un impianto: i loro effetti positivi sono visibili per l’impresa attraverso l’incremento delle vendite e della quota di mercato, così come preconizzato nei programmi formulati da coloro che l’amministrano. Le spese di pubblicità e promozione, come ogni decisione di spesa del sistema capitalistico, costituiscono esse stesse un mercato la cui entità fluttua in conseguenza delle decisioni assunte dalle imprese che intendono pubblicizzare e promuovere sia il proprio prodotto che la propria immagine. Trattandosi di beni immateriali, quindi di «servizi», i costi di promozione consentono alle imprese industriali e commerciali un margine di manovra più elevato rispetto agli investimenti in attrezzature produttive i quali, una volta effettuati, devono in ogni caso essere utilizzati sotto il profilo tecnico-produttivo. Tale margine di manovra consente alle imprese di modificare di continuo l’investimento dedicato a tali costi e la decisione concreta di modificare la dinamica e la dimensione di questo tipo d’investimento è direttamente proporzionale alla volontà da parte dell’impresa d’imporre sul mercato le proprie merci e, più in generale, la propria immagine.

E’ quasi inutile sottolineare che il processo di consolidamento della posizione di mercato dell’impresa capitalistica avviene soprattutto a livello internazionale e che, conseguentemente, la grandezza e la potenza dell’immagine aziendale hanno significato per l’affermazione delle merci sui mercati più vasti possibili e, quindi, mondiali. In questo senso diviene particolarmente vera la circostanza che l’impresa capitalistica non si limita a vendere un prodotto ma piuttosto il proprio prestigio e la propria immagine. Il riferimento al prestigio e all’immagine aziendali non deve trarre però in inganno in quanto l’impresa capitalistica è, prima di tutto, un fenomeno economico ed in quanto tale deve perseguire ed in effetti persegue l’equilibrio economico durevole nel tempo: il prestigio e l’immagine devono essere quindi sorretti da una adeguata azione amministrativa che a fronte di una determinata «strategia commerciale» metta in atto sia una strategia «industriale» che «finanziaria» coerenti con la posizione assunta sul mercato. In altri termini l’impresa capitalistica deve necessariamente controllare in modo contemporaneo i fenomeni della obsolescenza dell’impianto, del prodotto e dell’azienda e non vi è dubbio che il fenomeno in grado di contrastare l’obsolescenza suddetta sia in ogni caso l’innovazione complessivamente intesa e, quindi, l’innovazione degli impianti produttivi, del prodotto e dell’azienda.

Il concetto di obsolescenza dell’impresa intesa come organizzazione economica ha un prevedibile impatto sulla formazione e sulla distribuzione del valore aggiunto le cui fluttuazioni costituiscono la base «aziendale» per i cicli economici intesi in senso macroeconomico. Nel sistema capitalistico si possono individuare almeno tre fattori che sono alla base delle oscillazioni cicliche del valore aggiunto prodotto e distribuito, quindi delle condizioni di economicità della gestione aziendale. Tali fattori possono essere così individuati:

 

a) dinamica dei salari

b) dinamica dei consumi

c) dinamica dei processi finanziari

 

La valutazione della dinamica salariale è già stata esaminata nei precedenti capitoli sia in relazione alla distribuzione del reddito prodotto sia in relazione agli effetti sullo sviluppo dell’impresa. Riprendendo in questa sede l’equazione dell’equilibrio economico dell’impresa, vale a dire:

 

       (1)        yt g p - yt h p + rc MI = µ MI + a MI + b MI

 

si può facilmente instaurare il seguente gruppo di relazioni:

 

         (2)            yt p (g - h) = VAP

         (3)             MI (a + µ - rc) = RC

         (4)                  b MI = RL

 

dove l’espressione (2) indica il valore aggiunto prodotto, la (3) i redditi lordi da capitale e la (4) i redditi da lavoro.

Il ciclo economico è caratterizzato, per definizione, dall’oscillazione del reddito prodotto espresso dall’equazione (2). In tale oscillazione è coinvolto sia il volume degli investimenti MI che il volume della produzione yt p ed è chiaro che quando gli investimenti crescono ad un saggio minore della produzione, situazione ordinaria per il sistema capitalistico, per l’impresa si vengono a creare risorse economiche aggiuntive.

Secondo il sistema delle equazioni sopra indicate se tutti i parametri rimangono invariati (eccetto ovviamente MI e yt p) si verifica la situazione apparentemente paradossale che l’incremento della ricchezza prodotta espresso dall’equazione (1) non coincide con l’incremento della ricchezza distribuita espresso dalla somma delle equazioni (3) e (4). In realtà nel sistema capitalistico il profitto d’impresa µ MI è un reddito «residuale» sicché tale differenza è «assorbita» da un incremento del parametro µ.

Se invece quando MI e yt p si incrementano anche la quota dei redditi da lavoro si incrementa, ma non solo e non tanto per effetto di MI quanto per un incremento del parametro b, vale a dire per una modifica strutturale della distribuzione del reddito prodotto, è chiaro che questa circostanza avrà un effetto diretto sulla determinazione del saggio di profitto µ nel senso di limitarne la dinamica. Ora però, secondo la definizione della struttura del capitale investito nell’attività economica di tutto il presente Saggio, i parametri a, b e c rappresentano degli indici di composizione del capitale medesimo e la loro somma è sempre pari all’unità sicché se il parametro b aumenta di una certa percentuale in modo corrispondente a e c devono ridursi: in ogni caso tali incrementi (dei redditi di lavoro) e riduzioni (degli investimenti tecnici e finanziari) rappresentano dei valori relativi. Le variazioni effettive degli investimenti e dei redditi da lavoro discendono dalle effettive operazioni aziendali che non sono certo condizionate dai predetti parametri ma anzi li condizionano. Ciò significa in buona sostanza che l’incremento del parametro b è effettivamente possibile solo se l’impresa, nella fase in atto, riduce il peso relativo degli investimenti produttivi o finanziari. In queste condizioni, poiché le decisioni d’investimento da parte delle imprese e i movimenti dei redditi da lavoro sono operazioni disgiunte sotto il profilo soggettivo, ancorché condizionino congiuntamente la dinamica della distribuzione della ricchezza prodotta dall’impresa, è chiaro l’incremento dei redditi da lavoro ha una incidenza negativa sulla formazione dei profitti se e solo se gli investimenti produttivi e finanziari non sono effettuati dall’impresa nella misura adeguata.

Tali considerazioni sono valide sia nel caso di incremento della produttività dell’impresa sia nel caso di decremento o comunque di rallentamento.

Le «patologie» nel sistema d’impresa sono possibili quando si verificano per un lungo periodo conflitti «sociali» che portano da un lato un incremento dei redditi da lavoro e dall’altro ad un arresto o quasi della produttività e quindi dalla ricchezza prodotta complessivamente. In tali circostanze però è persino difficile stabilire se si tratta di effetti connessi con l’incremento dei redditi da lavoro ovvero con il ristagno o il declino della produttività.

In definitiva il condizionamento della dinamica dei redditi da lavoro sull’andamento del ciclo economico dell’impresa, e quindi del sistema, deve essere valutato congiuntamente alla dinamica della produttività dell’impresa e quindi alla capacità e alla possibilità della medesima di utilizzare al meglio le risorse economiche di cui dispone.

La dinamica dei consumi rappresenta il secondo fattore della oscillazione del valore aggiunto ed ha almeno due aspetti distinti. Il primo attiene alla dinamica complessiva del sistema economico, quindi ad una tendenza strutturale o congiunturale per una maggiore (o minore) propensione al consumo; il secondo attiene alla singola impresa e al «settore» nel quale opera e quindi alle fluttuazioni della domanda alla singola impresa o al settore di appartenenza.

A livello macroeconomico la fluttuazione dei consumi prevede due atti distinti ma ovviamente complementari che sono la propensione al consumo e la propensione al risparmio.

Poiché gli atti del consumo e del risparmio derivano dall’esistenza di un determinato reddito è possibile che la spesa in beni di consumo complessivamente considerata per il sistema economico sia inferiore a determinati livelli cosicché le imprese, a fronte dei redditi complessivamente distribuiti ed ovviamente commisurati alla quantità prodotta, non hanno il ritorno atteso in termini di domanda di merci e servizi sicché vi sarà per loro un aumento non desiderato delle scorte. Pertanto vi sarà la conseguente decisione di ridurre il livello degli investimenti produttivi, quindi il flusso della produzione e il relativo flusso del reddito fino a che il rapporto fra redditi correntemente distribuiti e spesa per consumi non assumi quel rapporto necessario a garantire l’assorbimento del flusso produttivo «ottimale» per il rapporto produzione\scorte. In questo caso il classico equilibrio macroeconomico avviene a un livello di non completa occupazione dei fattori della produzione che significa per le imprese del sistema economico una non completa utilizzazione della capacità produttiva esistente sia per quanto riguarda impianti produttivi che per quanto riguarda il numero degli addetti.

