Saggio sul Capitalismo

 

 

CAPITOLO SESTO

 

L’ORIGINE DEL PROFITTO

 

 

 

 

 

19. - Profitto artigianale e profitto industriale - Dal punto di vista contabile il profitto è la differenza positiva fra i ricavi e i costi dell’impresa, ricavi e costi che sono il risultato del modo di operare da parte di chi amministra l’impresa.

In precedenza è già stato esaminato il problema dell’equilibrio economico il cui fondamento è stato individuato nell’ordine aziendale, vale a dire in un complesso di fattori economici che attengono alla combinazione dei fattori della produzione, alla sistematicità delle operazioni aziendali e alla composizione fra le forze interne all’impresa e le forze esterne relative all’ambiente in cui l’impresa medesima si trova ad operare.

La combinazione aziendale può essere di dimensioni limitate o di dimensioni che racchiudono investimenti di miliardi di lire e impiego di migliaia di addetti: in tutti i casi la prassi contabile è in grado di ridurre tutte le attività in due colonne contrapposte che attengono la prima ai costi sostenuti e la seconda ai ricavi conseguiti e per differenza determina il risultato economico che dovrebbe essere il «profitto».

La compilazione della colonna dei costi e della colonna dei ricavi è significativa e da una lettura dei dati esposti è possibile trarre non poche informazioni sulla conduzione dell’impresa ma i costi ed i ricavi così esposti sono soltanto la rappresentazione contabile dell’equilibrio economico (o del disequilibrio, a seconda dei casi).

Il profitto dell’impresa si rappresenta attraverso un numero ma la formazione di tale numero è sostanzialmente differente da una impresa di piccole e medie dimensioni rispetto ad una impresa di grandi dimensioni in quanto cambiano le condizioni economiche, finanziarie, patrimoniali e organizzative delle due entità. Per le imprese di piccole e medie dimensioni il profitto è in molti casi un reddito da lavoro, nel senso che l’imprenditore svolge un’attività organizzativa oltre a finanziare la produzione. Per le imprese di grandi dimensioni il profitto assume la configurazione di «reddito finanziario» per coloro che hanno investito denaro nell’impresa ma sopratutto diviene una condizione imprescindibile per l’esistenza e lo sviluppo dell’impresa nella sua qualità di organizzazione economica.

Vi sono alcuni elementi di fondo che differenziano il profitto «industriale» da quello «artigianale» e possono essere rinvenuti nelle differenti capacità delle due forme d’impresa d’imporsi sui mercati sia di acquisizione dei fattori produttivi che di vendita dei prodotti e nelle diverse prospettive economico-organizzative sulle quali riposa la gestione aziendale.

Alla formazione del profitto «industriale» concorrono la divisione del lavoro, il progresso tecnico, la potenza dell’apparato amministrativo, il potere di mercato dell’impresa e le sue prospettive di sviluppo e diviene particolarmente importante il concetto di «continuità aziendale» che informa tutta l’attività gestionale e inquadra lo stesso profitto come un fenomeno economico che ha necessità di tempo per realizzarsi, quindi non come un fenomeno speculativo.

In questa prospettiva il profitto d’impresa è il risultato di un’opera di programmazione aziendale che definisce in primo luogo il «sentiero» da seguire a seconda delle scelte strategiche della direzione e quindi le operazioni di mettere in atto dai vari addetti alla produzione e alla amministrazione.

L’atto della programmazione economica da parte della direzione è il momento più significativo per la comprensione della formazione e della dinamica del profitto in quanto in tale atto vi sono indicati tutti i parametri attinenti alla dimensione dell’impresa (capacità produttiva, capitale investito, quota di mercato ecc.) e sono indicate le «attese» circa l’evoluzione futura dei singoli parametri, quindi le prospettive di sviluppo per l’impresa indicate non in modo generico ma indirizzando la gestione a seconda delle risorse disponibili, di quelle creabili attraverso la gestione futura e le possibili posizioni di equilibrio economico, finanziario e patrimoniali viste in prospettiva.

L’inserimento di un determinato profitto nel piano economico indica da un lato le attese di rendimento dell’investimento e dall’altro le possibilità tecnico-economiche dell’impresa di raggiungere o meno il risultato voluto. Così se, in modo molto sommario, un programma di un triennio prevede dei costi per 1.000 UM e un investimento da parte dei titolari dell’impresa (del capitalista) pari a UM 400 che deve essere remunerato, secondo le attese degli investitori, al 20% annuo il volume dei ricavi deve posizionarsi almeno a 1.240 UM. Compito dei redattori del piano economico è quindi quello di verificare, valutando le condizioni dell’impresa nel presente ma soprattutto nel futuro, se tale livello è raggiungibile o meno. Anzitutto occorre verificare quanti di questi ricavi sono conseguibili dalla produzione propria dell’impresa e quanti invece sono conseguibili dalla gestione finanziaria e straordinaria: si supponga che la ripartizione sia:

Produzione «tecnica»              UM        1.130

Produzione «finanziaria»          UM           110

 

Occorre verificare a questo punto la quantità di vendita del triennio considerato e il prezzo da praticare. Si supponga che sia:

Anno 1                 q. 100 x 2 UM = 200

Anno 2                  q. 150 x 2,2 = 330

Anno 3                  q. 250 x 2,4 = 600

Totale delle vendite (attese) =         1.130

 

Il programma di vendita così definito pone anzitutto il problema di verificare se la produzione programmata è sufficiente a coprire il fabbisogno previsto ma soprattutto pone il problema di verificare se i prezzi praticati e le quantità vendute sono «congrue» con il mercato di collocazione del prodotto e, nel caso, valutare il tipo di strategia da adottare per arrivare ai livelli programmati e necessari per l’ottenimento dell’equilibrio economico.

L’esempio numerico così semplice non tragga in inganno perché proprio l’assoluta semplicità del calcolo costituisce, nella pratica degli affari delle imprese capitalistiche, la via fondamentale per il conseguimento «sicuro» del profitto che diventa sia un indice della «produttività» del sistema d’azienda sia un indice della sua capacità di sfruttare (e di creare, anche) le cosiddette opportunità di mercato. Il profitto (e il conseguente saggio) rimane nella sua rappresentazione contabile un reddito di natura «finanziaria» nel senso che costituisce la remunerazione al capitale investito dal capitalista ma la sua essenza economica è costituita, in senso generale, dal potere di mercato che l’impresa trae dalla propria dimensione finanziaria, economica e organizzativa.

L’elemento che configura il profitto come una conseguenza del potere di mercato dell’impresa è l’assoluta aleatorietà delle vendite, sia per ciò che attiene alla quantità che per ciò che attiene ai prezzi praticati. Una impresa capitalistica può produrre molto e bene, può remunerare correttamente i fattori della produzione (lavoro in particolare), può creare una struttura amministrativa altamente efficiente e gli amministratori possono simulare una situazione economica più che lusinghiera sulla base della quantità e della qualità delle merci prodotte ma se per uno o più motivi il volume delle vendite risulta nei fatti inferiore alle attese anzitutto il profitto non sarà più quello atteso ma gli stessi programmi di produzione dovranno essere rivisti e magari dovrà essere rivista l’intera struttura d’impresa (anche se in apparenza il suo funzionamento è «perfetto»).

Il rapporto fra l’impresa capitalistica e il profitto è un rapporto fra una struttura organizzativa più o meno potente e la sua capacità di imporsi sul mercato come produttrice di merci e servizi che posseggono (o si suppone che posseggano) determinate caratteristiche che siano in grado di indurre un consumatore all’acquisto.

La struttura organizzativa agisce attraverso il marketing che trova la sua espressione più compiuta nella grande impresa e l’utilizzazione di tale «tecnica» di vendita informa, come già visto, tutta l’impresa che impiega in tale settore una quantità di risorse economiche spesso ingente con l’obiettivo non solo di acquisire una quota di mercato la più alta possibile, sconfiggendo se possibile i concorrenti, ma anche di creare praticamente dal nulla bisogni più o meno fittizi nel pubblico dei consumatori.

L’azione di marketing della grande impresa capitalistica è necessaria per ottenere un profitto sufficiente a rendere giustificabile l’ammontare del capitale investito e per rendere tale profitto in qualche modo «stabile», ovvero per controllare nel modo più efficace possibile gli inevitabili cicli della vita economica. La ricerca della stabilità dei profitti è una ricerca di certezze che la grande impresa cerca di ottenere attraverso una programmazione che sia la più efficace ed efficiente possibile: la struttura aziendale imponente, il rilevante numero dei prestatori in forza, il capitale investito, i massicci investimenti in ricerca e sviluppo e molti altri elementi ancora impongono nei fatti all’impresa capitalistica di prevedere e controllare per quanto possibile gli eventi futuri che la riguardano e in primo luogo l’andamento del volume delle vendite e dei prezzi. Nulla può essere lasciato al caso o al «gioco del mercato» nell’amministrazione della grande impresa e l’impresa capitalistica che spesso reclama, attraverso la voce dei «capitalisti», la libera concorrenza in realtà ottiene i risultati che ottiene in termini di produzione, di vendite e di profitti proprio perché predispone una accurata programmazione aziendale e si cura di farla applicare dai massimi vertici al lavoratore meno «influente».

La programmazione aziendale è una necessità assoluta per l’impresa capitalistica e conferisce all’apparato amministrativo aziendale un carattere per così dire «tecnico», nel senso che gli amministratori e gli alti dirigenti della grande impresa si impegnano nella formulazione e nella realizzazione pratica di quei programmi che ritengono più opportuni per lo sviluppo dell’impresa in quanto organizzazione economica. Ma la programmazione aziendale ha un risvolto più propriamente «economico» che costituisce nella pratica degli affari l’essenza dell’impresa capitalistica. Tale risvolto è dato dal fatto che coloro che detengono il capitale di comando dell’impresa, vale a dire i «capitalisti», impongono o cercano d’imporre un determinato livello dei profitti che stia in un rapporto il più elevato possibile con il capitale investito. In altri termini coloro che detengono il capitale di comando dell’impresa capitalistica cercando sempre di sfruttare al massimo consentito la struttura aziendale per trarne il più alto profitto possibile e tanto più è potente la struttura tanto più probabile è la realizzazione di un alto profitto.

Ma nel sistema capitalistico la grande impresa, che è una imponente organizzazione di mezzi e di uomini, è in grado di scatenare vere e proprie passioni che inducono molte persone a perseguire in modo spesso ostinato e senza troppi scrupoli di coscienza la ricchezza personale. In questi casi si crea un rapporto «morboso» fra la struttura aziendale e il capitalista il quale, forte del diritto di proprietà, utilizza e sfrutta la struttura per i propri fini personali di ricerca della ricchezza.

