Saggio sul Capitalismo

 

 

 

LIBRO PRIMO

 

IL CAPITALISMO CLASSICO

 

PARTE SECONDA: I PRINCIPI DISTRIBUTIVI

 

 

 

CAPITOLO QUINTO

 

IL SALARIO

 

 

 

15. - I principi distributivi del valore aggiunto - Il valore aggiunto costituisce la ricchezza prodotta da una impresa o da un sistema economico, come già precedentemente esaminato. Il valore aggiunto è una grandezza economica ed in quanto tale possiede due accezioni:

1) Valore aggiunto prodotto

2) Valore aggiunto distribuito

La prima accezione attiene alla creazione della ricchezza da parte di una impresa o comunque di un organismo produttivo, la seconda attiene al modo in cui la ricchezza prodotta è ripartita.

Fra il Valore aggiunto prodotto e distribuito sussistono nessi ben precisi che attengono in modo specifico all’equilibrio economico e finanziario dell’impresa, nel senso che la produzione di ricchezza avviene attraverso determinate forme e in determinate condizioni economiche le quali poi incidono sulla sua ripartizione.

La produzione di Valore aggiunto è attuata all’interno dell’impresa attraverso l’organizzazione dei fattori della produzione che sono:

1) Beni strumentali

2) Lavoro manuale e intellettuale

3) Merci e materie prime

4) Servizi all’impresa

 

Ciascuno di questi fattori della produzione ha un costo di acquisizione e un correlativo costo di utilizzazione. L’acquisto e l’utilizzazione dei fattori della produzione costituiscono atti separati per l’impresa ma comunque atti fra di loro correlati in funzione degli obiettivi posti dal programma di sviluppo dell’impresa stessa. Attraverso la programmazione l’impresa definisce la propria dimensione e l’evoluzione da imprimere alla medesima, attraverso l’acquisto e l’utilizzazione l’impresa acquista la propria connotazione di organizzazione di mezzi economici e di uomini preordinata alla produzione della ricchezza.

La fase relativa alla produzione del Valore aggiunto è quindi una fase organizzativa e soggiace alle regole di ordine di composizione, di combinazione e sistematico come già esaminato in precedenza.

Nella produzione del Valore Aggiunto è necessario fare riferimento ai fattori della produzione interni all’impresa e ai fattori esterni: i primi sono costituiti dai Beni Strumentali e dal Lavoro, i secondi dalle Materie prime e dai Servizi acquisiti presso altre imprese. Il Valore aggiunto prodotto è il complesso delle risorse economiche che scaturisce sia in modo diretto dalla «combinazione produttiva», intesa in senso tecnico, sia in modo indiretto dalla complessiva gestione d’impresa comprendendo anche i redditi di natura finanziaria (se esistono) determinati dalla gestione finanziaria e i redditi di natura «straordinaria» dovuti ad operazioni non direttamente attinenti alla gestione corrente dell’impresa.

Il Valore Aggiunto prodotto può essere così espresso come la produttività economica dell’intera organizzazione dell’impresa e stabilisce un nesso con i Fattori della produzione impiegati.

L’utilizzazione dei Fattori della produzione, così come tutte le operazioni dell’impresa, avviene in condizioni di incertezza e di rischio e pertanto il risultato che ne deriva può essere in linea con le aspettative ovvero divergere sia in positivo che in negativo. Le divergenze fra attese e risultati ottenuti possono dipendere da numerosi fattori comunque riconducibili alle condizioni di fondo dell’equilibrio economico, finanziario e organizzativo dell’impresa dato dall’ordine combinatorio, sistematico e di composizione.

L’utilizzazione dei Fattori della produzione non è quindi un solo fatto di combinazione ma è anche un fatto che attiene all’organizzazione e ai rapporti che l’impresa intrattiene con l’ambiente in cui opera.

Determinati fattori della produzione, come un particolare strumento o particolari capacità professionali, hanno una loro potenzialità produttiva che deve però essere adattata alla particolare combinazione aziendale e in tale «passaggio» non è detto che il Fattore in esame conservi le proprie potenzialità di produzione. In più stabilire il preciso apporto che un singolo fattore dà alla complessiva produzione del Valore aggiunto può diventare impossibile, soprattutto quando non è possibile stabilire un nesso «tecnico» fra l’impiego del fattore e la quantità di prodotto ottenuta (come nel caso di impiegati amministrativi o di addetti al magazzino materie prime).

Sul lato del Valore aggiunto prodotto, che si può anche definire Risorse dell’impresa, sono posti quindi i seguenti componenti:

Valore della produzione di beni e servizi

Redditi di natura finanziaria

Redditi di natura straordinaria

 

La somma delle tre grandezze economiche indicate misura le Risorse economiche prodotte e percepite da una impresa in un determinato periodo di tempo (un giorno, un mese, un anno, dieci anni ecc.).

Il Valore aggiunto distribuito costituisce la remunerazione dei Fattori delle produzione definiti interni, quindi il Lavoro e il Capitale. Per ciò che attiene il lavoro si può produrre la seguente classificazione:

a) lavoro manuale

b) lavoro intellettuale

dove il primo indica il lavoro svolto da coloro che nell’impresa sono preposti all’esecuzione di determinate operazioni, normalmente ripetitive e perciò «specializzate» mentre il secondo indica il lavoro svolto o da addetti impiegatizi a livello intermedio o da dirigenti e amministratori che sono preposti in modo specifico e secondo una precisa gerarchia al funzionamento dell’impresa in quanto organizzazione economica di mezzi e di uomini.