La ragione di fondo della situazione appena descritta e rilevata a livello macroeconomico è probabilmente da ricercarsi in una errata valutazione da parte delle imprese dell’andamento dei consumi «attesi» cosicché a fronte di un determinato flusso produzione programmato non vi è il corrispondente flusso di vendite atteso. Ciò che determina nella pratica un andamento ciclico negativo è la circostanza che nel periodo di espansione dell’attività economica le imprese procedono ad investimenti in impianti produttivi, ma anche in attività finanziarie, che implicano un flusso produttivo crescente per un numero predefinito di anni ma il mercato ad un certo punto non è più in grado di assorbire la quantità di beni e di servizi effettivamente prodotta. Le motivazioni di tale «incapacità» del mercato di assorbire il flusso di produzione dipende da molte circostanze e fra le principali vi è senza dubbio il ciclo di vita del prodotto, esaminato nel capitolo relativo alla dimensione dell’impresa. Inoltre il processo di sviluppo economico, che interagisce con il processo del ciclo economico, implica una modifica strutturale nella domanda di beni di consumo che modifica il mercato effettivo ma anche potenziale di una certa merce o servizio (o di un gruppo di merci o servizi). Un altro importante fattore è dato dalla politica fiscale dello stato che quando alza l’imposizione sui redditi delle persone fisiche, magari per esigenze di bilancio, riducendo il reddito disponibile per ogni persona induce ad una riduzione dei consumi. Infine sebbene la formazione dei prezzi avvenga all’interno della singola impresa è possibile che nel sistema economico si creino delle spinte cosiddette inflazionistiche non direttamente controllate o controllabili dalle imprese e dovute a varie ragioni nazionali e internazionali che però incidono in modo negativo sulla formazione della domanda corrente di beni di consumo giacché riducono il potere d’acquisto reale dei redditi distribuiti.

In ogni caso nelle economie capitalistiche più che ad una riduzione vera e propria del livello dei consumi si assiste, periodicamente, ad un rallentamento della crescita di tale livello che è però più che sufficiente per mettere le imprese produttrici in crisi di vendite con i relativi effetti negativi sull’equilibrio economico e sull’utilizzazione della capacità produttiva.

Il secondo fattore della dinamica dei consumi attiene al rapporto fra consumatore e impresa e, in generale, fra consumatore e prodotto.

In questo ambito divengono rilevanti i rapporti fra l’impresa produttrice e le decisioni di consumo individuale che comunque, alla fine, determinano l’andamento dei consumi nel sistema economico considerato.

I rapporti fra l’impresa capitalistica e il mercato sono già stati esaminati in precedenza e in questa parte è sufficiente porre l’attenzione sulla dinamica del mercato in rapporto all’andamento delle vendite per l’impresa. Nella sua qualità di produttore di beni e servizi destinati a soddisfare un bisogno vero o presunto di un individuo o di un gruppo di individui l’impresa è interessata prima di tutto alla dimensione del mercato potenziale e quindi quale quota di tale mercato è per lei possibile conquistare. La grandissima varietà di beni e servizi prodotti nel sistema capitalistico offre potenzialmente grandi opportunità a tutte le imprese esistenti e anche a quelle potenziali. E’ ovvio tuttavia che a seconda dello stadio dello sviluppo economico raggiunto vi sono beni e servizi che sono richiesti con una «urgenza» maggiore di altri per cui l’impresa dovrà attrezzarsi nella loro produzione. In una economia arretrata che sta cercando di mettersi sulla via dello sviluppo sono maggiormente richiesti quei beni e quei servizi che soddisfano quella classe di bisogni umani tradizionalmente definiti «primari» mentre in una economia sviluppata con redditi medi elevati e un altrettanto grado medio elevato di istruzione le opportunità «commerciali» attengono sopratutto alla soddisfazione dei bisogni umani legati allo sviluppo, vero o presunto, della «personalità». A seconda dello stadio dello sviluppo economico il mercato del consumo presenta una sua propria specifica struttura che, oltretutto, varia da zona geografica a zona geografica e varia anche per numerosi altri fattori come il sesso, la condizione sociale, la razza, le opinioni politiche ed altro ancora. Raggiunto un determinato livello di sviluppo è indubbio che la «sensibilità» del consumatore cresce e con essa la sensibilità del mercato e quanto più il consumo dei beni e servizi di prima necessità diviene una ridotta frazione della spesa totale per ciascun consumatore tanto più il mercato diviene «sensibile» alle oscillazioni cicliche. Le imprese capitalistiche produttrici di beni e servizi hanno a questo punto un’arma che può diventare potentissima (anche se qualche volta può essere inefficace) ed è costituita dalla concreta possibilità di modificare, attraverso opportune e «congrue» campagne di promozione, in modo permanente le abitudini di consumo in modo che merci o servizi ritenuti in altre epoche non di prima necessità (come per esempio un telefono o un computer) entrino in modo stabile nelle abitudini del consumo e perciò costituiscano un mercato stabile con il quale rapportarsi e dal quale trarre le opportunità di vendite e profitti che esso presenta. La riuscita di tali «operazioni commerciali» dipende in prima istanza da un aumento permanente del reddito medio di una collettività in modo che maggiori risorse possano essere destinate a consumi non primari ma dipende anche dal fatto che certi beni e servizi abbiano un prezzo accessibile, in relazione alle loro caratteristiche e funzioni, per un pubblico il più possibile vasto. Anche in tale circostanza, quindi, ragioni strutturali e ragioni congiunturali si sommano per determinare un andamento ciclico in tutto il sistema economico non solo nazionale ma anche internazionale.

Il terzo fattore da esaminare per l’analisi delle oscillazioni cicliche del reddito prodotto e distribuito nelle economie capitalistiche è quello relativo ai processi finanziari.

Quando si prendono in considerazione i processi finanziari si entra in qualche misura in un «buco nero» non tanto dell’economia teorica o pratica quando della mente umana nella sua essenza di centro di tutti gli istinti razionali e irrazionali e il primo pensiero corre verso un termine che evoca spesso una connotazione negativa degli atti economici, vale a dire «speculazione» e in modo più specifico «speculazione finanziaria».

In sé il mercato finanziario, così come delineato nel capitolo Terzo del presente Libro, è un «normale» mercato capitalistico nel quale viene scambiata la moneta sotto forma di titoli azionari e di obbligazioni private o pubbliche che hanno scadenza a medio e lungo termine nel quale la speculazione svolge un ruolo importante di stabilizzazione dei prezzi e di «orientamento» del risparmio quando rimane confinata entro limiti determinati, si potrebbe dire, soprattutto dal buon senso. Ma la seduzione irresistibile del denaro e dell’arricchimento facile inducono, con una ciclicità «sorprendente», milioni di persone a tentare, attraverso l’intermediazione di operatori qualificati quali agenti di cambio, fondi comuni, banche e istituzioni finanziarie in genere, la fortuna investendo, ciascuno secondo le proprie possibilità, nel mercato finanziario e specificatamente nella sezione più «alta» e specializzata di tale mercato che è, in tutto il mondo capitalistico, la Borsa Valori Mobiliari, comunemente, brevemente e in alcuni casi familiarmente denominata Borsa.

Il ciclo finanziario è al medesimo tempo collegato alle imprese capitalistiche e autonomo rispetto alla reale dinamica della produzione, dell’occupazione e dei prezzi da esse messa in atto. E’ collegato in quanto l’oggetto dello scambio nel mercato finanziario è costituito dalle azioni emesse dalle società che reggono, sotto il profilo giuridico-organizzativo, le attività economiche propriamente produttive ed è autonomo in quando l’andamento dei prezzi, normalmente definiti quotazione, che si formano quotidianamente nella Borsa non ha nulla a che vedere che le condizioni economiche e finanziarie della società emittente, soprattutto nel breve periodo.

Se la motivazione psicologica di fondo delle operazioni speculative nella Borsa è costituita dalla ricerca dell’arricchimento «immediato» la indispensabile base economica è costituita dalla disponibilità delle risorse finanziarie da parte di coloro che intendono operare.

La base economica dell’investimento finanziario presso la Borsa deve essere opportunamente distinta in due categorie che definiscono di per sé il carattere più o meno speculativo dell’investimento medesimo. Tali categorie sono date dal risparmio che sui redditi individuali si forma periodicamente e che è in larga misura dipendente dall’incremento più che proporzionale di tali redditi rispetto alle spese necessarie per la soddisfazione dei bisogni connessi con lo standard di vita corrente nella società in cui si vive e, nel sistema capitalistico, in misura sicuramente più massiccia, dalle disponibilità di carattere strettamente finanziario create dalla gestione delle imprese capitalistiche e, segnatamente, dalle imprese capitalistiche di maggiori dimensioni sia attraverso il cosiddetto autofinanziamento da utili netti, cioè dalla mancata distribuzione agli azionisti dell’integrale profitto conseguito, sia più in generale attraverso il ricorso al credito bancario e non bancario per il finanziamento della gestione. L’eccedenza di disponibilità di carattere finanziario da parte delle imprese deve essere ulteriormente distinto nel senso che una parte di tale eccedenza è affidata a depositi presso istituti bancari con l’intento dell’utilizzo per motivi attinenti alla gestione della tesoreria e un’altra parte è direttamente impiegata in investimenti finanziari che possono avere carattere durevole quando implicano il controllo di un’altra società ma più spesso hanno carattere specificatamente speculativo quando hanno per oggetto investimenti in titoli azionari direttamente quotati presso la Borsa. Se non ché il trasferimento delle disponibilità eccedenti agli istituti bancari non esaurisce né limita l’investimento di carattere speculativo presso la Borsa in quanto le banche, esse stesse imprese, procedono ad investimenti presso la Borsa in funzione quasi sempre speculativa.