La ricerca della ricchezza costituisce un istinto più che legittimo della natura umana ma come tutti gli istinti quando diviene patologico crea un rapporto non corretto e non equilibrato fra i soggetti interessati e non vi è dubbio che sia la struttura aziendale a risentire maggiormente gli effetti negativi di tale patologia. Ciò che accade in questi casi è che l’impresa capitalistica sfrutta il proprio potere di mercato o per mettere in commercio merci e servizi di dubbia qualità a prezzi relativamente elevati o per incentivare consumi che si possono definire voluttuari.

Il rapporto che si crea fra il capitalista e l’organizzazione dell’impresa, ancorché morboso, può produrre i risultati sperati, sopratutto quando l’impresa si posiziona in settori di mercato in rapida espansione ma in alcuni casi può anche essere fatale, sia per l’impresa che per il capitalista quando quest’ultimo utilizza la struttura aziendale con la massima disinvoltura, senza preoccuparsi realmente dell’andamento economico e dell’assetto patrimoniale e finanziario ma utilizzando le risorse disponibili per operazioni speculative e, si può dire, non aziendali.

In questi casi estremi è facile verificare come il perseguimento del profitto da parte dell’impresa tenda a confondersi con il perseguimento della ricchezza da parte del capitalista, senza però il necessario rispetto del funzionamento dell’organizzazione aziendale. Il risultato di tali pratiche è all’inizio spettacolare e conferisce fama e prestigio al capitalista che lo consegue ma quando la struttura aziendale non è più in grado di reggere le operazioni poste in atto troppo disinvoltamente il capitalista perde la ricchezza accumulata, quindi la fama e il prestigio e all’impresa resta sempre un cumulo di debiti.

Il sistema capitalistico è anche questo, anche se non solo questo e la cosiddetta libera concorrenza, sicuramente un nobile principio liberale, nasconde spesso una o più illeberalità quali possono essere il lascito di una situazione debitoria a chi in buona fede ha intrattenuto rapporti d’affari con una impresa ritenuta a torto funzionante, la messa in commercio di un prodotto nocivo, lo sfruttamento senza alcuna razionalità delle risorse del pianeta o l’inquinamento dell’ambiente.

In queste circostanze se il profitto fosse semplicemente il risultato dello sfruttamento del lavoro potremmo ritenerci tutti soddisfatti di come il sistema capitalistico produce e distribuisce la ricchezza.

 

20. -L’anatomia del profitto. - Il profitto è, in qualche modo, la quintessenza dell’impresa capitalistica. Anche se l’impresa capitalistica è una potente organizzazione di mezzi e di uomini che quindi possiede una propria «vita» in qualche modo autonoma rispetto al capitalista ma anche al lavoratore la motivazione del profitto è l’elemento scatenante ai fini dell’investimento.

Come si è già esaminato in apposito capitolo la dimensione dell’impresa capitalistica costituisce, nei suoi vari aspetti, il risultato delle varie operazioni di gestione che nel loro necessario e reciproco coordinamento determinano le condizioni di equilibrio o disequilibrio economico corrente e prospettico.

L’impresa capitalistica realizza il profitto sia in senso tecnico che economico attraverso la cessione sul mercato delle merci e dei servizi prodotti a certi prezzi ma tale cessione presuppone, com’è ovvio, un processo di produzione il quale, a sua volta, presuppone la disponibilità di mezzi economici e finanziari, cosiddetti «capitale».

Nell’impresa capitalistica si realizza un ciclo produttivo che può essere così definito:

1) Acquisizione dei mezzi monetari

2) Trasformazione dei mezzi monetari in mezzi

tecnico-economici

3) Trasformazione dei mezzi tecnico-economici

in prodotto

4) Cessione del prodotto sul mercato

 

Le quattro fasi del ciclo produttivo così individuate costituiscono le operazioni tipiche dell’impresa e rappresentano delle classi di operazioni che nella effettiva conduzione dell’impresa devono essere riempite con quelle più opportune per la determinazione dell’equilibrio economico. Mentre l’ordine combinatorio attiene alla scelta delle diverse possibili strutture dei fattori della produzione e l’ordine di composizione alle diverse possibili strutture dei rapporti fra l’impresa e l’ambiente l’ordine sistematico attiene in modo specifico alle operazioni dell’impresa, quindi ai diversi modi possibili di ottenere un determinato risultato che l’ordine combinatorio e l’ordine di composizione hanno in precedenza messo a punto.

L’ordine sistematico determina una segmentazione del profitto nel senso che consente di individuarne la formazione in ogni stadio e quindi consente all’impresa capitalistica di percepire i propri punti di forza e di debolezza sia sotto il profilo economico-finanziario che organizzativo.

Le operazioni messe in atto dall’impresa capitalistica possono essere sistemate, in prima approssimazione, secondo tre aree di gestione che sono:

a) area tecnica

b) area finanziaria

c) area straordinaria

 

L’area tecnica corrisponde all’attività tecnico-produttiva nella quale l’impresa capitalistica impiega i propri mezzi finanziari per acquisire quei fattori della produzione necessari allo svolgimento del processo produttivo intenso nel senso tecnico (produrre una merce o un servizio).

L’area finanziaria attiene alla gestione del denaro che può essere una gestione «accessoria» a quella tecnica ma che nella normalità dell’impresa capitalistica è una vera e propria gestione a se stante che non ha una diretta attinenza con il processo tecnico-produttivo.

L’area straordinaria, infine, attiene a quelle operazioni di carattere non ricorrente (come la cessione di un macchinario utilizzato o di una partecipazione) che producono sulla gestione aziendale degli effetti qualche volta rilevanti ma limitati e definiti nel tempo.

Fra le operazioni aziendali e le aree gestionali vi sono delle precise correlazioni che costituiscono il modo di operare dell’impresa ed una delle caratteristiche dell’impresa capitalistica è quella di produrre una connessione molto fitta fra le diverse classi di operazioni.

La prima fase delle operazioni d’impresa che attiene all’acquisizione dei mezzi monetari necessari alla gestione, vale a dire il finanziamento, è correlata alle diverse aree attraverso la composizione del capitale che può essere immesso direttamente dal capitalista ovvero prestato da soggetti differenti. Nel primo caso si parla di capitale di rischio e la sua remunerazione è, eventualmente, il profitto; nel secondo caso si parla di capitale di debito e la sua remunerazione è il saggio d’interesse che costituisce un onere di natura finanziaria per l’impresa.

La fase relativa all’acquisizione dei fattori della produzione costituisce un primo importante passo per la connotazione dell’impresa capitalistica. Attraverso l’acquisizione dei fattori produttivi l’impresa, infatti, decide la qualità dei propri investimenti che possono essere di carattere tecnico o di carattere finanziario. Nel primo caso l’impresa procede nell’acquisto di quei fattori della produzione necessari allo svolgimento del processo produttivo tecnico consistente nella produzione di merci e servizi; nel secondo caso procede all’acquisto di attività finanziarie che possono essere di pura speculazione o investimento (come l’acquisto di titoli del debito pubblico o di azioni di altre società) o invece rientrare in una specifica strategia d’impresa, strategia che mira al controllo economico di imprese ritenute importanti per lo svolgimento del processo di produzione o, anche, per allargare i confini «industriali» dell’impresa senza mettere in atto specifici processi di integrazione verticale o orizzontale.

La differenziazione degli investimenti è una delle caratteristiche salienti dell’impresa capitalistica che nel proprio sviluppo, quindi nell’accrescimento della dimensione intensa secondo tutti i possibili parametri, acquista una multiforme connotazione divenendo multisettoriale, multinazionale e soprattutto un «centro d’affari» nel quale l’attività meramente industriale diviene un elemento non più strategico.

I differenti investimenti messi in atto dall’impresa si correlano in pratica a ciascuna delle tre aree di gestione dando origine sia a componenti positivi che a componenti negativi in ciascuna di esse.

L’area relativa alla gestione tecnico-industriale sarà interessata dagli investimenti tecnico-produttivi, quindi dai costi ad esso attinenti e dai ricavi generali dalla vendita dei prodotti ottenuti o dei servizi prestati.

L’area finanziaria sarà interessata in generale dalla gestione del denaro, quindi dai ricavi di natura finanziaria e dagli oneri finanziari.

I ricavi di natura finanziaria possono riguardare sia i guadagni in conto capitale che i rendimenti correnti dell’investimento che, a loro volta, possono riguardare «disponibilità» finanziarie ovvero investimenti finanziari, quando l’impresa decide di assumere partecipazioni in altre imprese allo scopo di controllarne l’amministrazione.

Anche i costi di natura finanziaria possono riguardare perdite in conto capitale e oneri correnti collegati ai finanziamenti attinti dall’impresa presso altri soggetti.

La gestione straordinaria sarà interessata, sia in positivo che in negativo, da quel genere di operazioni non ricorrenti che però hanno una loro incidenza sulla gestione dell’impresa e possono determinare sia ingenti guadagni che perdite in grado di mettere a rischio l’intera struttura d’impresa.

Con la presenza delle tre aree sopra indicate anche il profitto è rappresentato come la somma (algebrica) dei risultati attinenti a ciascuna area e la dimensione assoluta e relativa di ciascun risultato e, ovviamente, il suo segno costituiscono l’indicazione di come l’impresa ha investito i propri capitali e quale rendimento ha ottenuto da tale impiego.

Anche in questo caso si ha la sensazione di essere difronte a un «semplice» esercizio contabile ma è sufficiente passare alla valutazione economica delle cifre esposte per rendersi conto che in effetti ci si trova difronte ad una vera e propria definizione dell’attività dell’impresa. In particolare la trasformazione dei fattori produttivi in prodotto indica, come già espresso nel capitolo dedicato alla dimensione aziendale, la capacità produttiva dell’impresa intesa sia in senso tecnico che in senso finanziario.

Nell’impresa capitalistica la trasformazione dei fattori della produzione in prodotto finito ha molte determinanti ma non vi è dubbio che le principali di esse siano la divisione del lavoro e il progresso tecnico.

La divisione del lavoro, vale a dire la scomposizione del processo di produzione di una merce in singole operazioni elementari affidate a un addetto specifico, costituisce tradizionalmente l’elemento di passaggio dalla produzione artigianale a quella industriale. Gli effetti sulla produttività e, in generale, sull’economia dell’impresa sono stati messi sufficientemente in risalto già da tempo. La divisione del lavoro opera non solo nell’ambito del processo di produzione strettamente inteso ma in generale su tutta l’organizzazione aziendale incidendo quindi sia sulla formazione dei costi specifici del lavoro che su quelli relativi all’intera struttura aziendale.

Nelle cifre che esprimono la dinamica aziendale la divisione del lavoro ha almeno tre connessioni importanti: con il valore aggiunto prodotto come indice di composizione della struttura produttiva, con la quantità prodotta come indice di produttività tecnica, con i servizi generali dell’impresa come indice dei costi dell’attività tecnico-produttiva.