Per ciò che attiene al capitale la classificazione può essere così determinata:

 

a) Interessi corrisposti ai finanziatori

b) Profitti di competenza del «proprietario»

 

Gli interessi corrisposti ai finanziatori ci sono tutte le volte che l’impresa fa ricorso al credito presso terzi come banche, fornitori, privati ecc. e costituiscono in qualche modo una partizione del profitto.

Rispetto ai profitti di competenza dei proprietari dell’impresa è necessario procedere ad una suddivisione della somma in almeno tre componenti che sono:

 

1) Ammortamenti del capitale fisso

2) Imposte sulla gestione

3) Profitti netti

 

La somma delle tre componenti dà origine al Profitto Lordo mentre il Profitto che rimane disponibile per il proprietario è solamente il Profitto Netto.

La somma dei Redditi di Lavoro e dei Redditi di Capitale dà origine al Valore Aggiunto distribuito che può essere maggiore, minore o uguale al Valore Aggiunto prodotto ma che nella normalità del sistema capitalistico è minore.

Un primo aspetto che lega il Valore Aggiunto Prodotto a quello Distribuito è il fatto che una parte del Profitto Netto può, in effetti, non essere distribuita ai proprietari dell’impresa ma rimanere vincolata all’organizzazione produttiva ed essere utilizzata per scopi d’investimento sia di carattere tecnico che di carattere finanziario. Un secondo aspetto, solo in apparenza di poco conto, è quello che mette in evidenza il costo dei finanziamenti attinti (espresso dagli Interessi passivi) e il ricavo derivante dall’impiego di mezzi monetari in attività finanziarie (espresso dai Ricavi finanziari).

Relativamente a questo diviene necessario, per quanto possibile, scindere la gestione propriamente «tecnica» con la gestione «finanziaria» e quindi valutare l’effettivo apporto al Valore Aggiunto totale delle due aree di gestione.

Il problema dei Profitti netti, quello della gestione finanziaria, quello della valutazione del contributo alla gestione delle attrezzature produttive e molti altri (in pratica tutti quelli attinenti alla gestione economica dell’impresa capitalistica) possono essere efficacemente compresi solo partendo dallo schema delle Risorse e degli Impieghi del Valore Aggiunto e quindi procedendo all’esame delle loro rispettive strutture e delle correlazioni fra i diversi componenti.

Il Conto del Valore Aggiunto può quindi essere così schematizzato:

 

RISORSE                                           IMPIEGHI

Valore della produzione                      Lavoro manuale

- Materie prime                                  Lavoro intellettuale

- Servizi all’impresa                            Oneri finanziari

Redditi finanziari                                 Ammortamenti

Redditi straordinari                             Imposte

Profitti netti

 

Lo schema sopra indicato costituisce poco più di un esercizio contabile per l’impresa ed esprime come la ricchezza è stata prodotta e distribuita. Compito dell’analisi economica dovrebbe essere quello di stabilire le condizioni che presiedono da un lato alla produzione delle Risorse e dall’altro alla distribuzione delle medesime fra i diversi Impieghi.

Tuttavia l’«arte di tenere i conti» non è così banale e scontata come potrebbe a prima vista sembrare e potrebbe riservare, soprattutto agli economisti di professione, spunti di riflessione non privi d’interesse ed anche inaspettate «rivelazioni analitiche».

Si supponga che lo schema sopra indicato sia «riempito» attraverso delle cifre che esprimano i valori di una ipotetica impresa riferiti per esempio ad un anno di attività e che essi siano, in pratica:

 

RISORSE

Valore della produzione                   UM      1.000

- Materie prime                               UM         400 (-)

- Servizi all’impresa                          UM        200 (-)

Redditi finanziari                               UM        300 (+)

Redditi straordinari                           UM        100 (+)

Totale Risorse                                  UM          800

 

IMPIEGHI

Lavoro manuale                                UM        200

Lavoro intellettuale                            UM       120

Oneri finanziari                                   UM         80

Ammortamenti                                   UM       300

Imposte                                             UM         60

Profitti netti                                        UM         40

Totale Impieghi                                   UM       800

 

Dai dati sopra esposti risulta che:

Valore della Produzione                     UM         1.000

- Beni intermedi                                  UM            600

Valore Aggiunto «tecnico»                  UM            400

Redditi finanziari                                 UM            300

Redditi straordinari                              UM           100

Valore Aggiunto «finanziario»               UM           400

Valore Aggiunto Prodotto                    UM            800

 

La scomposizione del Valore Aggiunto prodotto è un fatto che non ha solo rilevanza dal punto di vista contabile ma ne ha anche da un punto di vista strettamente economico in quanto indica come l’impresa produce le proprie risorse economiche e quindi come gestisce la produzione e, in generale, sui quali basi è amministrata.