In queste condizioni la Borsa più che essere soggetta agli umori del singolo risparmiatore che ha intenti di investimento è soggetta alle aspettative speculative dei cosiddetti investitori istituzionali quali sono appunto le banche, i fondi comuni e le imprese finanziarie in genere nonché di quella ingente massa di denaro «disponibile» giacente presso le imprese industriali e commerciali che non è direttamente utilizzato per l’approntamento dei processi tecnico-produttivi.

Ciò che accade al ciclo borsistico è però in qualche misura antitetico al ciclo economico così come è stato più sopra delineato. Se per il ciclo economico relativo alle grandezze reali quali i prezzi, il reddito, l’occupazione e altri vi è un condizionamento di fondo dello sviluppo economico per cui al termine di un ciclo il sistema economico non è più comunque nelle condizioni di partenza nel ciclo borsistico, soprattutto se non vi sono adeguati controlli da parte della autorità monetarie e governative, è altamente probabile che il punto «medio» di una crisi, dopo aver comunque visto le quotazioni scendere a livelli «infimi», si stabilizzi a valori delle quotazioni sostanzialmente uguali a quelli esistenti all’inizio del ciclo con il che vengono cancellate dal portafoglio di coloro che hanno investito le ricchezze precedentemente «accumulate» nelle fasi di rialzo.

La motivazione di fondo di un tale meccanismo è probabilmente da ricercarsi nel fatto che in ogni caso, considerando un periodo di tempo sufficientemente lungo, le quotazioni di Borsa devono esprimere se non le reali condizioni economiche e finanziarie delle società almeno un rendimento medio «congruo» con i restanti rendimenti in attività finanziarie e non presenti nel sistema economico. In tal modo è chiaro che la quotazione di un’azione non può crescere, per dire, di un saggio annuo del 50% per dieci anni consecutivi e così dopo un periodo più o meno lungo di rialzo necessariamente, ma anche per ragioni apparentemente indecifrabili, dovrà perdere molto del valore conseguito. Il fatto peculiare di tali movimenti al rialzo e al ribasso è che nessuna conoscenza economica e nessuna supposta «competenza» nello specifico settore della Borsa sono in grado di definire preventivamente né la durata né la consistenza del rialzo o del ribasso proprio perché il meccanismo di formazione delle quotazioni correnti presso la Borsa dipende esclusivamente, o quasi, dalle posizioni speculative degli operatori e quindi dalle loro attese e, si può certo dire, dal loro «grado» di panico o di euforia.

Tutto ciò premesso il ciclo della Borsa influisce sull’andamento del ciclo economico prima di tutto in termini di «fiducia» o «sfiducia» sull’andamento reale dell’economia ma ha effetti propriamente economici sia determinando oscillazioni negli investimenti in attività finanziarie delle imprese sia, ovviamente, determinando oscillazioni nei rendimenti di tali attività. Ed è altrettanto ovvio che quanto più ingenti sono gli investimenti finanziari delle imprese tanto più i risultati economici, e quindi la formazione della ricchezza prodotta, sono influenzati dalle oscillazioni del ciclo borsistico. Così come un persistente rialzo delle quotazioni borsistiche determina un incremento della ricchezza «percepita» da parte delle imprese un persistente ribasso può annullare non solo i guadagni precedentemente conseguiti ma mettere seriamente in pericolo anche gli eventuali guadagni della corrente gestione tecnico-industriale. In queste circostanze è la solidità patrimoniale-finanziaria dell’impresa, quindi in prima approssimazione la sua dimensione complessiva, a soccorrere in aiuto agli andamenti sfavorevoli della congiuntura finanziaria e non vi è dubbio che per ridurre al minimo i rischi relativi nei periodi di ascesa delle quotazioni e quindi di utili di carattere più o meno speculativi l’impresa dovrà trattare sotto il profilo economico-finanziario tali utili non come effettivamente conseguiti ma come «attesi», questo anche se da un punto di vista strettamente pratico l’impresa ha effettivamente conseguito utili comprando a un determinato prezzo e quindi vendendo a un prezzo consistentemente maggiore. Se l’impresa ha distribuito ai propri azionisti tali utili dovrà trovare altre risorse all’interno della propria gestione per fronteggiare le perdite correnti e fra queste risorse vi può essere anche la richiesta agli azionisti di incrementare debitamente o rifondare il capitale azionario.

In definitiva il ciclo della Borsa è in larga misura autonomo dal ciclo economico propriamente inteso ma interagisce con esso sommandone gli effetti in modo algebrico: un rialzo delle quotazioni significherà per le imprese maggiori utili finanziari derivanti soprattutto da guadagni in conto capitale e per i singoli cittadini, non imprese, detentori di azioni un aumento della ricchezza disponibile, a patto che sappiano accontentarsi di un determinato guadagno e quindi vendano le azioni quando queste hanno raggiunto una determinata quotazione.

Per coloro che osservano questa fase del ciclo borsistico rimane il problema di capire la effettiva provenienza degli utili finanziari, al di là della banale considerazione che lo scambio di azioni ad un certo prezzo implica per il venditore un incasso di denaro e per il compratore una spesa di denaro di pari importo, evidentemente precedentemente «risparmiata». Ma rimane soprattutto il problema di capire se gli utili provenienti dal mercato di Borsa incrementano effettivamente la ricchezza nazionale intensa nella comune accezione di Reddito Nazionale. In questo senso le statistiche sembrerebbero confermare che un aumento degli utili finanziari di una impresa determinino, a parità di tutte le altre condizioni, un aumento della ricchezza nazionale intesa come Prodotto Interno Lordo e che per conseguenza ogni utile di carattere finanziario determini effettivamente un incremento di tale grandezza macroeconomica. Ad un esame leggermente più attento del fenomeno viene almeno il sospetto che più che di incremento della ricchezza prodotta vi sia una conversione di valori patrimoniali precedentemente accumulati in valori economici correnti e quindi in definitiva più che un incremento della ricchezza una redistribuzione della medesima. E considerato che sono le disponibilità finanziarie provenienti dalle imprese industriali e dalle banche a dominare grandemente gli scambi di Borsa è naturale supporre che i principali «perdenti» di un ciclo di borsa negativo sia, in definitiva, il pubblico «anonimo» dei piccoli e medi risparmiatori, in altre epoche definiti significativamente «parco-buoi».

 

 

33. Le caratteristiche dei cicli economici. Il sistema economico capitalistico procede per cicli ma la linea di tendenza di fondo dello sviluppo economico determinata essenzialmente dalla divisione del lavoro e dal progresso tecnico che sono alla base dell’incremento della produttività tecnico-economica delle imprese fa sì che difficilmente un ciclo economico sia uguale a quello appena passato o possa essere uguale a quello immediatamente seguente. Così come i modelli di sviluppo sono irripetibili anche i cicli economici sono largamente irripetibili e soltanto le grandezze economiche interessate al ciclo possono essere evidenziate con una certa precisione e costanza.

Lo sviluppo economico del primo capitalismo, definito «classico» nel presente Libro, è avvenuto in larga misura in modo spontaneo nel Regno Unito e direttamente sostenuto dallo Stato nella Germania e nei Paesi Bassi nel corso del secolo XIX. In questa fase dello sviluppo economico il principale problema per le imprese capitalistiche o che stavano attrezzandosi per diventare tali era costituito dall’accumulazione del capitale da investire nei nuovi impianti industriali. L’organizzazione economica delle imprese capitalistiche era ancora in massima parte affidata alla figura del capitalista-imprenditore che finanziava l’attività economica e dirigeva, certo con fidati collaboratori, la gestione dell’impresa o delle imprese che a lui facevano capo. La riunione in ampi complessi produttivi di un numero elevato di addetti, «strappati» all’agricoltura o all’artigianato, poneva il problema dell’organizzazione della produzione nel modo più efficiente possibile mentre l’assenza, alcune volte imposta per legge, di organizzazioni sindacali lasciava il lavoratore «a giornata» completamente nelle mani dell’imprenditore-capitalista sia per ciò che riguardava le condizioni di lavoro, che il salario e la durata della giornata di lavoro. La mancata protezione «sociale» del lavoro da parte di leggi adeguate consentiva all’imprenditore-capitalista di sfruttare al massimo la cosiddetta forza-lavoro chiamando alla produzione non solo gli adulti ma anche i minori di età che potevano entrare nel processo di produzione quasi come dei semplici «accessori». Non vi erano nè assicurazioni obbligatorie per i lavoratori da parte degli imprenditori, nè pensioni più o meno sociali, nè indennità di malattia o maternità ed in più anche le condizioni generali di vita non erano precisamente improntate al rispetto della libertà e della dignità dell’uomo come solennemente indicato nei due principali «Manifesti» politici del secolo XVIII quali la Dichiarazione d’Indipendenza delle Stati Uniti d’America e la Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo conseguente alla Rivoluzione Francese. In queste condizioni socio-economiche lo sviluppo del sistema economico delle imprese avveniva principalmente per effetto dei progressi della tecnica dei quali tuttavia beneficiava in massima parte l’imprenditore-capitalista conseguendo profitti enormi che venivano solitamente investiti in nuovi processi produttivi.