Il progresso tecnico è l’altra grande determinante della trasformazione dei fattori produttivi in prodotto e attiene sia al processo di produzione che alle merci prodotte. Nei processi produttivi messi in atto dalle imprese capitalistiche vi possono essere modifiche nella struttura oppure nel risultato e normalmente vi sono delle condizioni di reciprocità fra i due eventi.

Nella struttura della produzione il progresso tecnico incide anzitutto sul tipo di impianti e macchinari utilizzati, quindi sulla composizione dei fattori della produzione utilizzati ed infine sul rendimento economico dell’intera organizzazione.

Nell’impresa capitalistica gli impianti e i macchinari destinati alla produzione hanno un ciclo di vita che in linea di massima può essere inteso in senso tecnico-produttivo ovvero in senso economico. Nel primo caso impianti e macchinari (ma anche i prodotti) sono soggetti ad una obsolescenza per così dire tecnica, nel secondo l’obsolescenza è più propriamente un fenomeno economico.

L’utilizzazione degli impianti comporta per l’impresa sia un costo di acquisizione che un costo di utilizzazione, quest’ultimo idealmente suddiviso nel deperimento economico (ammortamento) e nei costi di manutenzione che, nella normalità dei casi, aumentano con il grado di utilizzazione.

Nell’impresa capitalistica l’inserimento degli impianti nel processo di produzione implica, come già in altro capitolo esaminato, un fattore di rigidità nella gestione in quanto è necessario sostenere il costo prima della utilizzazione del bene strumentale. In modo specifico nell’impresa in oggetto gli impianti hanno sempre un valore particolarmente elevato e comunque costituiscono una parte essenziale del costo di produzione cosicché condizionano di fatto se non la vita dell’impresa almeno una sua importante frazione. In più il progresso tecnico per l’impresa capitalistica, e segnatamente per quelle più grandi, implica un costo «aggiuntivo» non indifferente determinato dall’investimento in ricerca e sviluppo, investimento che non è direttamente produttivo e, in alcuni settori specifici, può rivelarsi in molti casi assolutamente improduttivo. La sua qualità di impresa economica impone all’impresa capitalistica di recuperare tramite i ricavi di vendita anche tali costi di investimenti improduttivi, aggravando, per così dire, la propria posizione economica.

Nella sua qualità di fattore della produzione il macchinario è quindi portatore di due forze contrastanti: una forza positiva costituita dal progresso tecnico (spesso definita «forza evolutiva») e una forza negativa costituita dall’obsolescenza (spesso definita «forza involutiva»).

Il carattere di forza evolutiva del progresso tecnico si manifesta attraverso la realizzazione delle cosiddette economie di scala che consentono all’impresa di abbassare i costi di produzione delle merci e dei servizi prodotti e fra i costi di produzione rientra sicuramente anche il costo del lavoro che, nel corso dell’evoluzione tecnico-produttiva, cambia la propria struttura a seconda della maggiore o minore utilizzazione necessaria del fattore «lavoro» ma anche a seconda della diversa organizzazione del lavoro medesimo. Nella sua qualità di forza evolutiva il progresso tecnico ha bisogno, per realizzarsi in modo compiuto, di un adeguato utilizzo da parte della forza-lavoro disponibile presso l’impresa. Adeguato utilizzo significa che gli addetti alla produzione devono essere in grado di compiere le nuove operazioni rese necessarie dal mutamento tecnologico e se non lo sono o vengono «cacciati» dall’impresa o l’impresa medesima li impegna, a turno, in corsi di aggiornamento che hanno per lei un costo sia diretto che indiretto.

In questo modo è, o dovrebbe essere, sufficientemente chiaro che il processo di trasformazione dei fattori produttivi in prodotto sebbene necessiti di materie prime e di impianti produttivi adeguati, è grandemente governato dal grado e dal modo di utilizzazione della forza-lavoro che è necessaria non solo per far funzionare anche il più sofisticato impianto ma è la determinante stessa di quello che può essere definita la principale risorsa dell’impresa capitalistica: la conoscenza.

L’obsolescenza delle attrezzature produttive e, più in generale, dell’impresa implica una riduzione dell’efficienza produttiva e per conseguenza un innalzamento dei costi di produzione.

L’impresa capitalistica è immersa completamente nell’obsolescenza e lo è per il fatto stesso essere nelle condizioni di generale costantemente un flusso di innovazioni tecnologiche che diano processi produttivi più efficienti ed efficaci.

Il rischio che corre normalmente l’impresa capitalistica è quello di non riuscire a controllare il processo di obsolescenza, soprattutto quando dai risultati economici non appaiono segni evidenti del declino. Un controllo indiretto potrebbe avvenire dall’esame del «tasso di anzianità» delle attrezzature utilizzate ma non è certo sufficiente per indicare all’impresa la via più sicura per capire il grado e la direzione del fenomeno.

Un controllo più diretto e più sicuro del fenomeno della obsolescenza avviene per l’impresa capitalistica attraverso l’ultima fase del ciclo della produzione, quello relativo alla collocazione sul mercato del prodotto o dei servizi.

In questa fase il rapporto fra le forze interne e quelle esterne diviene il principale fattore dell’economicità della gestione o, più in generale, delle condizioni di vita e di sviluppo dell’impresa. Gli sforzi produttivi devono essere convertiti in denaro non solo per dare un senso all’impresa ma per pagare effettivamente tutti i costi sostenuti e già precedentemente definiti. La messa in commercio del prodotto impegna una parte rilevante dell’organizzazione dell’impresa e anzi, di norma, è proprio da questo settore organizzativo che arrivano i suggerimenti su cosa produrre, come produrre e quanto produrre sicché il momento della cessione diviene nei fatti la verifica più importante della condotta seguita in tutta la gestione e consente di controllare e, in qualche misura determinare, l’obsolescenza dei prodotti e della stessa impresa.

La dimensione produttiva ingente e la conseguente ingente dimensione finanziaria dell’impresa capitalistica e il correlativo alto rischio di non vendere la quantità di merce necessaria all’ottenimento dell’equilibrio economico impongono che l’organizzazione relativa alla definizione del prodotto, nel sue multiformi caratteristiche, sia particolarmente efficacie e faccia in modo che gli acquirenti potenziali della merce diventino acquirenti effettivi. E’ questo passaggio che consente all’impresa di formare e realizzare il profitto che dipende non tanto dalla qualità e quantità della merce o dei servizi prodotti quanto dal grado di preferenza che l’impresa riesce ad ottenere dal mercato, ovvero dai consumatori.

La posizione e l’atteggiamento dell’impresa capitalistica, nella sua qualità di organizzazione economica, nei confronti dei consumatori diventa fondamentale per la determinazione del grado di preferenza e quindi per l’ottenimento di una stabile e congrua quota di mercato.

Compito dell’impresa, o meglio di una parte della sua organizzazione, è quello di creare una fedeltà al prodotto e, prima ancora, indurre al consumo della merce larghi strati della popolazione o, in casi «estremi» creare dal nulla un vero o presunto bisogno facendo leva su alcuni degli istinti di cui la natura umana è variamente dotata.

Al termine del ciclo di produzione l’impresa capitalistica può rappresentare la propria situazione economica raccogliendo le operazioni effettuate in modo sistematico nelle tre aree di gestione più sopra individuate, in particolare vi saranno ricavi e costi in ciascuna area di gestione e la somma algebrica di ciascun risultato darà il profitto netto (o la perdita) conseguito in un determinato periodo di tempo.

Le condizioni di economicità appena esposte, unitamente a quelle già definite al paragrafo 7 del presente Libro sono condizioni di primo ordine per l’esistenza del profitto: senza tali regole economiche non solo non vi è impresa capitalistica ma non vi è nemmeno impresa in senso generale.

La realizzazione di un profitto netto da attribuire al capitalista, vale a dire a colui che ha investito denaro nell’impresa e ne controlla l’amministrazione, è una condizione di secondo ordine nel senso che è necessaria per motivare l’investimento iniziale del capitalista e per persuaderlo a continuare nell’investire denaro nell’impresa, magari allargando i rami di attività o i confini geografici dei mercati di collocazione dei prodotti.

Trattandosi di una condizione di secondo ordine la realizzazione del profitto deve necessariamente rispettare la prima, vale a dire l’equilibrio economico sicché il capitalista non può prelevare dall’impresa un «profitto» di 100 se la differenza positiva fra ricavi e costi è, per dire, 80. Il margine di manovra del capitalista si indirizza così nella ripartizione della ricchezza complessivamente prodotta, costituita dal valore aggiunto che divide sostanzialmente con quei capitalisti che gli hanno prestato (eventualmente) il denaro corrispondendo un «interesse» ma soprattutto con la forza-lavoro impiegata nell’impresa alla quale deve essere corrisposta una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque sufficiente per condurre una vita il più possibile libera e dignitosa.

La ripartizione del valore aggiunto prodotto, dedotta la quota relativa agli interessi ma anche quella relativa all’ammortamento e al rinnovo delle attrezzature produttive, avviene fra la forza-lavoro impiegata e i capitalisti (o il capitalista) che hanno investito i loro mezzi monetari nell’impresa. Poiché le retribuzioni corrisposte ai prestatori d’opera, ci siano o meno dei sindacati dei lavoratori, avviene sempre sulla base di un contratto il profitto è ciò che rimane dopo che i capitalisti deducono dal valore aggiunto prodotto la quota relativa alle retribuzioni corrisposte. In questo modo la realizzazione della condizione di secondo ordine è il risultato di due forze contrastanti che sono il diritto di proprietà che consente al capitalista di creare l’impresa, di organizzarla e di prelevarne parte della ricchezza prodotta e i rapporti di forza fra capitalista e lavoratori che definiscono in pratica quanta della ricchezza prodotta deve essere destinata alla forza-lavoro e quanta al capitale.

A questo punto è appena il caso di evidenziare che la realizzazione delle condizioni di primo e secondo ordine presentano interrelazioni reciproche in quanto la formazione del valore aggiunto prodotto dipende molto da come l’impresa organizza la propria produzione ma dipende anche dal suo potere di mercato, quindi dalla sua capacità di negoziare i prezzi degli acquisti delle materie prime e dei servizi necessari e di imporre i propri prezzi di vendita al mercato. E’ abbastanza evidente, infatti, che la posizione economica di dominio nella quale solitamente si trova la grande impresa capitalistica le concede la possibilità di negoziare con una certa tranquillità determinati prezzi relativi a materie prime, semilavorati e servizi, soprattutto quando il fornitore non possiede le di lei dimensioni economiche e quindi si trova a «subire» le condizioni da lei poste, considerando anche che spesso costituisce l’unico mercato di collocazione del prodotto dell’unità produttiva più piccola.