Così come sono scomposte le risorse prodotte possono essere scomposti anche gli impieghi mettendo da un lato i Fattori della produzione tecnici e dall’altro i Fattori finanziari. In questa scomposizione si pongono però dei problemi di imputazione in quanto nella sezione finanziaria non vi andranno solo gli interessi passivi ma anche una parte dei profitti netti e delle relative imposte nonché quella frazione di costo del lavoro che si riferisce agli addetti del settore specifico (ammesso che esista nell’impresa). Se per il momento possiamo soprassedere su quest’ultimo aspetto dell’imputazione per ciò che attiene alla imputazione dei profitti e delle imposte sembra ragionevole che essa sia fondata sulla proporzione fra i Fattori tecnici e quelli finanziari rispetto al Valore aggiunto totale. Con i dati sopra esposti i Fattori tecnici ammontano a 620 UM (Lavoro e Capitale) che costituiscono il 77,5% del Valore aggiunto, ne segue quindi la seguente ripartizione del Valore Aggiunto distribuito:

Lavoro                                          UM         320

Ammortamenti                               UM         300

Imposte                                          UM          46,5

Profitti netti                                     UM          31

Valore Aggiunto «tecnico»               UM        697,5

 

Oneri Finanziari                                UM          80

Imposte                                            UM          13,5

Profitti netti                                       UM            9

Valore Aggiunto «finanziario»             UM        102,5

Valore aggiunto distribuito                  UM        800

 

La semplice analisi di questi altrettanto semplici dati, costruiti senza particolari accorgimenti, mostra che vi è uno squilibrio fra le risorse prodotte dalle gestione «tecnica» e la ricchezza distribuita ai Fattori tecnici, vale a dire:

 

Valore aggiunto prodotto                       UM    400

Valore aggiunto distribuito                      UM    697,5

Disavanzo della gestione tecnica              UM    297,5

 

E’ altrettanto evidente che nella gestione finanziaria si è prodotto un avanzo di pari importo, così determinato:

 

Valore aggiunto prodotto                         UM     400

Valore aggiunto distribuito                        UM     102,5

Avanzo della gestione finanziaria               UM      297,5

 

Il pareggio del disavanzo della gestione tecnica con quello della gestione finanziaria costituisce un primo passo verso l’effettiva analisi della posizione economica dell’impresa capitalistica e indica in ogni caso un nesso fra le due aree di gestione che non può essere disconosciuto sia a livello analitico che, meno che meno, a livello di gestione d’impresa.

I semplici dati sopra esposti inducono tuttavia ad ulteriori elaborazioni e considerazioni, una delle quali è la seguente, espressa in termini numerici:

Valore aggiunto tecnico prodotto               UM    400

Valore aggiunto tecnico distribuito             UM     666,5

ai fattori

Disavanzo dell’area «tecnica»                     UM   266,5

 

Valore aggiunto finanziario prodotto           UM     400

Valore aggiunto finanziario distribuito          UM      93,5

ai fattori

Avanzo dell’area «finanziaria»                     UM    306,5

Profitto netto                                               UM     40

 

Questo schema indica il contributo delle due aree gestionali alla formazione del profitto d’impresa che è comunque un valore unico che scaturisce dal totale dei ricavi contrapposti al totale dei costi di gestione.

La lettura dei dati contabili dice che il Lavoro e il Capitale impiegati nella produzione tecnica hanno prodotto un valore aggiunto pari a UM 400 e che hanno determinato per l’impresa un flusso in uscita, quindi un costo di utilizzazione, pari a UM 666,5 generando un disavanzo di UM 266,5.

I dati contabili sopra indicati costituiscono la rappresentazione dell’equilibrio (nel caso specifico squilibrio) economico mentre le determinanti del risultato ottenuto vanno ricercate attraverso un’analisi di come l’impresa ha prodotto le risorse e di come le ha impiegate.

Rispetto alla gestione tecnica l’impresa ha impiegato Lavoro e Capitale dalla cui combinazione è scaturita una produzione di merci o di servizi che ha determinato quel particolare volume di vendita e soprattutto quel particolare volume di Valore Aggiunto. In termini estremamente semplici il rendimento (o produttività) è stata, rispetto al costo di utilizzazione:

                   Produzione                        1.000

                                                      -------------- =            1,6129

                       Costo                             620

 

per la produzione lorda e

 

               Valore aggiunto                            400

                                                             -----------  =                  0,6452

               Costo                                           620

 

per la produzione netta o valore aggiunto.

I valori sopra indicati, con la eccezione del Valore Aggiunto, hanno una derivazione «tecnica», nel senso che a fronte di un valore della produzione vi è una quantità di merce o di servizi prodotta mentre a fronte di un costo dei fattori impiegati vi sono attrezzature produttive e personale ciascuno dotato di determinate caratteristiche tecniche e che, opportunamente combinati, hanno dato origine a quel determinato livello della produzione.

Rispetto alla gestione finanziaria l’impresa ha acquisito capitali finanziari, in qualunque forma essi si siano presentanti, sostenendo un costo pari a UM 80 mentre dall’impiego dei fondi finanziari ha ottenuto un ricavo pari a UM 300 ai quali vanno aggiunte UM 100 di redditi di natura straordinaria. Utilizzando il medesimo schema si ottiene:

 

           Valore aggiunto                            400

                                                         ----------- = 5               

                Costo                                        80

 

Per i valori finanziari il rapporto trovato è il solo possibile non essendoci, in pratica, nessuna produzione tecnica.