Le fasi del ciclo economico relative alla ripresa e all’espansione sono caratterizzate, in un tale contesto, da un modesto aumento dei prezzi, da una crescita degli investimenti molto sostenuta e da un incremento altrettanto sostenuto nell’occupazione, almeno per quanto attiene al settore industriale mentre le fasi relative alla crisi e alla recessione sono caratterizzate da una riduzione dei prezzi, degli investimenti e dell’occupazione.

Per connotare un ciclo economico nelle sue diverse fasi è opportuno analizzare almeno quattro grandi variabili che sono:

1) i prezzi

2) l’occupazione

3) la distribuzione del reddito

4) i rapporti fra le imprese

 

L’andamento dei prezzi è normalmente analizzato attraverso due strumenti, o ipotesi di lavoro che sono l’inflazione e la deflazione. Nel caso dell’inflazione vi è un aumento dei prezzi, nella deflazione una diminuzione e classicamente l’inflazione si verifica nel corso delle fasi di ripresa ed espansione mentre la deflazione di verifica nelle fasi di crisi e recessione.

Il fenomeno della diminuzione dei prezzi è sempre stato transitorio nelle economie capitalistiche e, storicamente, si è assistito piuttosto ad un incremento, in alcuni momenti lieve ed in altri più sostenuto. Probabilmente in conseguenza di questo fatto ma anche da quello che un aumento dei prezzi ha effetti maggiormente negativi l’attenzione è quasi sempre stata rivolta al fenomeno dell’inflazione.

Del fenomeno economico dell’inflazione sono state individuate numerose cause ma la «sistemazione» teorica dell’economia ne ha elaborato in particolare quattro, vale a dire:

a) inflazione «monetaria»

b) inflazione da costi

c) inflazione da salari

d) inflazione da domanda

 

L’inflazione di origine «monetaria» rappresenta, probabilmente, il più classico e, in una certa misura, il più ovvio esempio di inflazione. In questo meccanismo di ascesa dei prezzi il fattore più importante sembra essere la crescita dei mezzi di pagamento nel sistema economico, sia quelli relativi alla carta moneta che quelli relativi al credito.

In prima istanza l’inflazione di origine «monetaria» fa riferimento al mercato della moneta, quindi alla struttura della domanda e dell’offerta di moneta. La domanda della moneta, o come definita da Keynes, la «preferenza per la liquidità» è l’impulso, variamente motivato, a detenere moneta liquida anziché spenderla in merci e servizi. L’offerta di moneta arriva direttamente dallo Stato emittente nuove banconote per pagare propri debiti ovvero dal sistema bancario che, riducendo il saggio d’interesse sui prestiti o comunque facilitando il credito, determina un incremento della liquidità nel sistema economico.

La domanda e l’offerta di moneta hanno origini differenti ma è possibile associare alla domanda di moneta le imprese operanti nel sistema e i comuni cittadini che si servono della medesima sostanzialmente come mezzo di pagamento mentre è possibile associare all’offerta di moneta lo Stato e il sistema bancario che crea in modo indipendente e attraverso la funzione creditizia mezzi di pagamento per il sistema economico.

Domanda e offerta di moneta però non rappresentano dei fenomeni per così dire «speculari» e contrapposti in quanto pur avendo in comune l’oggetto, la moneta appunto, sono fondati su presupposti completamente differenti.

Per gli operatori del mercato, imprese e comuni cittadini, la moneta serve come mezzo di pagamento, come riserva di mezzi liquidi per affrontare improvvisi fabbisogni e come mezzo per acquisire altre attività finanziarie, quindi con una funzione eminentemente speculativa e direttamente collegata al rendimento degli investimenti finanziari. La fonte dalla quale perviene la domanda di moneta implica un mutamento nella struttura «logica» del mercato della moneta in quanto intervengono nel meccanismo di formazione di tale domanda fattori non propriamente «monetari» quali sono in sostanza la posizione economica e patrimoniale sia delle imprese che dei cittadini i quali ultimi sono poi in pratica coloro che ricevono i redditi che le prime distribuiscono alla fine del processo produttivo. La domanda di moneta, in definitiva, proviene direttamente da quello che gli economisti sono soliti chiamare «settore reale» dell’economia.

L’offerta di moneta segue logiche differenti. In primo luogo lo Stato emette banconote per le proprie esigenze di tesoreria e quindi, in sostanza, per finanziare le spese sia correnti che strutturali ma nei sistemi economici capitalistici diventa particolarmente importante l’andamento della moneta bancaria ossia dei prestiti bancari e, in generale, dell’incremento dei mezzi di pagamento «bancari», quali assegni e bonifici, che le aziende di credito mettono a disposizione di aziende e cittadini al fine di incrementare la propria attività economica consistente, come già detto in altro capitolo, in attività di raccolta di denaro e concessione del credito ma non già come semplici intermediari bensì come veri e propri «creatori» di mezzi di pagamento.

L’origine dell’inflazione monetaria deriva dall’asimmetria fra domanda e offerta di moneta, asimmetria che riposa sulla circostanza che anche l’offerta di moneta in realtà è una forma nemmeno troppo camuffata di domanda: lo Stato emette moneta per pagare delle proprie spese, quindi per finanziarsi e le banche incrementano il credito concesso con l’intento di incrementare i depositi e quindi la struttura economico-patrimoniale.

I prezzi fissati dalle imprese, che sono espressi normalmente in termini monetari, dovrebbero derivare in modo diretto dalle condizioni economiche delle medesime e eventuali oscillazioni provenire solamente da variazioni intervenute in tali condizioni economiche ma l’incremento dell’offerta di moneta, ma meglio sarebbe dire della domanda di moneta da parte di Stato e sistema bancario, può alterare il meccanismo di formazione di tali prezzi sotto il profilo «nominale».

L’influenza della variazione della quantità di moneta emessa dallo Stato e del volume del credito concesso dalle banche alle imprese, ma anche ai comuni cittadini per i loro consumi, sulla formazione dei prezzi dipende molto dalla struttura finanziaria delle imprese. In particolare se le medesime sono poco «capitalizzate», ovvero se il finanziamento della produzione avviene in larga parte attraverso il credito è chiaro che anche piccole variazioni del saggio d’interesse chiesto dalle banche può determinare un peggioramento sensibile nelle condizioni economiche con il che le imprese reagiranno verosimilmente con un incremento dei prezzi delle merci e dei servizi prodotti, a meno che non vi siano le prospettive per un incremento relativamente duraturo dei consumi in grado di giustificare nuovi investimenti e quindi nuovi flussi di produzione. In ogni caso un incremento dei saggi d’interesse sui prestiti bancari implica un cambiamento nella struttura del valore aggiunto distribuito, con una riduzione dei profitti a favore degli oneri finanziari.

L’altra grande variabile dell’offerta di moneta è data dallo Stato, quindi dal suo bilancio di cassa costituito nella parte attiva da tributi sul reddito e sui consumi e nella parte passiva dalle spese pubbliche per il mantenimento della struttura e per gli investimenti più propriamente in infrastrutture.

L’incremento delle spese pubbliche implica un incremento della liquidità nel sistema, almeno in linea tendenziale. Lo stato in effetti potrebbe finanziarsi attraverso l’emissione di titoli pubblici ed in tal modo assorbire una parte della domanda di moneta di imprese, banche e pubblico dei risparmiatori ma normalmente non rinuncia all’emissione di quantità aggiuntive di moneta le quali, per il solo fatto di aggiungersi alla disponibilità corrente, determinano una riduzione del potere d’acquisto che significa in pratica un aumento dei prezzi, almeno sotto il profilo nominale.

Anche in questo caso la politica economica delle imprese risente della loro posizione economica e finanziaria e non vi è dubbio che maggiori sono le dimensioni delle imprese e maggiore, più di tutto, è la loro solidità economico-finanziaria minori sono i rischi di una inflazione derivante dall’incremento della quantità di moneta nel sistema economico, da qualunque parte essa provenga. La stessa domanda di moneta da parte delle imprese ha diverso significato e diverso effetto se fatta in condizioni precarie dal punto di vista finanziario-patrimoniale ovvero se fatte in condizioni finanziarie solide. Nel primo caso la domanda di moneta serve più di tutto per pareggiare posizioni debitorie e evitare, in molti casi, il collasso finanziario ed economico mentre nel secondo ha origine da motivi di finanziamento della produzione e degli scambi.

Da un certo punto di vista l’inflazione da costi e quella da salari sono in molti casi la medesima cosa in quanto per l’impresa i salari sono un costo ma è chiaro che gli incrementi dei costi, salari esclusi, seguono un proprio corso in molti casi differente.