Le medesime regole valgono per la collocazione del prodotto dell’impresa capitalistica che con le proprie politiche di vendita condiziona i canali distributivi e, in sostanza, le imprese che si trovano in tali segmenti del mercato. Il fenomeno indicato dà origine a quella particolare forma distributiva che è la «concessione» e quindi la creazione di un «rivenditore autorizzato» che è come dire che la libera concorrenza è solo una costruzione intellettuale, e nemmeno troppo originale, degli economisti. A questa forma di collocazione del prodotto soggiacciono un po’ tutte le merci in circolazione: automobili, frigoriferi, computer, generi alimentari, cosmetici, prodotti per la casa ecc. e garantisce all’impresa produttrice, in pratica, il controllo del mercato non solo del consumo finale ma anche del segmento relativo alla distribuzione commerciale.

 

 

21. - Profitto e sviluppo aziendale. - L’attività economica e tecnica dell’impresa capitalistica è messa in atto con il fine di rendere durevole la struttura organizzativa e in questa ottica il profitto assume quella configurazione di condizione di primo ordine più sopra indicata.

Lo sviluppo aziendale è lo sviluppo nello spazio e nel tempo dei vari parametri che compongono e definiscono la dimensione e il conseguimento del profitto costituisce la motivazione fondamentale per la prosecuzione dell’attività e per la sua espansione.

Se alla formazione del profitto complessivamente inteso concorrono i «settori» dell’attività gestionale riferiti nel precedente paragrafo, dai quali deriva l’apporto di ciascuna area alla formazione dei risultati economici, nell’esame delle relazioni fra profitto e sviluppo aziendale emerge una più approfondita distinzione all’interno di ciascuna area gestionale nel senso che l’impresa capitalistica in ciascuna di essa, e segnatamente nell’area tecnico-produttiva, pone in atto quei processi di integrazione verticale o orizzontale già esaminati in altro capitolo che le consentono di sfruttare al meglio le risorse di cui dispone.

Lo sviluppo aziendale può avvenire aumentando la produzione della merce o del servizio che costituisce la tipica produzione dell’impresa ma più spesso avviene sia allargando la gamma dei prodotti (cosiddetta integrazione orizzontale) sia allargando i confini geografici.

L’integrazione orizzontale fa diventare l’impresa multisettoriale, posizionandola su diversi mercati di sbocco e tale posizionamento può essere confinato in alcuni specifici settori in qualche modo «simili» alla produzione di «base» ovvero riguardare produzioni di merci e di servizi fra di loro completamente differenti. In ogni caso l’organizzazione produttiva accresce la propria dimensione economica e finanziaria e assume sia nei confronti dei mercati che dell’ambiente in generale un peso sempre maggiore e, in alcuni casi, anche un prestigio maggiore.

La produzione di merci di tipo differente, con mercati differenti e con fattori della produzione specifici di diversa consistenza tecnica impone all’impresa da un lato uno specifico investimento per ciascun ramo e dall’altro un controllo accurato della gestione per verificare l’effettivo apporto di ciascun ramo alla formazione dei risultati economici e finanziari.

I risultati economici raggiunti in ciascuna gamma di prodotti o in diversi settori di attività vengono definiti, nel linguaggio corrente delle discipline economico-aziendali, margine di contribuzione. La somma del margine di contribuzione di tutti i settori o di tutti i prodotti dà il risultato industriale dal quale, dedotte le cosiddette spese generali (che attengono cioè all’intera struttura aziendale) si ottiene il profitto netto. E’ abbastanza evidente che per l’impresa capitalistica diviene importante conoscere in quali settori ottiene i risultati migliori e perché sia per indirizzare i propri investimenti futuri e sia per valutare, in generale, i propri punti di forza e di debolezza.

La relazione che lega il margine di contribuzione al profitto generale attiene ai risultati economici raggiunti e costituisce una parte importante della gestione ma ai fini dello sviluppo aziendale diviene importante anche un altro aspetto dei profitti ottenuti che riguarda in modo specifico il loro aspetto finanziario e quindi «propulsivo» dell’intera attività d’impresa.

In linea puramente teorica il profitto, essendo un reddito distribuito, potrebbe essere interamente prelevato dal capitalista ed utilizzato per scopi personali di consumo o d’investimento. Nella pratica raramente nell’impresa capitalistica ciò avviene perché una parte del profitto realizzato viene capitalizzato, vale a dire direttamente investito dall’impresa e solo una parte è distribuito nel senso proprio del termine, quindi prelevato dal capitalista nella forma «canonica» di dividendo annuale. L’accumulazione del capitale in tal modo formata assume la denominazione di autofinanziamento e produce, nel tempo, due effetti sull’economia dell’impresa: in primo luogo determina un aumento della capacità produttiva e in secondo luogo aumenta l’indipendenza finanziaria.

L’attività dell’impresa capitalistica, soprattutto se di grandi dimensioni, è caratterizzata da una forte dinamica dei valori che attengono agli investimenti ed in ogni istante, si può dire, vi sono investimenti in impianti e attrezzature ma anche disinvestimenti dei medesimi che determinano una fonte di liquidità per l’impresa, infine vi possono essere nuovi apporti da parte del capitalista proprietario che generano altri fondi per il finanziamento. L’autofinanziamento da utili netti costituisce una fonte specifica con la particolarità che si tratta di una fonte direttamente collegata all’attività corrente dell’impresa, cioè alla gestione ordinaria. In altri termini è la stessa attività messa in atto dell’impresa a finanziarne in qualche misura lo sviluppo successivo.

I margini di contribuzione dei vari prodotti e l’autofinanziamento da utili netti attengono alla formazione degli profitti correnti e, in generale, sono utilizzati dall’impresa per ottenere, genericamente, fonti finanziarie. Ma nell’impresa capitalistica è ovvio che vi è un altro modo d’intendere il rapporto fra profitti e sviluppo della struttura tecnico-produttiva e tale modo è dato in ogni istante dai profitti attesi.

I profitti attesi sono il risultato sintetico della formazione dei piani economici di lungo e di breve periodo da parte dell’impresa attraverso i quali l’amministrazione forma il cammino futuro dell’attività, prima nelle sue linee generali e strategiche e poi nei dettagli, frazionando il piano pluriennale in piani economico-finanziari di più breve periodo.

La formazione dei piani economici, quindi della programmazione aziendale, è un atto formale e sostanziale dovuto per ogni impresa che superi una certa dimensione, è formato dall’alta direzione e, al pari del conto economico consuntivo, consente di tradurre in cifre le attese circa l’evoluzione tecnica, economica, finanziaria, patrimoniale e organizzativa dell’impresa. La sintesi del piano economico è, appunto, il profitto atteso che costituisce la base per intraprendere o meno gli investimenti e le attività programmate.

L’esistenza della programmazione è un fatto ovvio e scontato e, per la grande impresa, di vitale importanza: il conseguimento non solo del profitto ma di ogni risultato in qualche modo «atteso» non può non passare attraverso un’attenta ed efficace opera di programmazione aziendale. L’esistenza e lo sviluppo della grande impresa capitalistica sono imprescindibili dalla programmazione e il profitto «programmato» è solo un elemento, certamente importante, della fitta rete di connessioni che l’impresa mette in atto per ottenere ciò che si è prefissa.

Anche l’esistenza del sistema capitalistico è imprescindibile dall’esistenza della grande impresa e, quindi, con un sillogismo aristotelico sin troppo semplice, l’esistenza del sistema capitalistico è imprescindibile dalla programmazione.

L’introduzione della programmazione nello schema concettuale dell’impresa capitalistica, quindi del sistema capitalistico, ha un significato economico e politico non di poco conto consentendoci di capire come, al di là delle apparenze, delle credenze (anche analitiche) e delle speranze, tutto il sistema sia informato da una forza che tende a limitare le libertà di scelta del singolo individuo, sia quando questi è inserito nell’organizzazione aziendale (cosa assolutamente ovvia) sia quando si presenta sul «mercato» in qualità di acquirente di merci e servizi (cosa un po’ meno ovvia).

La formazione e la messa in atto della programmazione è, in definitiva, un atto necessario all’impresa capitalistica e nella sua qualità di strumento per la gestione può risultare nulla di più che ritrovato della tecnica aziendale per mettere gli amministratori nelle condizioni più idonee a svolgere il loro incarico. Tuttavia le dimensioni raggiunte dalle imprese capitalistiche e il loro controllo dei mercati di acquisizione dei fattori della produzione e di collocazione di merci e servizi trasformano un atto di buona amministrazione aziendale in un vero e proprio atto «politico».

Per le moderne imprese capitalistiche il profitto non dipende più dal brutale sfruttamento del lavoro (almeno nella normalità dei casi) ma è certamente determinato dalla posizione di dominio economico che le medesime, nella loro qualità di organizzazione, hanno sui mercati e quanto più sono in grado di controllare i mercati di acquisizione e di sbocco tanto più i loro profitti saranno elevati.

Il profitto elevato di una grande impresa capitalistica non dovrebbe e non deve scandalizzare o impensierire nessuno ma, stante la natura dei fatti, nessuno dovrebbe asserire con teorica (e matematica) serietà che nel sistema capitalistico sono rispettate le «preferenze dei consumatori» o che le risorse disponibili sono allocate secondo il principio della massima efficienza.

Il profitto è uno strumento economico indispensabile per l’equilibrio corrente e per lo sviluppo dell’impresa capitalistica ma è indubbio che in molte circostanze è il frutto di un conflitto d’interessi che la potenza economico-organizzativa dell’impresa capitalistica risolve a proprio favore senza che né il «mercato», idealmente inteso, né i lavoratori e, in molti casi, nemmeno i piccoli azionisti «proprietari» dell’impresa ne godano realmente i benefici.

 

 

22. - Profitto e sviluppo generale. - L’impresa capitalistica costituisce la base del sistema capitalistico e conseguentemente lo sviluppo dell’intero sistema è legato al suo sviluppo.

I meccanismi che determinano la formazione del profitto dell’impresa determinano, per conseguenza, lo sviluppo generale del sistema.

Tuttavia poiché l’impresa capitalistica, per quanto possa essere di dimensioni rilevanti, costituisce solo una parte del sistema complessivo e poiché non tutte le imprese e non tutti i settori economici hanno i medesimi ritmi di sviluppo vi saranno dei valori aggregati dei profitti (ma anche della produzione o dei salari) che avranno da un lato la consistenza determinata dalla somma di tutti i profitti delle imprese e dall’altro l’andamento congiunturale e strutturale determinato dalla media ponderata delle variazioni intervenute in ciascuna impresa.