Nel semplice esempio numerico appena riportato vi è un fatto degno di nota e cioè che il Valore Aggiunto prodotto dalla gestione tecnica è inferiore al costo dei Fattori (Lavoro e Capitale) e questa circostanza deve essere attentamente valutata.

Un primo elemento di valutazione attiene alla circostanza se effettivamente il valore del Lavoro e del Capitale impiegato è quello espresso dai numeri indicati.

L’impresa potrebbe aver costruito, per esempio, dei macchinari al proprio interno che poi ha utilizzato per lo svolgimento del processo di produzione: in questo caso è necessario rettificare il valore della produzione, incrementandolo del valore dei lavori interni (o in economia, come anche si dice) che sono costituiti dal costo delle materie prime, del lavoro e degli strumenti utilizzati. La costruzione di macchinari «in economia» significa che una parte del lavoro e del capitale è impiegata nella produzione di «merci» che saranno poi utilizzate per produrre altre merci, ne segue quindi che una parte del costo del lavoro e del costo di utilizzazione dei fattori pluriennali (gli ammortamenti) nonché, ovviamente, il costo dei materiali impiegati deve essere opportunamente rettificato. Supponiamo che tale valore sia pari a UM 100.

Un secondo elemento di valutazione attiene alla produzione per il mercato. Il valore della produzione, espresso in UM 1.000, è dato dalla quantità venduta per il prezzo di vendita (per esempio 200 unità x 5 UM) ma non è detto che la quantità prodotta sia proprio 200 unità in quanto l’impresa, quasi sicuramente, detiene in magazzino dei prodotti finiti. Supponiamo che tali scorte siano UM 5 x 20 unità, quindi UM 100.

Un terzo elemento attiene, in modo analogo al precedente, alle scorte di materie prime per le quali si è sostenuto un costo di acquisizione ma poiché la loro utilizzazione è rimandata a futuri processi produttivi il loro costo «attuale» deve essere limitato al valore della quantità effettivamente impiegata per la produzione corrente. Supponiamo che tali scorte ammontino a UM 100.

Con i dati indicati il conteggio del Valore Aggiunto diventa:

Valore aggiunto tecnico prodotto         UM    500

+ Lavori interni                                    UM    100

+ Scorte di prodotti                             UM    100

Totale della produzione                        UM    700

 

Valore aggiunto tecnico distribuito        UM    620

ai fattori

Avanzo dell’area «tecnica»                   UM     80

Valore aggiunto finanziario prodotto      UM   400

 

Valore aggiunto finanziario distribuito     UM      80

ai fattori

Avanzo dell’area «finanziaria»                 UM   320

Profitti (al lordo delle imposte)                UM   400

 

con la conseguenza che la produttività diventa:

              Produzione             1.200

                                       -------------- = 1,9355

                Costo                      620

 

per la produzione lorda e

 

                Valore aggiunto                  700

                                                    ----------- = 1,129

                    Costo                              620

 

per la produzione netta.

Una volta determinata la ricchezza complessivamente prodotta è necessario capire come questa sia distribuita fra i diversi Fattori della produzione. Nel caso assunto ad esempio i dati contabili sono, in sintesi:

Valore aggiunto tecnico                        UM       700

Valore aggiunto finanziario                    UM       400

Totale Valore Aggiunto prodotto          UM     1.100

 

Costo del lavoro                                  UM        320

Ammortamenti                                      UM       300

Interessi ai finanziatori                           UM          80

Profitti al lordo delle imposte                 UM        400

Totale Valore Aggiunto distribuito         UM     1.100

 

Il primo fondamento della distribuzione del Valore Aggiunto Prodotto è dato dal fatto che l’impresa capitalistica non produce «semplicemente» merci ma produce ricchezza economica ed anzi produrre merci può essere talvolta persino irrilevante ai fini della produzione di ricchezza. Da questa proposizione discende che lo schema sopra indicato può essere ritenuto valido sia per quelle imprese che producono merci che per quelle che producono servizi di varia natura (trasporti, energia, finanziari, commerciali ecc.).

Un altro importante elemento che presiede alla distribuzione del Valore Aggiunto è dato dalla dimensione dell’impresa e dal suo posizionamento in un determinato settore sia in riferimento ai concorrenti diretti sia al mercato di collocazione delle merci e dei servizi prodotti.

Ma uno degli elementi che risultano essere più determinanti per la suddetta distribuzione è costituito indubbiamente dalle «modalità» attraverso le quali il Fattore Lavoro si inserisce nell’impresa.

L’impresa capitalistica è una impresa economica e conseguentemente per il capitalista o per gli amministratori che l’oggetto dell’attività sia la produzione di computers o di aerei o di servizi di trasporto ha una importanza assolutamente relativa in quanto comunque vi è un capitale economico investito che, attraverso la gestione dell’attività, deve necessariamente consentire un congruo profitto.

Da un punto di vista tecnico è chiaro che il Fattore Lavoro si inserisce nell’impresa attraverso modalità differenti rispetto al tipo di produzione, al livello di specializzazione raggiunto, alle dimensioni dell’impresa ecc. ed è noto che le grandi dimensioni dell’impresa capitalistica comportano una fitta rete organizzativa interna nella quale vi sono addetti alla produzione ma anche addetti all’amministrazione, intesa questa in senso lato: ciascun addetto svolge una propria mansione che deve essere opportunamente remunerata.