Il caso più importante di aumento dei costi per i sistemi capitalistici sono un aumento dei prezzi delle materie prime e delle fonti di energia: in nessuno dei due casi è possibile, infatti, per la generalità delle imprese sottrarsi ad un aumento dei costi di acquisto di una proporzione molto forte dei fattori produttivi utilizzati nel processo di produzione e spesso si assiste, in presenza di tali incrementi, a vere e proprie ristrutturazioni industriali che hanno lo scopo d’ingrandire una certa impresa affinché la medesima, crescendo in struttura economica, finanziaria e patrimoniale, disponga di mezzi più potenti per contrastare il declino della propria «produttività» aziendale che significa in prima istanza un declino dei profitti.

L’incremento del prezzo delle materie prime e delle fonti di energia è un tipico esempio di «dialettica fra le imprese» del sistema capitalistico in quanto consente di trasferire la ricchezza prodotta in un settore, quello industriale, commerciale e dei servizi, in un altro settore, quello «primario» e quindi, in qualche misura, di «riequilibrare» l’assetto economico istituzionale nel sistema complessivamente inteso. Tale riequilibrio, tuttavia, non è così automatico come si sarebbe portati a prima vista pensare in quanto le imprese industriali, almeno in parte, cercano di contrastare il deflusso di risorse economiche verso le imprese di produzione di materie prime e fonti energetiche attraverso strategie aziendali composite che vanno dai rapporti con le imprese di materie prime, all’organizzazione interna e all’incremento più o meno diffuso dei prezzi al consumo. I quali incrementi dei prezzi saranno però più o meno sostenuti a seconda delle dimensioni e della effettiva struttura economico-patrimoniale delle imprese industriali coinvolte nel processo di aumenti dei prezzi. Inoltre il fatto che la distribuzione geografica delle materie prime e delle fonti di energia non corrisponda alla distribuzione geografica dello sviluppo economico, se non in casi limitati, determina di fatto forti tensioni inflazionistiche in quei paesi industrializzati meno autonomi.

L’incremento dei salari del lavoro come fonte autonoma di incremento dei prezzi riposa sulla medesima circostanza della solidità economica e patrimoniale delle imprese e sulla loro capacità di affrontare i problemi relativi allo sviluppo della propria struttura non in termini effimeri e demagogici ma duraturi e reali. In più l’incremento dei salari porta con sè due grandi problemi non solo per l’impresa ma, in generale, per tutta la società. Il primo è costituito dal fatto che il lavoro, essendo il fattore della produzione senza il quale la medesima non può aver luogo, incide in modo diretto e imponente sulla produttività del sistema d’impresa e il secondo dal fatto che l’incremento dei salari più alto non tanto della produttività tecnica quanto della produttività economica, quindi delle risorse complessivamente prodotte dall’impresa, determina una riduzione del valore aggiunto disponibile per la remunerazione del capitale, e segnatamente del capitale di rischio. Per tale secondo motivo le imprese intraprendono, per quanto in loro potere, una ristrutturazione interna che prevede l’eliminazione della forza-lavoro da sostituire con mezzi tecnici ma soprattutto nell’immediato con una riduzione della utilizzazione della capacità produttiva. L’incremento dei salari si risolve allora in un incremento della disoccupazione che costituisce un altro dato importante nella valutazione dell’evoluzione del ciclo economico.

L’inflazione da salari rappresenta anche il tipico esempio dei mutevoli rapporti che si generano nelle diverse fasi cicliche di una economia capitalistica, fasi cicliche economiche che non sono mai disgiunte da una determinata evoluzione del resto della società ma anzi con quella intimamente connessa. E se non vogliamo proprio dire che le modifiche «strutturali» della società dipendono interamente dalle modifiche economiche in quanto la natura umana non vive di semplici impulsi economici, sicuramente però le condizioni economiche hanno un forte condizionamento nell’andamento delle questioni sociali e politiche.

In un tale contesto l’inflazione da salari rappresenta in molti casi più che un fenomeno economico un fenomeno sociale e politico che esprime le tensioni che vengono a crearsi nella distribuzione della ricchezza prodotta e poiché nel sistema capitalistico la ricchezza è prevalentemente prodotta dalle imprese attraverso la «cooperazione» del lavoro e del capitale l’incremento dei salari e il conseguente incremento dei prezzi dei beni e dei servizi messi in commercio esprime forse meglio di qualunque altro esempio da un lato il carattere eminentemente «strumentale» dell’impresa economica e dall’altro l’uso più o meno legittimo che di tale strumento, istituito per la creazione e la distribuzione della ricchezza, ne fanno i lavoratori, gli imprenditori e tutti coloro che in qualche misura ne traggono le loro sostanze economiche.

In ogni caso la valutazione dell’impatto dell’incremento dei salari sui prezzi non può essere fatta mantenendo inalterate le rimanenti condizioni di equilibrio dell’impresa per il semplice ed assorbente motivo che nel sistema capitalistico, anche non particolarmente sviluppato, le imprese si trovano sempre, per così dire, in una posizione di equilibrio «dinamico» o, come riferito nel Capitolo Secondo dedicato alla dimensione dell’impresa, in una posizione di equilibrio a valere nel tempo determinato comunque dall’ordine combinatorio, sistematico e di composizione. In altri termini l’impresa capitalistica ha sempre in atto propri programmi di sviluppo che esigono una gestione attenta di tutte le variabili economiche, patrimoniali, finanziarie e organizzative che incidono sull’equilibrio durevole sicché un incremento dei salari che porti a forti aumenti dei prezzi e a forti incrementi della disoccupazione costituiscono più che altro il sintomo di una debolezza strutturale delle imprese, dove per debolezza strutturale non si intende solamente quella economica ma anche quella organizzativa.

Seguendo questa linea di pensiero la «responsabilità» dell’inflazione sarebbe da attribuire comunque alle imprese ma è chiaro che la questione è molto più complessa. In effetti l’esistenza dei sindacati dei lavoratori, quindi di una organizzazione preposta per definizione alla «difesa» degli interessi delle classi lavoratrici, implica la negoziazione di un salario «collettivo» che può non tenere in adeguato conto le condizioni economiche delle imprese, partendo dalla considerazione aprioristica che in ogni caso al lavoratore poco interessano (o dovrebbero interessare) gli effettivi piani di sviluppo aziendale, a meno che questi non pregiudichino in modo deliberato il posto di lavoro o il salario. Ma se si compie uno sforzo d’analisi appena più approfondito si può sempre notare come richieste persistenti e «pretestuose» di incremento dei salari da parte di sindacati più o meno potenti sotto il profilo organizzativo hanno «successo» solamente se le imprese e chi le dirige, per motivi diversi, non hanno le capacità organizzative ed economiche per far fronte alle richieste dei lavoratori sicché da un lato il «gruppo dirigente» dell’impresa concede gli incrementi richiesti senza contrapporre reali piani di sviluppo o ristrutturazione e dall’altro cerca di trovare, a livello strettamente personale, all’interno dell’organizzazione dell’impresa quelle risorse economiche che gli consentano di abbandonare l’azienda senza subire troppi danni economici, andando a cercare altrove «fortuna». In questo caso l’inflazione più che responsabilità di un’entità «tecnica» come le imprese è il riflesso delle debolezze strutturali del sistema economico e dell’incapacità delle imprese di quel sistema di avere alla direzione persone capaci di una gestione che possa definirsi tale sotto il profilo economico, patrimoniale e organizzativo. Così alla posizione demagogica dei sindacati dei lavoratori si somma una posizione altrettanto demagogica della classe «imprenditoriale» e «dirigente» che continua ad utilizzare le imprese con un fenomeno «familiare» o poco di più e l’incremento dei prezzi diviene la via più breve per tentare di risolvere il problema dell’equilibrio economico dell’impresa, tentativo che però spesso, date le premesse, non ha alcuna riuscita.

L’ultima tipologia d’inflazione indicata nell’elenco più sopra esposto riguarda la domanda e, trattando di cicli economici, è riferibile sempre alla domanda aggregata per consumi e investimenti posta in atto in un determinato periodo di tempo.

L’incremento della domanda per consumi è di per sé un fattore che induce le imprese ad accrescere i prezzi delle merci e servizi immessi sul mercato. Normalmente le imprese di più grandi dimensioni, come già ripetutamente sottolineato, svolgono una imponente opera di programmazione che include anche l’andamento delle vendite sicché non dovrebbero essere colte di sorpresa da un eventuale aumento della domanda ma a parte il fatto che le previsioni possono non rivelarsi corrette il fenomeno dell’incremento della domanda globale per consumi e investimenti è di carattere essenzialmente macroeconomico ed include non solo la spesa per merci e servizi «privati» ma anche per beni pubblici. In pratica una frazione più elevata dei redditi percepiti e, in alcuni casi, la diminuzione di risparmi precedentemente accumulati immettono sul mercato dei beni e dei servizi consumati una liquidità «aggiuntiva» che provoca inevitabilmente una tensione sui prezzi.

Il realizzarsi concreto dell’inflazione da domanda dipende molto dallo stato dell’occupazione dei fattori della produzione e della loro più o meno forte capacità ad adattarsi alle nuove esigenze produttive. Se le imprese, per esempio, hanno scorte sufficienti per sopperire all’incremento «imprevisto» della domanda la tensione sui prezzi non dovrebbe essere molto forte ma poiché l’economia dell’impresa è, come già visto, non semplicemente un fatto economico ma anche politico e sociale è altamente probabile che alcune imprese, non importa se grandi o piccole, cerchino di sfruttare il più possibile l’incremento della domanda con un corrispondente aumento dei prezzi in modo da incrementare, per quanto possibile, il valore aggiunto prodotto e, per conseguenza, i profitti realizzati.