Da un punto di vista aggregato le imprese del sistema economico apportano alla produzione di una nazione un certo volume di ricchezza che corrisponde per ciascuna dei essa al valore aggiunto prodotto e che è normalmente definito Prodotto Interno Lordo.

Alla stessa stregua del conto economico della singola impresa anche a livello aggregato il Valore Aggiunto è distribuito fra i fattori della produzione, solo che nella considerazione della produzione nazionale (o comunque aggregata di un’area geografica) tutti i fattori della produzione sono, com’è ovvio attendersi, fattori interni, vale a dire Lavoro o Capitale.

Per chiarezza di dettato si supponga che il Prodotto Interno Lordo di un anno sia, per un certo sistema economico, così determinato:

 

Settore Agricolo-Minerario            UM       100.000

Settore Industriale                          UM       250.000

Settore Commerciale e servizi         UM       150.000

Prodotto interno lordo                    UM       500.000

 

Ora si supponga che il prodotto così definito sia così distribuito nei tre settori:

 

Settore agricolo-minerario

Redditi da lavoro                                  UM     40.000

Ammortamenti del capitale                    UM     35.000

Profitti netti                                           UM     25.000

 

Settore industriale

Redditi da lavoro                                  UM      150.000

Ammortamenti del capitale                    UM        55.000

Profitti netti                                            UM       45.000

 

Settore commerciale-servizi

Redditi da lavoro                                    UM       81.000

Ammortamenti del capitale                      UM       30.000

Profitti netti                                              UM      39.000

 

Il riepilogo «nazionale» dei vari settori darà come risultato:

Redditi distribuiti a fattori della produzione

Redditi da lavoro                                    UM         271.000

Ammortamenti del capitale                      UM         120.000

Profitti netti                                              UM        109.000

Reddito Nazionale                                    UM        500.000

 

La provenienza dei redditi sarà quindi la seguente

                     Agricolo          Industriale     Commerciale

Lavoro            14,76%          55,35%               29,89%

Profitti netti      22,93%          41,28%               35,79%

 

Se in queste condizioni si suppone che il prodotto del settore agricolo aumenti del 5%, quello del settore industriale del 10% e quello del settore commerciale e servizi del 20%, poiché i pesi sul prodotto lordo di partenza per i tre settori sono rispettivamente 20%, 50% e 30% il saggio di crescita del prodotto complessivo sarà ovviamente pari a:

 

                 0,05 x 0,2 + 0,1 x 0,5 + 0,2 x 0,3 = 12%

 

con i seguenti risultati dei valori assoluti:

 

Settore Agricolo-Minerario                    UM        105.000

Settore Industriale                                  UM        275.000

Settore Commerciale e servizi                 UM        180.000

Prodotto interno lordo                            UM        560.000

 

Se la distribuzione del reddito all’interno di ciascun settore si mantiene inalterata i profitti netti in ciascun settore saranno complessivamente pari al rapporto profitti totali e prodotto totale, quindi 21,8%, ovvero 122.080 UM. Nei diversi settori saranno:

 

Settore Agricolo-Minerario                   UM        27.993

Settore Industriale                                  UM       50.395

Settore Commerciale e servizi                 UM        43.692

 

Secondo queste ipotesi, infine, gli ammortamenti e i redditi da lavoro avranno i seguenti valori:

Ammortamenti                 (24%)               UM      134.400

Redditi da lavoro              (54,2%)            UM      303.520

 

in modo che alla fine del processo di distribuzione del reddito ciascuna categoria è accresciuta esattamente del saggio di crescita del prodotto interno lordo (+ 12%).

La dinamica effettiva dell’impresa capitalistica, nei due aspetti della produzione e distribuzione del reddito, esclude per sua stessa natura una così perfetta simmetria di crescita di prodotto totale, prodotto per settori e categorie di redditi.

Nelle condizioni sopra prospettate, per esempio, i redditi da lavoro costituiscono il 54,2% del prodotto totale: se si suppone che essi aumentino in modo uniforme del 7% saranno alla fine pari a UM 289.970 da cui segue che i profitti netti totali diventano UM 135.630 cosicché le rispettive proporzioni sia assestano al 51,78% e 24,22%

Con i dati così modificati il peso dei redditi da lavoro nei dversi settori di attività sarà il seguente:

 

Settore Agricolo (1,07\1,05) x 0,4 = 40,76%

Settore Industriale (1,07\1,1) x 0,6 = 58,36%

Settore Servizi (1,07\1,2) x 0,54 = 48,15%

 

per cui, in media, le imprese del settore agricolo avranno un declino della quota dei profitti e, sempre in media, la quota dei profitti delle imprese dei settori industriali e servizi avranno un aumento.

L’esposizione appena indicata costituisce l’aspetto macroeconomico dei profitti e, in particolare, mette in evidenza il rapporto che corre fra i profitti (ma in generale di tutti i redditi) e il redditiere. In altri termini il reddito viene considerato dal punto di vista non dell’impresa che lo «produce» ma del redditiere che lo percepisce e lo usa più o meno liberamente.

Poiché i redditieri sono anche fattori della produzione è chiaro che le decisioni individuali sull’utilizzazione del reddito influenzano sia l’economia dell’impresa sia la distribuzione del reddito e la sua crescita (o decrescita).

L’analisi macroeconomica dei profitti e della distribuzione del reddito, quindi delle connessioni fra profitti e sviluppo, prende le mosse dalla semplice equazione

                        (1)     RN = PR + RL

ovvero il reddito complessivo (RN) è dato dalla somma dei profitti (PR) e dei redditi da lavoro (RL).

Il passo successivo dell’analisi concerne la seguente equazione, sempre valida a posteriori:

                               (2) In = Rs

ovvero il totale degli investimenti effettuati in un certo periodo di tempo dal complesso delle imprese del sistema economico (In) è pari al volume del risparmio proveniente dai redditi percepiti nel periodo (Rs).

La condizione espressa dall’equazione (2) è definita equilibrio macroeconomico ed attiene ad un periodo specifico dell’attività economica come un anno, un mese, dieci anni ecc.

Il volume degli investimenti presso le imprese e il volume del risparmio presso i redditieri (ma anche presso le imprese) costituiscono un valore patrimoniale, quindi rappresentano valori accumulati e non sono, per il momento, rilevanti ai fini della presente analisi.

Il risparmio corrente del sistema economico dipende dalle decisioni dei singoli redditieri e può essere espresso dalla seguente equazione:

                          (3) Rs = k PR + j RL

dove «k» e «j» sono dei coefficienti compresi fra zero e uno che esprimono, rispettivamente, la quota dei profitti e la quota dei redditi da lavoro che vengono risparmiate nel complesso nel sistema economico. L’ipotesi più ovvia, ma anche quella più corrente, è che la quota risparmiata sui profitti sia, in media, più alta (molto più alta) , della quota risparmiata sui redditi da lavoro.

Ciò che però diviene analiticamente importante è il collegamento fra le equazioni sopra esposte, in particolare si può derivare, mediante semplici interazioni algebriche, la seguente equazione:

                         (4) In = k PR + j RL

e, derivando dall’equazione (1) l’equazione

                         (5) RL = RN - PR

e sostituendo nella (4) si ottiene:

                        (6) In = k PR + j (RN - PR)

che mediante semplici passaggi algebrici conduce all’equazione:

                               In - j RN

            (7) PR =  --------------------

                                    k - j

 

nella quale si assumono noti il volume corrente degli investimenti (In) nonché i valori di «k» e «j» al fine di determinare il rapporto fra variazione del reddito nazionale (RN) e variazione dei profitti (PR).

In particolare le due variazioni sono date dal risultato del rapporto (j\(k-j)) che definisce, dato RN, la variazione dei profitti totali.

Sembra quasi superfluo evidenziare che la precedente inferenza matematica sarà effettivamente riscontrata nel sistema economico se non cambiano, nel corso del processo di produzione e distribuzione del reddito, i parametri In, «k» e «j».

Per apprezzare la dinamica delle categorie interessate all’analisi e trarre alcune debite conclusioni si supponga che sia:

              In = 1.000 ; RN = 5.000; k = 50%; j=10%

Con tali dati la (7) determina i profitti totali in 1.250, dai cui segue anche che i redditi dal lavoro sono complessivamente 3.750; il risparmio che si forma nel sistema economico sarà allora:

Da profitti:              1.250 x 50%        =          625

Da lavoro:               3.750 x 10%        =          375

Totale                                                           1.000

chiaramente uguale al volume degli investimenti.

Se il reddito aumenta di 500 e tutti gli altri dati restano invariati la variazione dei profitti sarà:

 

               10% /  (50%  - 10%)   x 500 = 125

    

per cui la distribuzione del reddito diverrà:

Profitti:                                   1.125

Redditi da lavoro                    4.375

Reddito totale                          5.500

e il volume complessivo del risparmio, chiaramente invariato rispetto alla situazione precedente, sarà così composto:

 

da profitti                       1.125 x 50%    =     562,5

da lavoro                       4.375 x 10%    =      437,5

Totale risparmiato                                   =     1.000

da cui risulta una evidente modifica alla struttura del risparmio complessivo del sistema economico.

Si supponga ora che i redditi da profitti siano investiti nella produzione nel secondo esempio e che quindi gli investimenti diventino 1.625 e si ponga anche, per dare una più efficacie rappresentazione numerica. che il rapporto fra investimenti e reddito totale rimanga invariato. Con queste variazioni il reddito totale diventerà 6.500 (1625/0,25) e i profitti totali diventeranno, in conformità dell’equazione (7):

                

     PR =  (1625 - 10% x 6.500)/(50% - 10%)  = 2.437,5

                

da cui segue che i redditi da lavoro diventano 4.062,5 e la struttura del risparmio sarà:

da profitti              2.437,5 x 50% = 1.218,75

da lavoro               4.062,5 x 10% = 406,25

Totale risparmio                                  1.625

 

per cui, rispetto alla situazione iniziale si avranno le variazioni seguenti:

Reddito complessivo           + 1.500           (+ 30%)

Profitti                                 + 1.187,5        (+ 95%)

Redditi da lavoro                 +    312,5        (+ 8,33%)

 

mentre i pesi dei redditi nella distribuzione del reddito saranno così modificati:

                                   Prima                   Dopo

Profitti                           25%                 37,5%

Redditi da lavoro           75%                 62,5%

 

Il cambiamento nella struttura della distribuzione del reddito può essere apprezzato, quindi, integrando e modificando di poco la struttura dell’equazione (7), in particolare dividendo i due membri dell’equazione per il reddito complessivo RN. Così operando si ottiene, dopo ovvi ed elementari passaggi algebrici:

         PR                  In                    1                j

(8) ----------- = ----------- x ----------- - -----------

        RN                  RN                k - j              k - j

 

Dalla «lettura» dell’equazione (8) si evince che le determinanti principali della quota dei profitti sul reddito complessivo sono il volume degli investimenti (In) e la quota risparmiata (k) dai redditeri dei profitti.