Ora potrebbe essere relativamente semplice calcolare il rendimento, in termini di quantità prodotta, degli addetti alla catena di montaggio o comunque alla produzione: se 1.000 operai impiegati per una giornata di lavoro di 8 ore danno un risultato di 80.000 unità prodotte significa che, in media, ogni operaio ha prodotto 10 unità all’ora anche se in effetti ciascuno dei 1.000 operai è destinato allo svolgimento di una o poche operazioni ben specifiche.

Data per scontata (anche se non lo è punto) la correttezza di questo ragionamento si pone il problema immediato di dare una valutazione economica sia alla produzione così ottenuta sia all’indubbio «contributo» che il Fattore Lavoro ha dato alla produzione.

Per produrre quel determinato flusso di produzione il Fattore Lavoro è stato impiegato in quella quantità (1.000 unità), per un certo periodo (8 ore) e fornito di determinati «macchinari» che hanno consentito lo svolgimento tecnico delle operazioni necessarie per pervenire dalla materia prima al prodotto finito.

Si supponga, come è stato fatto nell’analisi economica fino ad ora, che la dotazione di mezzi di produzione sia modificata e che vi sia stato un «accrescimento tecnologico» in grado di aumentare la produttività per addetto da 10 unità a 12 unità all’ora: in tale evenienza la produzione complessiva di otto ore di lavoro sarebbe pari a 96.000 unità.

Nella propria «semplicità matematica» il Fattore Lavoro è rimasto invariato mentre il Fattore Capitale si è accresciuto nel senso che l’impresa o ha sostituito i macchinari esistenti o ha introdotto alcune modifiche tecnico-produttive che le hanno consentito di aumentare la produttività nei termini indicati.

La valutazione dell’incremento della produzione deve essere inquadrato nella generale amministrazione e organizzazione dell’impresa, tenendo conto che lavoro e capitale sono due dei fattori della produzione ai quali si affiancano le materie prime impiegate e i servizi generali. In particolare lavoro e capitale determinano un incremento del valore delle materie prime e dei servizi (il valore aggiunto) che è comunque un valore unitario (come già visto nel Capitolo Secondo) che deve essere ripartito fra i due fattori indicati.

I criteri di ripartizione del Valore Aggiunto prodotto possono prendere le mosse sia dal lavoro che dal capitale ed hanno in ogni caso due limiti: un minimo e un massimo. Il limite minimo per il lavoro è dato dal prodotto del costo del lavoro necessario per il sostentamento dei lavoratori impiegati per il numero delle ore e degli addetti impiegati, il limite massimo è teoricamente il Valore Aggiunto prodotto (in questo caso i profitti saranno nulli) tenendo però sempre conto dell’ammortamento del capitale tecnico investito che costituisce per l’impresa capitalistica comunque un costo. Il lavoro potrebbe anche non avere un limite massimo quando l’impresa prima e la collettività poi si assumano l’onere di retribuire gli addetti oltre il limite del Valore Aggiunto prodotto (per esempio per scopi sociali, ma anche per un mero spreco di risorse).

Il limite minimo della remunerazione del capitale è dato dalla somma necessaria al rinnovo delle attrezzature (ammortamento) mentre il limite massimo è in ogni caso raggiunto quando il Valore Aggiunto prodotto viene distribuito al lavoro al suo minimo valore.

Poiché il Valore Aggiunto distribuito ai salari discende da un rapporto giuridico nel quale l’impresa è debitrice e il lavoratore è creditore è chiaro che la determinazione del valore del lavoro impiegato (e quindi la retribuzione spettante agli addetti) precede in ogni caso la determinazione del profitto lordo o netto che sia, e questo vale anche quando per precisi accordi contrattuali la retribuzione è fissata in funzione della «produttività» del lavoro.

Il problema dell’impresa capitalistica non consiste nel determinare la «giusta» quota di Valore Aggiunto prodotto al lavoro o al capitale in funzione della loro «quantità impiegata» quanto nel determinare un «ordine combinatorio» di tre fattori: la produzione economica complessiva (risorse), la remunerazione al lavoro e la remunerazione al capitale.

Se il lavoro produce un certo flusso di produzione ha diritto sia da un punto di vista economico che giuridico (ed anche etico) ad una retribuzione (per esempio in funzione della «produttività»). Tuttavia se quel flusso di produzione è venduto dall’impresa, per esempio, al 30% può diventare difficile per i lavoratori riscuotere il loro compenso in quanto la produzione tecnica non è stata trasformata in produzione economica (tramite la cessione dei prodotti). L’impresa economica in questo caso fallisce (ma questo è un aspetto eminentemente giuridico) ma da un punto di vista strettamente economico significa semplicemente che il lavoratore avrebbe dovuto percepire una retribuzione rapportata non alla quantità prodotta ma a quella venduta e quindi percepire, in linea di massima, il 30% della retribuzione ordinaria, anche se la produttività «fisica» è stata in linea con le attese dell’amministrazione dell’impresa (quindi del cosiddetto capitalista).