La concezione «classica» d’impostazione keynesiana distingue un incremento della domanda in presenza di fattori della produzione interamente occupati e in presenza di disoccupazione dei fattori produttivi e precisa che l’inflazione da domanda si realizza soprattutto quando i fattori della produzione sono interamente occupati. Probabilmente la posizione di Keynes è corretta ma è sempre necessario tenere in considerazione che l’organizzazione delle imprese, e segnatamente delle imprese capitalistiche, è in costante movimento sicché il concetto di piena occupazione se è chiaro da un punto di vista strettamente teorico può non esserlo nella pratica. In effetti le imprese possono trovare una carenza di fattori della produzione, soprattutto lavoro specializzato nel sistema capitalistico, ma la natura stessa dell’impresa, le sue dimensioni e la sua organizzazione economica potente e raffinata normalmente sono tutti elementi che tendono, attraverso lo strumento «tecnico» della «politica commerciale», a creare una continua domanda di beni e servizi destinati al consumo con il ché riesce difficile immaginare un sistema capitalistico nel quale, a fronte di un mercato del consumo crescente, vi siano «difficoltà produttive» per le imprese. E’ ovvio, tuttavia, che nel corso del tempo nel sistema economico si realizza un andamento ciclico dei consumi che può mettere le imprese, nelle fasi di massima espansione, nelle condizioni economiche di poter incrementare i prezzi ma la struttura oligopolista prevalente nel sistema economico determina un comportamento «rialzista» anche quando i fattori della produzione non sono interamente occupati e a fronte di un incremento della quantità prodotta vi è un incremento dell’occupazione nella singola impresa.

Riassunte in modo così sintetico le determinanti dell’inflazione e le diverse configurazioni nel sistema economico è ora necessario introdurre il fenomeno della disoccupazione nell’analisi delle caratteristiche dei cicli economici.

Forse più dell’inflazione il fenomeno della disoccupazione è un fenomeno complesso e non sempre gli strumenti analitici forniti dalle diverse «scuole di pensiero» dell’economia teorica sono in grado di penetrarne il reale significato e la reale dinamica. Il principale ostacolo che si frappone alla effettiva comprensione del fenomeno in oggetto è dato, probabilmente, dalla completa e assoluta rimozione nell’analisi teorica di quello che è in realtà uno dei due fattori principali dell’andamento occupazionale nell’economia, vale a dire l’azione politica, sociale ed economica dei sindacati dei lavoratori. L’altro fattore è determinato dalle esigenze di utilizzazione delle capacità produttive da parte delle imprese, quindi dal mutevole andamento economico, finanziario e patrimoniale che consegue direttamente dalle strategie, se vi sono, e più in generale dai comportamenti «gestionali» delle imprese.

L’introduzione del «mercato del lavoro» costituisce, insieme all’assetto strutturale delle imprese, la principale fonte di demarcazione fra le diverse economie capitalistiche. In effetti i mutevoli rapporti fra l’assetto «sindacale» e l’assetto delle imprese sono alla base delle differenti intensità con le quali i cicli economici investono i diversi sistemi economici nazionali rendendo soprattutto le crisi economiche particolarmente difficili in alcuni piuttosto che in altri.

Nel sistema capitalistico il mercato del lavoro può essere considerato, per definizione, un mercato di «specialisti» e, in particolare, con il progresso tecnico-produttivo, un mercato caratterizzato da un crescente livello di istruzione che comporta, di fatto, una modifica radicale nella organizzazione produttiva delle imprese.

In ciascun Paese nel quale il sistema capitalistico si è sviluppato vi è un ben definito rapporto fra il sistema socio-culturale e politico e il cosiddetto sistema delle relazioni industriali, sistema che definisce in pratica il rapporto dialettico fra il sindacato dei lavoratori e le imprese. E’ chiaro quindi che l’andamento della disoccupazione, o se si preferisce dell’occupazione, è fortemente condizionato dal suddetto sistema, a parte l’ovvia considerazione che la crescita economica comporta verosimilmente un incremento dell’occupazione e viceversa la recessione economica. Ma come si è già più sopra notato difficilmente un ciclo economico si ripete in modo automatico e immutabile, piuttosto innestandosi in un movimento di fondo di sviluppo del sistema economico considerato nel suo complesso. In questo modo l’andamento dell’occupazione dipende in primo luogo delle «esigenze» delle imprese e dalle relazioni che fra la direzione delle medesime viene a crearsi con i sindacati dei lavoratori.

L’impresa capitalistica è una organizzazione di mezzi e di uomini preordinata all’ottenimento di un equilibrio economico a valere nel tempo e se l’esistenza di un profitto costituisce una irrinunciabile condizione di sopravvivenza e di sviluppo sicuramente l’incremento dell’apparato tecnico-amministrativo modifica non poco il significato per così dire «culturale» e politico del profitto in quanto ciò che conta effettivamente diviene la continuità aziendale che è in sostanza ciò che conferisce potere a coloro che amministrano in pratica, reggendone le sorti, le imprese.

L’azione politica ed economica dei sindacati si inserisce in questa struttura logica dell’organizzazione dell’impresa.

Tendenzialmente vi possono essere diverse situazioni di relazioni industriali che cambiano a seconda del grado di sindacalizzazione, dell’accettazione o meno a livello politico del sindacato e, ovviamente, del grado di «politicizzazione» del medesimo. In particolare si può avere:

 

a) un sindacato forte e politicamente rilevante ma con un grado di conflittualità tendenzialmente basso;

b) un sindacato forte e politicamente rilevante unito ad un alto grado di conflittualità;

c) un sindacato debole e non molto rilevante che, per conseguenza, non è in grado di determinare una diffusa conflittualità con il sistema delle imprese.

Dal punto di vista delle relazioni industriali ma anche dell’andamento dell’occupazione il caso a) sembrerebbe essere quello ottimale. In tale sistema il salario dei lavoratori è oggetto di una contrattazione collettiva fortemente «centralizzata» ma, più di tutto, accettata politicamente e socialmente non soltanto dal sindacato ma anche dalle imprese e dall’apparato politico-istituzionale per cui, se proprio non si perviene ad una completa «pace sociale», in ogni caso i conflitti potenzialmente nascenti dal rapporto impresa-lavoratori sono, nella maggioranza dei casi, controllati dal buon funzionamento delle relazioni industriali.

Questo tipo di «modello» dà l’opportunità alle imprese operanti in quel determinato sistema economico di avere notevoli certezze non solo quanto a «ragionevolezza» delle richieste di aumenti salariali ma anche in relazione alla «gestione» complessiva della forza-lavoro, quindi alla sua adattabilità alle mutevoli esigenze della gestione. Poiché il rischio e l’incertezza costituiscono le insidie più grandi dell’equilibrio economico la circostanza di disporre di un importante elemento di certezza quale è l’azione politico-sindacale costituisce un fatto non certamente trascurabile nella gestione dell’impresa e nel conseguimento degli obiettivi economici che essa si pone. E anche chiaro che se tale comportamento è generalizzato nel sistema economico si viene a creare in modo praticamente automatico un fattore di stabilità economica che certamente non elimina il ciclo economico ma ne corregge di molto le punte più alte della recessione e dell’espansione. E quanto più sono contenute la recessione e l’espansione tanto più il fenomeno della disoccupazione, ma in generale di tutti i parametri che caratterizzano il ciclo, diviene un fenomeno socialmente, politicamente e economicamente «controllato».

Nel caso b) in cui il sindacato è una organizzazione potente sia sotto il profilo organizzativo che quello politico ma incontra altrettanto forti resistenze nelle imprese e nelle istituzioni che, verosimilmente, dispongono di una struttura organizzativa altrettanto potente e «persuasiva» il conflitto economico, politico e sociale è sempre latente e, in qualche modo, pronto ad esplodere.

L’andamento conflittuale dipende essenzialmente da due circostanze che sono la recessione economica e le politiche aziendali messe in atto dalla generalità delle imprese per prevenire o attenuare le fasi di depressione.

In un sistema economico caratterizzato da un sindacato fortemente politicizzato, non necessariamente però orientato verso una specifica ideologia, le fasi di recessione economica sono spesso avvertite come una conseguenza diretta e immediata dell’inettitudine di istituzioni e imprese di governare l’economia in modo consapevole con il ché la responsabilità delle crisi economiche più che a fattori economici è addebitata a fattori politici e istituzionali e a maggior ragione una responsabilità politica ed istituzionale viene rinvenuta per la disoccupazione che solo occasionalmente diventa un fenomeno economico assumendo più spesso una carattere sociale e politico.

In questo contesto, caratterizzato anche dalla centralizzazione della contrattazione salariale, difficilmente il salario ma, in generale, il costo del lavoro per le imprese diviene una variabile dipendente e la stessa utilizzazione della forza-lavoro è fortemente condizionata dalla posizione sindacale e, conseguentemente, dalle leggi dello stato.