L’equazione (8) consente di determinare la quota dei profitti sul reddito complessivo da un punto di vista statistico, oltre che analitico. Così, ad esempio, con i dati del primo esempio si otterrebbe:

  PR             1.000            1                   10%

-------- = --------- x ------------- - ------------- = 25%

   RN           5.000     50% - 10%       50% - 10%

 

e quando In = 1.625 e RN = 6.500 la stessa espressione, essendo invariati «k» e «j» ma soprattutto il rapporto In/RN, dà come risultato sempre 25%.

Ora potrebbe accadere, e di solito accade, che la decisione delle imprese di investire abbia come conseguenza nel processo produttivo successivo:

 

1) una modifica del rapporto In/RN

2) una modifica dei coefficienti «k» e «j»

3) una combinazione (meglio una interazione) dei tre

parametri.

 

La modifiche dei rapporti e dei coefficienti possono essere strutturali o cicliche.

Quando sono strutturali incidono in via definitiva sui rapporti del sistema economico ed implicano una modifica delle decisioni di investimento e risparmio sia a livello di imprese che di singoli redditieri.

Quando si tratta di modifiche cicliche implicano delle oscillazioni in positivo e negativo attorno ad un valore che, statisticamente, possiamo definire normale o norma che costituisce, nell’analisi economica, il trend di sviluppo (o di recessione)

Gli sviluppi strutturali e ciclici delle grandezze macroeconomiche e delle loro interazione con quelle microeconomiche saranno esaminate in appositi capitoli del presente Saggio, collocati più avanti.

Per la presente analisi è sufficiente individuazione l’effetto della modifica dei parametri indicati sulla quota dei profitti sul reddito complessivo.

In particolare si avrà:

a) un aumento del rapporto In/RN (che si potrebbe definire «produttività» degli investimenti) determina, fermi i coefficienti «k» e «j», un aumento della quota dei profitti;

b) un aumento della quota dei risparmi sui profitti «k» determina una riduzione della quota dei profitti sul reddito complessivo (sempre considerando invariati i restanti dati);

c) un aumento della quota dei risparmi sui redditi da lavoro «j» determina una riduzione della quota «k» dei profitti.

 

Dalla espressione (8) è possibile ricavare le condizioni affinché, alternativamente, profitti e redditi da lavoro siano massimi (100% del reddito complessivo) ovvero minimi (0% del reddito complessivo). In particolare sarà:

 

                                      In

                          k = ----------

                                    RN

per i profitti massimi e redditi da lavoro nulli (tutto il reddito complessivo è dei redditieri dei profitti e non esistono redditi da lavoro) e

                                     In

                          j = -----------

                                    RN

per i redditi da lavoro massimi e profitti nulli.

In ciascun caso è chiaro che la quota dei redditi risparmiata sarà esattamente uguale alla proporzione fra e investimenti e reddito nel sistema economico considerato.

L’analisi macroeconomica come sopra esposta è utile per capire la struttura e la dinamica della ricchezza complessivamente prodotta che però arriva sempre dalle unità elementari che sono le imprese sul lato della produzione e i percettori del reddito sul lato della utilizzazione della produzione medesima (quando sia diventata reddito).

Il nesso più profondo fra profitti e sviluppo generale del sistema economico deve avvenire tramite l’unificazione dei due punti di vista e la teoria conseguente potrebbe essere definita teoria unificata del profitto, indicando con essa la circostanza che sebbene le grandezze macroeconomiche abbiano un significato non indifferente in realtà il centro dell’attività economica di produzione e distribuzione della ricchezza restano le imprese e i reciproci rapporti di esse con i redditieri, quindi le loro aspettative e le loro capacità e possibilità di influire realmente sul corso degli eventi economici.

 

 

23. - La teoria unificata del profitto. - La teoria unificata del profitto deve tenere in considerazione anzitutto i soggetti che operano nel sistema economico, classificandoli come segue:

1) imprese

2) redditieri

Nell’impresa avvengono i processi di produzione e distribuzione della ricchezza come più sopra specificato, tenendo in considerazione, in primo luogo, l’equilibrio economico, finanziario e patrimoniale della struttura «operativa».

I redditieri possono essere coloro che partecipano in modo più o meno attivo al processo di produzione sia con un lavoro manuale che intellettuale sia fornendo mezzi finanziari.

Sia le imprese che i redditieri hanno due forme di ricchezza economica: il patrimonio e il reddito.

Il patrimonio delle imprese è strumentale ad un processo di produzione, in particolare al processo di creazione della ricchezza economica; il patrimonio dei redditieri è strumentale al consumo ma anche al risparmio, al potere e a tutti quegli istinti della natura umana tendenti all’accumulazione della ricchezza.

Per ciò che attiene ai valori del reddito è già stato specificato che per l’impresa capitalistica una parte dei profitti annuali devono essere accumulati per il rinnovo delle attrezzature produttive mentre la parte restante è normalmente divisa in due parti: una è distribuita ai detentori del capitale mentre un’altra è destinata all’aumento del patrimonio aziendale, incrementando in tal modo il valore patrimoniale del capitale investito da tutti i «capitalisti».

Il reddito che le imprese del sistema economico distribuiscono ai redditieri sotto forma di profitti e salari crea specifiche categorie di redditieri che sono sostanzialmente i detentori del capitale e i salariati ciascuno dei quali utilizza il reddito percepito in forme diverse che corrispondono sostanzialmente al consumo e al risparmio.

L’attività economica delle imprese e dei redditieri si svolge per mezzo di un processo decisionale ed operativo che riguarda:

a) per le imprese, il ciclo economico-produttivo come specificato nel paragrafo 20);

b) per i redditieri, le singole decisioni di risparmio, consumo e investimento.

Le decisioni relative al ciclo economico-produttivo possono essere definite microeconomiche in quanto riguardano l’unità produttiva singola, vale a dire l’impresa capitalistica (ma anche non capitalistica) che può assumere varie dimensioni economiche e quindi contribuire in vario modo alla formazione della ricchezza totale del sistema economico.

Le decisioni relative al risparmio, al consumo e all’investimento dei singoli redditieri possono essere definite macroeconomiche in quanto attengono in modo specifico all’equilibrio investimenti-risparmio che si genera nell’interno sistema economico.

Da un punto di vista aritmetico le condizioni microeconomiche per la determinazione del profitto possono essere sintetizzate nell’equazione seguente:

                (1) V.A. = PR + M + RL

dove V.A. è il valore aggiunto prodotto dall’impresa, PR il profitto netto, M l’ammortamento del capitale produttivo e RL i redditi da lavoro.

Il Valore aggiunto prodotto dall’impresa può essere definito anche come differenza fra il Valore della Produzione e gli acquisti dei fattori della produzione (beni intermedi), quindi con una equazione del tipo:

                        (2) VP - BI = V.A.

 

Il Valore della produzione costituisce la produttività tecnica dell’impresa e deriva dall’impiego dei fattori della produzione quali gli impianti, il lavoro, i servizi generali ecc.. Una equazione di siffatta produttività tecnica può essere ottenuta mettendo in relazione il volume degli investimenti (correnti ma anche degli anni passati) con il prodotto ottenuto. L’equazione sarebbe allora del tipo seguente:

                                (3) VP = A z

nella quale A rappresenta il valore degli investimenti e «z» rappresenta, per così dire, il rapporto di produttività tecnica delle attrezzature, altrimenti definito Prodotto/Capitale.

In alternativa alla (3) si può definire il Valore della Produzione in rapporto all’impiego del lavoro. In tal caso l’equazione potrebbe essere:

                               (4) VP = N t

nella quale N rappresenta gli occupati dell’impresa e t la loro produttività media (espressa in valore).

In questa prima parte dell’analisi si comincerà con l’utilizzo dell’equazione (3) che avrà come prima conseguenza l’equazione seguente:

                                (5) BI = A z h

vale a dire i Beni intermedi sono espressi come percentuale (h) sul valore lordo della produzione.

Per ciò che attiene al lato degli impieghi del Valore Aggiunto sono necessarie due equazioni: una per gli ammortamenti e una per i redditi da lavoro.

L’equazione degli ammortamenti potrebbe essere:

                                           A

                           (6) M = ---------

                                            n

 

dove A esprime il volume degli investimenti produttivi e «n» il numero di anni entro i quali devono essere recuperati per mantenere l’impresa nelle condizioni economico-produttive di efficienza.

Rispetto ai Redditi da Lavoro l’equazione potrebbe essere:

                               (7) RL = s N

nella quale «s» è il costo del lavoro medio per lavoratore e N il numero dei lavoratori retribuiti dall’impresa (e non necessariamente produttivi).

Con le equazioni sopra indicate la (1) può essere così riformulata:

                 (8) A z - A z h = PR + A\n + s N

L’equazione (8) esprime le condizioni dell’equilibrio mircoeconomico in quanto mette in relazione un valore (il Valore Aggiunto prodotto) con un altro valore (il Valore Aggiunto distribuito) e ciascuno di essi segue una propria autonoma determinazione, anche se vi sono fra i due connessioni e inferenze.

Le condizioni dell’equilibrio macroeconomico possono essere direttamente riprese dall’equazione (4) del paragrafo precedente quindi scrivere:

                    (9) In = k PR + j RL

nella quale il simbolo In va sostituito con il simbolo «A» che nel presente paragrafo definisce gli investimenti produttivi.

Le condizioni dell’equilibrio macroeconomico devono ora essere integrate con quelle relative all’equilibrio microeconomico, da cui:

         (10) z (k PR + j s N) - z h (k PR + j s N) =

                      = PR + (k PR + j s N)/n + s N

dalla quale segue che:

                   N (s + (j s)/n – z j s + z j s h)

(11) PR = ----------------------------------------

                           k (z – zh – 1\n) - 1

 

Una prima ipotesi semplificatrice della equazione (11) ma utile per capire i movimenti di fondo dei profitti, consiste nell’assumere l’ipotesi che la quota di risparmio sui redditi da lavoro («j») sia pari a zero. In tal caso la (11) si riduce all’espressione:

 

                                          N s

      (12) PR    = ----------------------------

                               k (z – zh – 1\n) – 1

 

Il denominatore della (12) è, in pratica, una equazione a se stante che governa la proporzione fra profitti e redditi da lavoro nel sistema economico. In particolare se:

                              k (z - zh - 1\n) > 1

i profitti saranno una percentuale del reddito complessivo minore dei redditi da lavoro mentre nel caso fosse < 1 ai profitti andrà una più elevata quota del reddito complessivo.