Quando l’amministrazione aziendale pone in atto le proprie strategie produttive configurando per il futuro determinati rapporti fra tutte le componenti della dimensione definisce anche quale deve essere la produttività non solo del lavoro o del capitale ma dell’intero sistema d’impresa, compreso il rendimento delle materie prime, il livello delle scorte giacenti, ovviamente il livello delle vendite e molti altri elementi che incidono tutti sull’ordine combinatorio, sistematico e di composizione dal quale deriva l’equilibrio economico, finanziario e patrimoniale. La scelta di una determinata «combinazione produttiva» è fatta in funzione del rendimento complessivamente atteso, vale a dire del profitto netto previsto, considerando quindi tutti gli elementi rilevanti per la definizione dell’equilibrio economico.

Come già affermato l’impresa capitalistica opera in regime di rischio che è un rischio combinatorio, sistematico e di composizione; l’ottenimento dell’equilibrio economico non avviene in modo spontaneo ma con una metodica applicazione di determinate operazioni preordinate e soprattutto messe a punto prima in un programma generale che indirizza la gestione nelle sue linee essenziali e quindi in una frammentazione del programma che prevede l’applicazione concreta di tutte le operazioni necessarie per raggiungere i risultati voluti nonché, ovviamente, di un costante controllo fra programmi e risultati che dia all’impresa la sicurezza di andare nella direzione voluta dagli amministratori.

E’ in questo contesto di programmazione che si inserisce la produzione e la distribuzione del valore aggiunto.

Quando una impresa capitalistica formula i propri programmi di produzione e di vendita compie anche una valutazione del rendimento del lavoro e del capitale nonché del loro «valore» e se i programmi di vendita fanno presagire ad un consistente valore aggiunto è possibile che le retribuzioni siano aumentate di una certa percentuale rispetto a quelle medie esistenti nel sistema economico.

Il valore del lavoro può essere «agganciato» ad un concetto di pura sussistenza o alternativamente al rendimento manifestato nell’atto produttivo ma in ogni caso deve rapportarsi da un lato al Valore Aggiunto prodotto e dall’altro alle «esigenze» dell’impresa che sono un congruo profitto per il capitalista e un necessario accantonamento di ricchezza per il rinnovo delle attrezzature produttive.

In altri termini l’impresa capitalistica è costituita da un lato da una potente organizzazione produttiva di mezzi e di uomini che producono giornalmente un determinato volume di ricchezza e dall’altro ha il «problema» di distribuire tale ricchezza fra chi ha partecipato in modo diretto o indiretto al processo produttivo intenso nel senso più ampio del termine. In questo processo distributivo vi sono elementi «tecnici» come la produttività ma vi sono anche elementi economici come il volume effettivo delle vendite ed elementi che attengono all’organizzazione quali i rapporti di forza fra i detentori del capitale e i lavoratori. Poiché nella grande impresa capitalistica è la regola incontrare al vertice aziendale non i puri capitalisti ma amministratori a loro volta retribuiti in funzione di una non meglio specificata produttività il processo di distribuzione del valore aggiunto è fondato principalmente tenendo conto dell’equilibrio economico (quindi le retribuzioni non possono superare il valore aggiunto prodotto) e della esigenza di assegnare ai detentori del capitale un «congruo» profitto. In questo contemperare le esigenze dei lavoratori e dei capitalisti, ed ovviamente le esigenze dell’equilibrio economico durevole dell’impresa, vi è lo spazio per l’accordo fra due classi sociali (una delle quali, il lavoro, tendenzialmente «debole») affinché la potente macchina produttiva costituita dall’impresa capitalistica possa adeguatamente svilupparsi per creare ulteriore ricchezza da distribuire. Che poi la potenza economica e finanziaria delle grandi imprese capitalistiche metta a rischio non solo la distribuzione del Valore Aggiunto ma instauri di fatto un dominio sul mercato sia dei fattori che dei prodotti e, ovviamente, sull’ambiente che la circonda piegandolo in pratica alle proprie esigenze «produttive» costituisce un fatto non solo di per sé evidente ma così cruciale per l’intera umanità da essere oggetto di studio della teoria economica, della sociologia, della filosofia, della politica e della storia.

 

 

16. - Il salario come reddito. - Il lavoro manuale ed intellettuale, vale a dire le prestazioni a pagamento verso le imprese, costituisce il primo e, in un certo senso, l’unico fattore della produzione.

Nell’impresa capitalistica il lavoro assume un significato particolare in quanto l’organizzazione produttiva, fondata sulla divisione del lavoro, esige sia una determinata specializzazione sia un’altrettanto determinata gerarchia delle funzioni ed è quasi impossibile stabilire se è più importante chi sta alla base o viceversa chi sta al vertice dell’organizzazione, anche se, è abbastanza «naturale» pensare che chi sta al vertice dell’organizzazione aziendale dovrebbe possedere alcune qualità professionali ma anche umane che in linea di massima presentano un grado di sostituibilità più rigido che non chi sta alla base (è più facile sostituire un portiere che un direttore di marketing, anche se l’elevata specializzazione pone, anche ai livelli più bassi, un grado di flessibilità sempre minore).