La soluzione del conflitto si risolve in una maggiore o minore disoccupazione a seconda della struttura economica delle imprese: in particolare se il sistema economico è dotato di una forte e capace «imprenditorialità» e da dimensioni medio-alte delle imprese è probabile che il fenomeno della disoccupazione sia contenuto nelle fasi di recessione economica mentre la carenza di una «vocazione» imprenditoriale e, forse più di tutto, di imprese di una dimensione economico-finanziaria di una certa rilevanza è probabile che determini una forte disoccupazione, intesa sia come espulsione di forza-lavoro dalle imprese che come mancato ingresso di «giovani» nel mercato del lavoro.

Normalmente in questa situazione-tipo l’aumento della disoccupazione è segnato anche dall’aumento dei prezzi come tentativo delle imprese di recuperare, almeno in parte, posizioni economiche compromesse dall’incremento dei salari e, ovviamente, dalla diminuzione del personale.

In ogni caso è importante ribadire che sono le condizioni economiche delle imprese e le loro scelte di gestione a influenzare in grande parte l’andamento della controversia con i sindacati dei lavoratori.

Sia però nel primo caso che in questo l’esistenza di una contrattazione collettiva centralizzata, che quindi mira a determinare condizioni salariali e di lavoro il più possibile uniformi in tutto il sistema economico, determina un notevole condizionamento sia dell’azione sindacale che delle politiche «amministrative» delle imprese che, in misura non certo trascurabile, si trovano a gestire un sistema improntato a una grande rigidità.

In tale contesto, almeno sotto il profilo formale, dovrebbero essere maggiormente tutelati gli interessi economici e sociali delle classi lavoratrici ma se da un lato l’intrinseca debolezza economico-contrattuale delle classi lavoratrici rende necessaria un’azione sindacale potente dall’altro sia il sindacato come organizzazione sia, in misura minore ma comunque rilevante, le imprese si trovano alle prese con fattori non indifferenti di rigidità specificatamente inerenti al funzionamento della struttura organizzativa che possono ostacolare la ripresa economica prolungando «artificialmente» la fase di recessione.

La disoccupazione, come un po’ tutti gli altri fenomeni economici, meriterebbe forse, nel contesto sopra descritto, un approccio un poco più pragmatico e un poco meno ideologico e questo senza che le classi lavoratrici debbano rinunciare ad incrementi di salari e, in generale, a migliori condizioni di lavoro e migliori condizioni di vita, anche fuori dal posto di lavoro.

Quando il sindacato è debole, come indicato nel punto c), anche la conflittualità economica e sociale è debole e normalmente non è nemmeno prevista una contrattazione collettiva che determina salari e condizioni di lavoro per tutto il sistema prevalendo invece in modo netto una contrattazione «aziendale» dove il sindacato, quindi, si trova difronte non solo lavoratori di uno specifico settore ma condizioni economiche e per così dire «istituzionali» che possono essere le più diverse.

Un elemento di uniformità è certamente dato dal comportamento sostanzialmente omogeneo che le imprese tengono nell’ambito delle relazioni industriali ma tale omogeneità dipende molto dalle condizioni economiche delle imprese e dall’ambiente socio-politico in cui si trovano ad operare.

In tale sistema di relazioni industriali la disoccupazione costituisce un problema economico ma né le istituzioni politiche né, in fondo, i sindacati dei lavoratori hanno la forza e la volontà politica necessarie per rendere il fenomeno «urgente». La mancanza di «sensibilità» al problema occupazionale deriva probabilmente da un concezione della vita economica, sociale e politica fondata su un certo grado di individualismo e in ogni caso sulla certezza, almeno nel lungo periodo, dell’efficace funzionamento del mercato, compreso quello del lavoro.

I fenomeni economici dell’inflazione e della disoccupazione hanno diretta rilevanza negli altri due elementi caratteristici del ciclo economico: la distribuzione del reddito e i rapporti fra le grandi e le piccole imprese.

Entrambi i fenomeni sono stati già in parte analizzati nel Capitolo Sesto dedicato all’origine del profitto ed è qui necessario richiamarli al fine di integrare quelle conclusioni con gli andamenti ciclici dell’economia.

Il richiamo più opportuno è costituito indubbiamente dall’espressione (10) del capitolo indicato, vale a dire

 

         (1)           yt g p - yt h p + rc AF = PR + A + t N w

 

che rappresenta sempre le condizioni di equilibrio economico per ogni impresa.

L’elemento che caratterizza il carattere ciclico della produzione economica dell’impresa è indubbiamente dato dal flusso di produzione e, con esso, dalla variabilità nel tempo degli investimenti, dei profitti e dei redditi da lavoro.

L’andamento ciclico della produzione dipende, come già visto, dalla produttività tecnica (e quindi dalle condizioni tecniche di produzione, in primo luogo divisione del lavoro e progresso tecnico) ma, forse soprattutto, dalla capacità dell’impresa sia di espandere il proprio mercato sia di mantenere un congruo rapporto fra flusso di produzione e flusso delle vendite affinché le giacenze non diventino o troppo scarse o troppo abbondanti danneggiando in tal modo sia l’equilibrio economico che quello finanziario e patrimoniale.

I meccanismi economici che presiedono alla distribuzione del reddito sono in precisi rapporti di causa ed effetto con l’andamento ciclico della produzione, intesa sia dal punto di vista tecnico che, più generale, dal punto di vista economico, quindi come creazione di ricchezza.

Partendo dal presupposto che l’iniziativa economica deriva nel sistema capitalistico da chi amministra l’impresa lo sviluppo dell’attività produttiva è determinato in prima istanza dal volume e dalla qualità degli investimenti produttivi e, immediatamente dopo, dal grado di utilizzazione della capacità produttiva esistente.

Ciò che interessa in questa parte dell’analisi economica non sono tanto le motivazioni dell’investimento o del grado di utilizzazione della capacità produttiva quanto valutare gli effetti dell’andamento ciclico sui redditi prodotti e distribuiti dalle imprese, tenendo conto dei vari assetti istituzionali nei quali le medesime si trovano ad operare.

Riprendendo e semplificando l’analisi svolta nel precedente paragrafo 30) del presente capitolo, l’equazione (1) può essere semplicemente riscritta nella formulazione seguente:

 

   (2)      (yt g p - yt h p) l + rc AF = PR + A + t N w

 

nella quale l indica il grado di utilizzazione della capacità produttiva. L’espressione (2), è forse bene ricordarlo, riguarda l’intero ciclo di vita degli impianti presi in esame, quindi quel tempo necessario all’impresa per recuperare economicamente i costi sostenuti per l’acquisto.

Un elementare passaggio algebrico trasforma l’espressione (2) nel rapporto seguente:

 

                               A + t N w + PR - rc AF

                   l = -------------------------------------

                                      yt p ( g - h )

 

 

che nella sua semplicità estrema indica le condizioni essenziali per l’economicità della gestione e, ovviamente, il grado di utilizzazione della capacità produttiva per così dire di equilibrio.

Nella formulazione dei loro programmi di sviluppo le imprese determinano anzitutto la concreta possibilità di incrementare le vendite, quindi il paramento «yt p g» e, conseguentemente, la qualità e la quantità di investimenti produttivi giudicata più conveniente ai fini del mantenimento dell’equilibrio economico. Nella valutazione economica dell’equilibrio del piano economico viene quindi definita la qualità e la quantità di lavoro necessaria, ovviamente il prezzo di vendita, la quantità e la qualità dei beni e servizi acquistabili da altre imprese e, ovviamente, il profitto atteso.

Nella normalità delle condizioni di produzione capitalistiche avviene che l’incremento degli investimenti produttivi è sempre inferiore all’incremento che si ottiene del flusso di produzione, entrambi espressi in percentuale, sicchè secondo l’espressione più sopra descritta si viene a creare, tendenzialmente, un maggior volume di risorse economiche da destinare ai profitti e ai redditi da lavoro. In effetti questo maggior volume di risorse economiche può essere in tutto o in parte sterilizzato dalla riduzione del grado di utilizzazione della capacità produttiva, conseguenti, per esempio ad un incremento della cosiddetta conflittualità aziendale ovvero può essere «sottratto» all’economia dell’impresa da un incremento dei costi di materie prime e servizi che incrementa pertanto la quota di beni intermedi diminuendo il valore aggiunto prodotto.

Se durante il normale ciclo di vita dell’impianto la capacità produttiva si riduce l’impresa non può comunque ridurre il costo di acquisto dell’impianto che ha dovuto sostenere in anticipo sull’utilizzazione nel processo produttivo: per conseguenza il termine A diviene un elemento di rigidità nelle condizioni di equilibrio, anche nella ipotesi che l’impresa decida di eliminare l’impianto dal processo produttivo. La riduzione della capacità produttiva determina sicuramente una riduzione dell’utilizzazione della forza-lavoro e, con essa, del costo relativo. Ma, come più sopra evidenziato nell’analisi delle relazioni industriali, la riduzione dell’utilizzazione della forza-lavoro non sempre coincide con una diminuzione del costo relativo sicché la modifica alla distribuzione del reddito dipenderà molto dal sistema delle relazioni industriali in vigore.