Una caratteristica importante dell’equazione (11) è la sua validità sia per l’equilibrio di una singola impresa sia per l’equilibrio di un aggregato di imprese (che può diventare tutto il sistema economico, nel caso limite). Tuttavia se nel caso dell’aggregato di imprese il valore del profitto PR difficilmente può assumere un valore negativo per ciascuna impresa è possibile che tale profitto abbia effettivamente un valore negativo, quando l’impresa distribuisce più ricchezza di quella correntemente prodotta e intacca il proprio patrimonio ovvero contrae debiti con banche o altri finanziatori. Questa condizione di disequilibrio economico può essere direttamente richiamata dall’equazione (8), in particolare:

                  (13)       A z – A z h - A/n - s N > PR

 ovvero

                  (14)      A z - A z h < A/n + s N

dove il primo membro della diseguaglianza (14) indica il valore aggiunto prodotto e il secondo quello distribuito.

Dato per assodato che una condizione siffatta non può perdurare nel tempo in quanto porta al dissolvimento del patrimonio economico dell’impresa è però evidente che in determinati periodi l’impresa capitalistica può incorrere in tale disequilibrio che determina in pratica sia una riduzione del capitale precedentemente accumulato sia una situazione di crisi nei profitti e negli investimenti produttivi.

La sussistenza delle condizioni microeconomiche di equilibrio indicate dall’equazione (8) deve essere ulteriormente integrata dagli aspetti meramente finanziari dell’impresa capitalistica, effetti peraltro non solo caratteristici ma spesso fondamentali al fine della determinazione della posizione di equilibrio economico.

Gli aspetti finanziari attengono a due distinte fattispecie:

a) effetti connessi con gli andamenti finanziari del normale ciclo produttivo;

b) effetti connessi con una vera e propria gestione finanziaria «autonoma» ed interna alla struttura aziendale.

 

Per gli effetti finanziari connessi con il normale ciclo produttivo occorre introdurre due equazioni specifiche, la prima indicante le entrate monetarie e la seconda le uscite monetarie.

E’ ovvio che le entrate monetarie sono connesse al ricavi dell’impresa, quindi in sostanza al valore «A z» dell’equazione (8): in particolare sarà:

                       (15)      E = e A z

nella quale il valore «e» esprime la percentuale di ricavi Az che sono effettivamente riscossi. Il valore «e» può essere minore di 1 ma anche maggiore di 1, quando in un certo periodo l’impresa si trova a riscuotere anche somme non riscosse in tempi precedenti, ovvero crediti pregressi.

Le uscite monetarie sono connesse ai costi dell’impresa di conseguenza la loro equazione sarà:

                 (16)          U = u (A z h + A + sN)

nella quale il valore A esprime il valore corrente degli investimenti produttivi o comunque dei fattori pluriennali acquistati dall’impresa.

Anche per le uscire il coefficiente «u» può essere maggiore, uguale o minore di 1, per le medesime ragioni riferite per le entrate.

Indicando con «r» il saggio d’interesse corrente e con R gli effetti finanziari complessivi si può scrivere l’equazione:

              (17)      R = r {(e Az) - (u Azh + A + sN)}

 

Se R > 0 gli effetti finanziari saranno chiaramente positivi e andranno ad aumentare il Valore Aggiunto Prodotto, determinando una maggiore disponibilità di risorse per i fattori della produzione (in particolare per il capitale); se R < 0 gli effetti finanziari saranno negativi e quindi per l’impresa vi sarà un aggravio di costi che determinerà una riduzione non tanto del Valore Aggiunto prodotto quando della disponibilità di tale valore aggiunto per i profitti correnti.

Gli effetti connessi con una autonoma gestione finanziaria attengono in modo specifico al carattere «finanziario» dell’impresa capitalistica e sono in grado, in pratica, di trasformare radicalmente le stesse condizioni di equilibrio economico, finanziario e patrimoniale.

La gestione finanziaria autonoma, per così dire, alla gestione industriale o commerciale, implica che l’impresa investa in attività finanziarie fruttifere parte dei propri mezzi economici disponibili e può trattarsi di investimenti in titoli di stato, in azioni di altre società a scopo di reddito o a scopo di controllo, in attività finanziarie diverse ovvero assumere la vera e propria caratteristica dell’impresa capitalistica riducendo sino all’eliminazione completa il carattere tecnico-produttivo sicché l’impresa diviene una finanziaria «pura» e quindi una holding, una banca, un’assicurazione ecc.

La gestione finanziaria autonoma si realizza nella estrema semplicità della formula:

                              (18) RF = r AF

nella quale RF rappresenta i redditi finanziari (interessi, dividendi, guadagni in conto capitale ecc.), r il saggio medio di rendimento delle attività finanziarie e AF il valore dell’investimento in attività finanziarie.

Come gli effetti finanziari della gestione corrente (quando sono positivi) anche la gestione finanziaria autonoma determina per l’impresa capitalistica un aumento del Valore Aggiunto prodotto e quindi una maggior disponibilità di risorse economiche da destinare ai fattori della produzione, non solo lavoro e capitale ma anche investimenti produttivi e impieghi di beni e servizi direttamente necessari al processo tecnico di produzione.

L’introduzione degli effetti finanziari autonomi determina una composizione specifica del Valore Aggiunto prodotto e il rapporto fra il Valore Aggiunto tecnico (A z - A z h) e il Valore Aggiunto finanziario (r AF) indica, in pratica, il grado di finanziarizzazione dell’impresa capitalistica che può diventare pari all’unità quando l’attività tecnica e l’attività finanziaria si fondono in una medesima attività.

L’introduzione della gestione finanziaria autonoma comporta un mutamento di prospettiva sia nelle condizioni microeconomiche che in quelle macroeconomiche dell’equilibrio.

In particolare è opportuno modificare le condizioni microeconomiche attraverso due strumenti analitici che sono il ciclo di vita completo degli impianti e la struttura patrimoniale dell’impresa.

Attraverso il ciclo di vita completo degli impianti il valore degli investimenti viene a coincidere con il costo sostenuto dall’impresa e quindi in pratica l’equazione relativa diviene:

           (19)         A z + r AF - A z h = PR + A + s N

nella quale r AF rappresenta il reddito prodotto dalle attività finanziarie AF al saggio medio di rendimento «r» e A rappresenta il volume degli investimenti produttivi.

L’equazione (19) rappresenta l’equilibrio economico ed ad essa va affiancata l’equazione che rappresenta per l’impresa l’equilibrio finanziario-patrimoniale e quindi:

            (20)           A + AF = FP + FT

 

nella quale il volume complessivo degli investimenti (A + AF) è pari al volume complessivo dei finanziamenti (FP, propri e FT, di terzi).

La condizione macroeconomica diviene quindi:

 

              (21)            A + AF = k PR + w RF

nella quale il volume complessivo degli investimenti correnti sia in attività tecnico-produttive che in attività finanziarie è pari alle quote di risparmio sui Profitti (k PR) e sulle Rendite finanziarie (w RF) in vario modo definite e/o definibili.

L’integrazione delle condizioni micro economiche con quelle macro economiche può avvenire ora su una base leggermente differente rispetto a quella precedentemente esaminata in assenza di attività finanziarie. In particolare possiamo ricavare dalla (21) l’espressione seguente:

               (22)        AF = k PR + w RF - A

 

che sostituita nella (19) ed opportunamente elaborata dà la seguente espressione per i profitti:

                  A (z - zh - r - 1) + rw RF - s N

PR = ---------------------------------------------------

                                     1 - rk

 

L’espressione indicata dà anzitutto un valore per i profitti minimi necessari, in condizioni date, per mantenere l’equilibrio economico nel tempo all’impresa e per determinare il necessario volume d’investimenti di carattere produttivo. Tale condizione è espressa dalla formula:

                                    A - w RF

               PR m = ---------------------------

                                             k

 

Ma l’equilibrio economico-finanziario durevole e lo sviluppo dell’impresa impongono anche la condizione del costo del lavoro massimo, per così dire sopportabile dallo sviluppo del valore aggiunto prodotto. Tale condizione è espressa nella formula:

                    s N M = A (z - zh - r - 1) + r w RF

Se l’impresa dovesse registrare un costo del lavoro più alto di quello appena indicato non avrebbe più attività finanziarie bensì passività finanziarie che anziché determinare un incremento del valore aggiunto prodotto da destinare alla remunerazione dei fattori della produzione si rovescerebbero in un onere finanziario netto per l’impresa. In questo caso l’equazione (20) diventa:

                (23)    A = FP + FT + DF

nella quale il valore DF esprime i debiti finanziari, vale a dire quei debiti che l’impresa deve contrarre con altre economie per procedere al finanziamento della gestione corrente.

 

 

24. - Profitti e prezzi. - L’impresa capitalistica attraverso l’impiego dei fattori della produzione acquisisce la propria dimensione tecnico-produttiva che si esprime in un flusso di produzione di merci o di servizi da collocare sul mercato a prezzi tali da conseguire l’equilibrio economico desiderato.

Quando sono presi in considerazione i prezzi di mercato la definizione di Valore Aggiunto prodotto e distribuito deve tenere conto sia dei flussi produttivi sia dei mezzi di produzione impiegati, sicché le equazioni individuate nel paragrafo precedente devono essere adattate alle nuove esigenze.

La condizione di equilibrio microeconomico sarà determinata in ogni caso dall’equazione:

 

           (1)         VP - BI + RF = PR + RL + A

 

nella quale VP è il valore della produzione, BI i beni intermedi utilizzati per la produzione, RF i redditi di natura finanziaria, PR i profitti, RL i redditi di lavoro e A gli investimenti produttivi il cui costo sommato a PR dà origine al profitto lordo per l’impresa.

Il valore della produzione VP sarà definito ora dal prodotto delle quantità vendute per il prezzo di mercato praticato, vale a dire:

                    (2)           VP = Q p

nella quale Q è la quantità venduta e p il prezzo.

Il valore dei beni intermedi utilizzati sarà semplicemente:

                    (3)              BI = Q p h

dove h rappresenta un valore compreso fra 0 e 1 e il rapporto fra Beni Intermedi e Valore della Produzione.

L’introduzione del valore Q implica un triplice conseguenza nei valori attinenti all’equilibrio che può essere così sintetizzata:

                    (4)               VP = Q’ p

                    (5)               BI = Q p h

                    (6)               RL = t N w

 

L’espressione (4) mette in evidenza che il valore della produzione VP è determinato dalla quantità venduta Q’ e dal prezzo di vendita, la (5) è invariata e rappresenta i Beni Intermedi, la (6) indica che i redditi da Lavoro sono determinati dal prodotto di t (ore di lavoro), N (numero di addetti) e w (costo del lavoro unitario medio).

Fra la quantità prodotta e la quantità venduta può essere stabilita una relazione del tipo:

                         (7)     Q’ = g Q

dove il valore «g» è compreso fra 0 e 1 ed indica la effettiva capacità dell’impresa di vendere le proprie merci.