L’impresa capitalistica, superata la prima fase del proprio sviluppo, è diventata soprattutto una organizzazione funzionale in cui un operaio o un dirigente devono svolgere una determinata «funzione» alla quale sono connesse determinate operazioni aziendali in difetto delle quali l’intera «macchina» aziendale non svolge più la propria funzione di produttrice di ricchezza economica (o non la svolge al meglio di sè).

I prestatori di lavoro offrono le loro capacità produttive in vista di un reddito con il quale vivere una vita dignitosa o agiata, a seconda del posizionamento nella gerarchia aziendale e l’impresa li ricompensa a seconda della funzione svolta all’interno dell’organizzazione e dei mezzi economici effettivamente disponibili (e che le prestazioni offerte hanno, in parte, contribuito a creare).

Il fatto che l’organizzazione dell’impresa capitalistica, e segnatamente della grande impresa, sia una struttura «piramidale» ha l’ovvia conseguenza che coloro che sono alla base, essendo più numerosi di coloro che sono al vertice, hanno a disposizione una quantità di risorse economiche in media minore da percepire come reddito e questo non certo perché siano meno «produttivi» ma, si potrebbe dire, per una semplice questione aritmetica.

La percezione di un determinato reddito è anzitutto uno stimolo per coloro che sono impiegati nell’impresa a svolgere una determinata funzione e secondo determinati ritmi e modalità.

Nelle moderne imprese capitalistiche la motivazione del guadagno induce i prestatori di lavoro ad offrire le loro capacità professionali, che possono essere le più varie, per trarre un certo reddito che consente una determinata posizione sociale.

In questo contesto l’esistenza di una struttura produttiva potente quale è l’impresa capitalistica giustifica l’esistenza di una «struttura preparatoria» altrettanto potente e raffinata, costituita dall’istruzione nei suoi vari gradi, che consente a coloro che passano dall’età non lavorativa a quella lavorativa di assumere una preparazione «di base» per entrare nel mercato del lavoro, e quindi di trovare impiego nell’impresa capitalistica intesa nel senso lato del termine, secondo determinati schemi e soprattutto secondo determinati livelli. L’impresa capitalistica, per svolgere le proprie funzioni, ha bisogno di una gamma molto ampia di prestazioni lavorative: ha bisogno di operai, di impiegati e di dirigenti ma ha bisogno anche di qualcuno che si occupi della pulizia dei locali o della loro vigilanza, ha bisogno di una struttura sanitaria, pubblica o privata che sia, che fornisca le necessarie prestazioni mediche a tutti i dipendenti, ha bisogno di una struttura legale che curi i molteplici rapporti giuridici e le molteplici controversie che possono intercorrere fra la struttura e altre imprese o con membri della struttura medesima e di numerosi altri servizi. In questo modo l’impresa capitalistica rimane il centro dell’attività economica ed attraverso la ricerca del costante sviluppo della propria organizzazione e quindi delle proprie risorse economiche dà l’opportunità ad una vasta categoria di persone di trovare «occasioni di lavoro», subordinando le medesime alle proprie esigenze economico-finanziarie.

Attraverso la creazione di un operaio specializzato o di un maneger l’impresa capitalistica, in qualche modo, «spossessa» il prestatore d’opera della propria identità nel senso che non diviene più importante per lo sviluppo dell’impresa la presenza di un certo individuo nell’organizzazione ma è l’organizzazione che impone all’individuo un adattamento particolare alle sue proprie esigenze. Quando lo sviluppo economico ha raggiunto un determinato stadio le modalità di funzionamento dell’impresa capitalistica sono allargate all’intero sistema di produzione sicché anche attività produttive «tradizionali» come l’artigianato, la coltivazione della terra o l’esercizio di una «professione» (medico, avvocato, ingegnere ecc.) subiscono inevitabilmente l’influsso dell’impresa in oggetto, sia in modo diretto (organizzandosi, per quanto possibile, secondo gli schemi propri dell’impresa capitalistica) sia in modo indiretto, vale a dire cercando e trovando nell’impresa capitalistica il proprio mercato di sbocco.

In questo contesto «istituzionale», nel quale un po’ tutte le attività economiche ruotano intorno all’impresa capitalistica, il reddito percepito dalle varie categorie di lavoratori è il segno distintivo non solo (e non tanto) della posizione sociale quanto della capacità dell’impresa capitalistica di differenziare i «compiti produttivi», creando nuove professioni e professionalità nonché adattando quelle esistenti alle proprie esigenze.

Nella sua qualità di reddito il salario, ma in generale tutte le retribuzioni e i guadagni ottenuti dai prestatori di lavoro manuale e intellettuale, sia con vincolo di subordinazione che senza vincolo di subordinazione (giuridica) all’impresa, costituisce la più importante fonte di guadagno per la popolazione di una nazione e, in generale, del pianeta. La dimensione di questo reddito è governata, in linea di massima, dalla produttività complessiva dell’impresa (e quindi dell’intero sistema economico): tuttavia tale reddito, come tutte le grandezze economiche, è soggetto nel corso del tempo a fluttuazioni che dipendono in parte dall’andamento delle imprese ed in parte dalla struttura e dalla evoluzione della cosiddetta «offerta di lavoro».