A questo proposito però vi sono alcune considerazioni da fare. In primo luogo è da notare che nel sistema capitalistico le decisioni relative all’investimento sono una funzione prettamente «aziendale» e quindi sono funzione della continuità aziendale più che dei profitti attesi anche se questi ultimi sono in grado di condizionarli almeno parzialmente. In quanto funzione aziendale le decisioni di investimento sono di fatto separate dalla percezione di un reddito da parte del singolo capitalista-redditiere che, per alcuni periodi può anche rimanere senza reddito senza per questo compromettere le proprie condizioni di vita. In secondo luogo e in conseguenza del fatto appena menzionato una riduzione dei profitti determina un riduzione dell’accumulazione aziendale e quindi un rallentamento dell’attività tecnico-produtttiva che danneggia l’intera struttura. Infine la distribuzione del reddito prodotto dalle imprese presenta una indubbia forma di «diseguaglianza» nel senso che la quota destinata ai reddito da lavoro è normalmente ripartita su un numero di soggetti grandemente più numerosi che non quella destinata ai profitti con la conseguenza immediata che la riduzione di una unità di lavoro determina la cessazione di una fonte di reddito per una persona che, verosimilmente, vive di quel reddito mentre una riduzione dei profitti non determina una medesima cessazione del reddito per chi ha investito nell’impresa, come un «capitalista» o un semplice azionista.

Tali aspetti connessi alla riduzione dell’attività economica valgono, con opposte considerazioni, nel caso di incremento dell’attività anche se in questo caso, normalmente, diviene molto più facile la «gestione» aziendale della distribuzione del reddito prodotto.

L’ultimo aspetto delle caratteristiche dei cicli economici riguarda i rapporti fra le imprese e quindi, in massima parte, fra la diversa dimensione che esse possono assumere.

In prima istanza si può affermare che le maggiori dimensioni economiche e finanziarie assicurano una maggiore capacità all’impresa di affrontare le diverse fasi del ciclo economico: la crisi e la recessione utilizzando le risorse interne alla struttura per contenerne gli effetti negativi, la ripresa e l’espansione utilizzando le medesime risorse per sfruttare al meglio le opportunità che esse presentano.

Ma nel sistema capitalistico le imprese di grandi dimensioni multisettoriali e multinazionali sono in grado, in effetti, di condizionare in qualche misura l’andamento ciclico dell’economia attraverso le loro decisioni di investimento, di innovazione tecnologica, di assunzione o licenziamento di manodopera e, in genere, di tutte le loro scelte gestionali.

Le imprese di piccole e medie dimensioni subiscono in misura maggiore le diverse fasi del ciclo economico e, soprattutto in periodo di recessione, hanno concrete possibilità o di fallire o semplicemente di venire assorbite da una grande impresa, quando questa ritiene opportuna una certa fase della lavorazione del prodotto o una fase inerente all’approvviggionamento di materie prime o alla distribuzione di prodotti finiti.

I rapporti fra le imprese di grandi dimensioni e quelle medio-piccole non si esauriscono però in un tale contesto in quanto il carattere dimensionale è del tutto relativo. Infatti è possibile che una impresa industriale, con una articolata struttura finanziaria che prevede diverse «controllate» e «collegate», sia da ritenersi di grande dimensione in un determinato sistema economico ma che, al medesimo tempo, nel panorama internazionale sia di modeste dimensioni se paragonata con le prime quaranta o cinquanta imprese più grandi. In questo caso quando la recessione economica colpisce diffusamente tutti i sistemi capitalistici quelle imprese che sono grandi nel loro Paese ma hanno dimensioni medie nel contesto internazionale sono esposte per prime ai processi di concentrazione economica e finanziaria dei quali sono protagoniste le imprese maggiori in senso assoluto (o internazionale) alle quali, spesso, sono sufficienti pochi sforzi economico-finanziari (in senso relativo) per acquisire delle prime il cosiddetto pacchetto di maggioranza che dà nella pratica il potere dell’amministrazione.

Come già più sopra evidenziato nel sistema capitalistico la struttura prevalente è quella dell’oligopolio dove poche grandi imprese concentrano sia dal punto di vista produttivo che finanziario le più importanti risorse dell’intero sistema nazionale ma anche internazionale. La formazione dei prezzi, dei profitti e in generale della distribuzione del reddito risente direttamente di una tale struttura. Ma la sostanziale «mobilità» del sistema capitalistico, ossia il suo continuo divenire sia pure contraddistinto da fasi alterne di espansione e di recessione, determina importanti relazioni fra le diverse imprese del sistema economico, e non solo del sistema economico nazionale ma del sistema internazionale.

I rapporti fra le imprese possono riguardare controlli diretti dell’amministrazione, rapporti commerciali, rapporti produttivi, rapporti finanziari e altro ma in generale si assiste ad una posizione di predominio delle grandi imprese capitalistiche su quelle di minori dimensioni, posizioni di predominio che sono soggette a tutte le tensioni e a tutte le incertezze insite in ogni rapporto di potere.

Le imprese che producono energia, per esempio, possono condizionare pesantemente con le loro politiche dei prezzi e della quantità prodotta le imprese industriali produttrici di beni e servizi destinati al consumo e all’investimento così come le grandi imprese industriali condizionano in modo determinante la cosiddetta rete distributiva, vale a dire quella struttura più o meno fitta di imprese che hanno la funzione economica di trasferire le merci dai luoghi di produzione a quelli del consumo. Praticamente tutti i generi di largo consumo che si trovano nei supermercati o in semplici piccole unità distributive sono soggetti alla potente e incessante azione di marketing delle grandi imprese produttrici che non si limita alla determinazione del prezzo ma, per assolvere con efficacia ed efficienza la propria «vocazione», interviene direttamente sui mercati d’acquisto, sui canali di distribuzione, sulla confezione del prodotto, sull’immagine da accreditare presso il pubblico e, in generale, sulla «promozione» del consumo presso il pubblico. E non vi è dubbio che quando un consumatore non trova sugli scaffali del suo supermercato preferito o del suo negozio «di fiducia» quella particolare marca di spaghetti ben pubblicizzata o un altro genere altrettanto evidenziato dai messaggi pubblicitari dei mass-media tende a non considerare particolarmente «fornito» il distributore e, quindi, può essere indotto a rifornirsi presso un’altra unità nella quale non acquisterà solo il genere voluto ma, verosimilmente, anche altri prodotti.

Indipendentemente dal carattere conflittuale o «armonico» che può venirsi a creare fra le imprese appartenenti al sistema capitalistico vi è comunque un dato in qualche modo incontrovertibile e cioè che la grande impresa, proprio in quanto tale, è dotata di una organizzazione potente e sofisticata e per poter funzionare in modo efficiente ha necessità di una incessante azione di programmazione economica la quale determina, in pratica, l’assetto e l’evoluzione non solo della propria struttura ma di tutto ciò che in qualche misura la riguarda e quindi senza dubbio i rapporti che li lega alle altre imprese del sistema economico con le quali vengono allacciati rapporto economici, finanziari e organizzativi. Contrariamente a quanto si suppone generalmente il sistema capitalistico è un grande sistema programmato e non potrebbe essere altrimenti visto che la grande impresa, per il semplice fatto di immettere nel processo produttivo una quantità ingente di mezzi economico-finanziari, ha la necessità di conosce a grandi linee il proprio futuro e di fare quanto in proprio potere affinché le previsioni siano rispettate. L’azione di marketing assolve precisamente a tale scopo. Non è detto che essa abbia sempre successo (altrimenti l’economia sarebbe un «semplice» fenomeno matematico) ma il predisporre un programma di «azione» per il futuro da comunque la possibilità di cogliere e distinguere opportunamente le aree di successo da quelle di insuccesso, magari vagliandone con attenzione i motivi.

I rapporti fra le imprese del sistema capitalistico e la loro connessione con gli andamenti ciclici è probabilmente racchiuso proprio nella funzione di programmazione esercitata dalle imprese di grandi dimensioni, quindi dalle loro strategie produttive, finanziarie e di mercato. Non sempre alle grandi imprese riesce di cogliere i frutti sperati nei termini e nei tempi programmati ma l’andamento ciclico dell’economia e soprattutto la sua stretta connessione con lo sviluppo economico risente in modo determinante delle scelte economiche operate dalle grandi imprese e dalla loro reazione all’ambiente nel quale operano e più le dimensioni delle imprese divengono grandi più si incrementano le pressioni sull’ambiente nel quale si trovano ad operare. Non si tratta semplicemente di un esercizio di potere economico diretto a far accettare nel più alto grado possibile le merci e i servizi prodotti o di indirizzare gli sviluppi tecnologici e la ricerca tecnico-scintifica verso una direzione piuttosto che un’altra ma si tratta piuttosto di produrre una accettazione sociale e politica dei mezzi e dei fini propri della struttura o, come direbbe J.K. Galbraith, della Tecnostruttura. Se poi questi fini e questi mezzi siano realmente «utili» alla popolazione è una questione più propriamente politico-filosofica. In ogni caso finché il denaro con quello che significa sia economicamente che culturalmente costituirà in qualche modo uno dei fondamenti della nostra società è indubbio che la potenza economica, finanziaria e organizzativa delle grandi imprese influirà in modo determinante sullo sviluppo e sul ciclo economico.