Con una elementare sostituzione si ottiene pertanto:

                       (8)     VP = g Q p

che rappresenta comunque il valore della produzione venduta.

L’introduzione della variabile «t» tramite l’espressione (6) del costo del lavoro consente di specificare la quantità prodotta Q come il risultato dell’espressione:

                        (9)       Q = y t

nella quale il valore y rappresenta la produttività oraria del lavoro.

Con le espressioni sopra indicate la condizione dell’equilibrio microeconomico diventa:

      (10)             yt g p - yt p h + r AF = PR + A + t N w

mentre la condizione dell’equilibrio macroeconomico resta sempre:

       (11)                  A + AF = k PR + j RL

 

L’espressione (10) attiene ad un flusso di produzione rappresentante un ciclo completo di utilizzazione della capacità produttiva espressa dagli impianti A.

Utilizzando la medesima tecnica del precedente paragrafo si ottiene:

 

                        A + AF - j t N w

(12) PR = ------------------------------------

                                       k

che sostituita nell’espressione (10) dà origine all’espressione:

 

                                               A + AF - jtNw

(13) yt g p - yt p h + r AF = ----------------------- + A + tNw

                                                           k

L’espressione (13) con opportuni e semplici passaggi d’algebra dà come risultato il prezzo «p» attraverso la seguente espressione:

 

                  A (1+k) + AF (1-kr) + t N w (k - j)

(14) p =  -----------------------------------------------

                                       yt k (g - h)

 

Il numeratore della (14) contiene nei suoi tre addendi i mezzi impiegati dall’impresa per svolgere sia il processo di produzione tecnico che l’attività finanziaria propriamente intesa. In questo modo si può indicare con MI il totale dei mezzi impiegati e definire l’investimento in impianti produttivi, lavoro e attività finanziarie come composizione dei mezzi impiegati e in particolare:

 

(15)             A = a MI

(16)          t N w = b MI

(17)             AF = c MI

dove la somma (a + b + c) sarà sempre pari all’unità.

In questo modo la (14) si può scrivere:

                           MI [a (1+k) + b (k-j) + c (1-kr)]

(18) p = ----------------------------------------------------

                                      yt k (g - h)

 

La sostituzione così operata e la relativa modifica dell’equazione dei prezzi mette in evidenza come la combinazione dei mezzi di produzione incide sull’equilibrio economico, quindi sia sui prezzi che sulla distribuzione del valore aggiunto prodotto. Quello che diviene importante è quindi la combinazione fra i diversi fattori della produzione, quindi la distribuzione dei medesimi fra i diversi impieghi possibili che al presente sono stati limitati in Investimenti produttivi (A), Lavoro (t N w) e Investimenti finanziari (AF).

Un passaggio significativo delle equazioni sopra riportate attiene alla definizione del saggio di profitto.

Definiti con la variabile MI i mezzi impiegati nella produzione e con µ il saggio di profitto l’equazione (12) può essere riscritta nella forma seguente:

                          A + AF - j t N w

(19) µ MI = ------------------------------------

                                        k

che può essere ridotta all’espressione:

                          a + c - j b

(20) µ = --------------------------------

                                 k

che esprime in definitiva il saggio di profitto sul capitale investito.

L’espressione (20) esprime, per così dire, il saggio di profitto macroeconomico che è a tutti gli effetti un valore aggregato.

L’impresa capitalistica è però in qualche modo una unità elementare del sistema economico sicché può essere per lei relativamente indifferente la conoscenza del saggio macroeconomico del profitto ai fini della determinazione del proprio equilibrio economico. Così, per il sistema economico vale il secondo membro dell’equazione (19) ma per l’impresa singola (o anche per un settore d’attività) vale soprattutto il primo membro, vale a dire il rapporto fra il capitale investito e il profitto ottenuto e non vi è dubbio alcuno che ogni impresa avrà il proprio saggio di profitto così come ogni settore economico avrà il proprio. Alla fine l’aggregazione dei settori e delle imprese darà il valore dei profitti aggregati che rapportati al capitale aggregato darà, ovviamente, il saggio «aggregato» di profitto, o saggio macroeconomico.

L’equazione (19) è quindi un’altra espressione del profitto unificato e la sostituzione del primo membro nell’espressione (10) dove il valore PR viene sostituito con valore µ MI dà come prezzo d’equilibrio l’equazione:

                      MI (µ + a + b - rc)

(21) p = ------------------------------------

                                yt (g - h)

 

nella quale sono presenti solo elementi di carattere microeconomico ma soprattutto è assente il principale degli elementi macroeconomici, vale a dire k, la quota dei risparmi sui profitti aggregati.

L’espressione (21) afferma che un aumento del saggio di profitto determina un aumento del prezzo, a parità d’altre condizioni. Ma si dà il caso che nel processo di sviluppo dell’impresa capitalistica sono proprio le altre condizioni che cambiano e in particolare l’impresa singola modificherà nel corso del proprio sviluppo la composizione del capitale investito, quindi i coefficienti a, b e c.

In linea di massima l’incremento dell’aggregato (a+b), determinando come ovvia conseguenza il declino di c, genera un aumento del prezzo che significa in pratica che se l’impresa capitalistica sposta le proprie risorse dal settore strettamente finanziario a quello tecnico-produttivo dovrà necessariamente recuperare un maggior costo dell’investimento in attrezzature e lavoro. Tuttavia è altrettanto chiaro che sia un incremento quanto un decremento della composizione del capitale investito fra attività tecnica e attività finanziaria determina (anche perché in fondo questo è precisamente uno degli scopi del mutamento di tecnica) una variazione sia nella quantità prodotta y che del tempo di produzione t.

Supponiamo che il tempo di produzione t rimanga invariato e che la quantità prodotta sia determinata dall’espressione:

                     (22) y = MI (a+b) m

nella quale il coefficiente m, in generale non solo compreso fra zero e uno ma anche molto piccolo (ad esempio 1\100 o 1\200), esprime il rapporto fra mezzi economici investiti MI e flusso di produzione y per unità di tempo. La (22) sostituita nella (21) dà l’espressione:

                         MI (µ + a + b - rc)

(23) p = -----------------------------------------

                         MI [(a+b)m t (g - h)]

 

che è in grado di terminare il prezzo indipendentemente dalla conoscenza della effettiva quantità di mezzi economici investiti (MI).

L’espressione (23) ha una portata notevole per il sistema capitalistico in quanto consente di determinare l’influenza sul prezzo, quindi sull’equilibrio economico, delle diverse configurazioni della struttura tecnico-produttiva e finanziaria del capitale complessivamente investito. La (23) esprime in pratica la condizione di equilibrio microeconomico e può essere utilizzata per la ricerca del prezzo d’equilibrio di ciascuna impresa del sistema, singolarmente intesa. Oltre a questo la (23) indica le posizioni di equilibrio di una singola impresa quando il prezzo di mercato è diverso dal prezzo d’equilibrio. Per esemplificare si supponga:

Impresa 1

µ = 25% a+b = 40% c = 60% r = 30%

t = 10 g = 80% h = 30% m = 1\100

     

                  25% + 40% - 60% 30%

p = --------------------------------------------- = 23,5

                   (1\100) 40% 10 (80% - 30%)

 

Impresa 2

µ = 25% a+b = 60% c = 40% r = 25%

t = 10 g = 80% h = 30% m = 1\100

 

                      25% + 60% - 40% 25%

p = --------------------------------------------- = 18,3333

                   (1\100) 60% 10 (80% - 30%)

 

 

per cui a parità di saggio di profitto ottenuto il prezzo di equilibrio è diverso per le due imprese considerate.

In questo condizioni è chiaro che se le due imprese appartengono al medesimo settore e il prezzo corrente sul mercato è p = 20 l’Impresa 1 avrà un saggio di profitto del 18% mentre l’Impresa 2 avrà un saggio di profitto del 30%.

Queste differenze del saggio di profitto sono rilevanti per l’equilibrio economico ma non ancora determinanti in quanto la differente dimensione dell’impresa implica di fatto una differente massa di profitto assoluto, massa di profitto chiaramente rapportata al capitale investito. Così se nell’impresa 1 il capitale investito MI è pari a 1.000.000 mentre nell’impresa 2 è pari a 200.000 la prima impresa ottiene comunque 180.000 di profitti mentre la seconda ne ottiene solamente 60.000. Ma la questione non è finita qui. Il saggio di profitto, infatti, può essere determinato tramite l’equazione:

 

(24) µ = p [(a+b) m t (g - h)] - (a+b) + rc

 

e se l’Impresa 1 riesce a imporre al mercato un prezzo pari a 25 mantenendo inalterata la struttura produttiva è sufficiente che contenga una flessione della quantità venduta al 77% (g = 77%) per mantenere inalterato il saggio di profitto al 25%. Ma in effetti poiché il prezzo pari a 23,5 è un prezzo di equilibrio ma non di mercato l’impresa può ragionevolmente attendersi che sia g = 80% nel qual caso il saggio di profitto sarà pari al 28%, quindi a 280.000 in valore assoluto che è più di quanto l’impresa di piccole dimensioni investe complessivamente nel processo di produzione.

Con la differente struttura produttiva che ha in atto l’impresa di grandi dimensioni può mettere in crisi la piccola impresa che, verosimilmente, avrà scarsi investimenti in attività finanziarie e anche una struttura produttiva con un minor grado di produttività.

Per avere un’idea del fenomeno si supponga che sia:

 

Impresa 1 (Grande impresa)

a+b = 40% c = 60% r = 30%

t = 10 g = 80% h = 30% m = 1\100

 

Impresa 2 (Piccola impresa)

a+b = 80% c = 20% r = 25%

t = 10 g = 80% h = 30% m = 1\150

 

Con questi dati il mantenimento del saggio di profitto al 25% si realizza ad un prezzo di 23,5 per la grande impresa e di 37,5 per la piccola impresa, con una differenza di circa il 60% e se la grande impresa fissa un prezzo di 28,125 e si suppone che diventi anche il prezzo di mercato per i suoi conti il saggio di profitto si assesta al 34,25% mentre per la piccola impresa è semplicemente nullo.

In queste condizioni per la piccola impresa si pongono due alternative: uscire dal mercato o modificare la struttura della produzione e delle vendite in modo da ottenere quale profitto minimo da giustificare l’investimento in capitale. Una soluzione congrua potrebbe essere quella di differenziare sotto il profilo tecnico o commerciale il proprio prodotto in modo da coprire segmenti di mercato lasciati liberi dalla grande impresa fornendo, o dando la sensazione di fornire, un prodotto differente rispetto a quello della grande impresa e quindi praticare in funzione di tale vera o presunta differenziazione un prezzo congruo per il proprio equilibrio economico.