Nel sistema capitalistico vi sono in ogni istante dei lavoratori che sono stabilmente occupati, altri che stanno per uscire per questioni di anzianità o di volontà propria, altri ancora che non hanno occupazione stabile ma che nemmeno la desiderano e altri che non riescono, se non marginalmente, ad entrare nel modo produttivo (quindi nell’impresa). Coloro che sono inseriti nel mercato del lavoro ma non hanno impiego nelle attività produttive sono i cosiddetti disoccupati. Questa categoria di «prestatori d’opera» potrebbe, in linea puramente teorica, «offrire» un salario più basso della media esistente nelle imprese affinché le medesime siano indotte ad assumerli ma tale concezione non tiene in debito conto del carattere assolutamente «rigido» del sistema d’impresa fondato sull’equilibrio durevole sia economico che finanziario che organizzativo che determina e condiziona in ogni istante la «domanda» di prestazioni lavorative fissando anche il livello del reddito.

In altri termini il sistema capitalistico, attraverso la sua istituzione più «sacra» che è l’impresa capitalistica, produce un flusso interminabile di merci e servizi che però deve sempre essere compatibile con l’equilibrio economico durevole dell’impresa. Il che significa che l’assunzione di lavoratori e il livello retributivo sono determinati dalle condizioni economiche dell’impresa e che le fluttuazioni dell’attività produttiva determinano delle punte e delle stasi nella richiesta di lavoro, punte e stasi che si riflettono ovviamente sull’assetto del mercato del lavoro.

In un sistema economico con un’alto grado di sindacalizzazione è possibile che vi siano dei periodi di alta conflittualità fra imprese e lavoratori, conflittualità che significa per l’impresa un costo sia in termini di produttività perduta sia in termini di costo del lavoro comunque da sostenere. In questi periodi la sindacalizzazione e la conflittualità pongono il rapporto di lavoro, quindi il reddito che ne consegue, su un piano di rigidità costringendo le imprese ad organizzare la produzione in modo da far a meno, per quanto possibile, del fattore lavoro anche se questa scelta ha comunque dei costi.

Il fatto che l’organizzazione dell’impresa capitalistica imponga una determinata struttura gerarchica con una base ed un vertice ed il fatto piuttosto naturale delle differenze di reddito percepito fra chi sta alla base e chi sta al vertice ha una conseguenza particolarmente significativa sulla struttura di una società nella quale predomina la produzione capitalistica: tale conseguenza è la determinazione delle cosiddette «classi sociali» che vengono distinte in funzione del reddito mediamente percepito dagli appartenenti alle classi medesime. Occorre però subito precisare che una serie piuttosto complessa di fattori, il principale dei quali è comunque lo sviluppo del sistema economico nel suo complesso, può determinare e di fatto determina un livellamento nei redditi fra gli appartenenti ad una determinata collettività per cui anche la forte distinzione sociale che esisteva all’inizio dello sviluppo capitalistico con il passare del tempo è andata attenuandosi di molto, anche se in una certa misura è sempre e comunque presente.

Come più sopra accennato l’impresa capitalistica ha necessità di una vasta gamma di servizi di lavoro, cioè di specializzazioni in tutti i settori possibili della produzione e dell’amministrazione. La creazione di una struttura organizzativa determina differenti livelli retributivi, quindi differenti redditi percepiti da chi è inserito nell’organizzazione. Le differenti funzioni all’interno dell’impresa capitalistica determinano una differente «sensibilità» del lavoratore alle sorti dell’impresa mentre il diverso «grado di sostituibilità» fra chi sta al vertice e chi sta alla base svolge un ruolo importante nella determinazione di ciò che ancora oggi può essere chiamato «sfruttamento del lavoro».

La differente sensibilità del lavoratore alle sorti dell’impresa consiste nel fatto che coloro che stanno alla base non hanno la possibilità di percepire come sta procedendo l’impresa sotto il profilo economico e finanziario, con un poco di aiuto «sindacale» possono venire messi al corrente dei programmi di sviluppo e ottenere «garanzie» di occupazione futura ma anche tali informazioni e garanzie hanno un valore relativo dato il carattere tipicamente rischioso dell’attività economica.

Coloro che sono posti al vertice dell’organizzazione hanno la responsabilità del buon andamento «amministrativo» dell’intero sistema d’impresa e la loro conoscenza dei meccanismi tecnico-economici attraverso i quali l’impresa produce e distribuisce la ricchezza economica li pone nelle condizioni più idonee per operare delle scelte ben precise per il futuro dell’impresa ma anche di controllare, praticamente in ogni istante, l’effettivo grado di «funzionalità» di tutta l’organizzazione.

L’inserimento del lavoratore nell’organizzazione d’impresa pone il problema dello sfruttamento del lavoro.

In senso letterale il lavoratore, a tutti i livelli, è uno sfruttato dell’impresa ma il riferimento allo sfruttamento è essenzialmente legato alla circostanza che l’impresa chiede al lavoratore delle prestazioni di un certo tipo che determinino un certo livello di produttività mentre la retribuzione erogata non corrisponde al «contributo» alla produzione.

L’indice dello sfruttamento è quindi determinato da una retribuzione del lavoratore troppo bassa, normalmente connessa anche a condizioni di lavoro non proprio rispettose della libertà e della dignità umana.

Le legislazioni di tutti i Paesi in cui si è affermato il capitalismo per il tramite dell’impresa capitalistica hanno posto norme giuridiche a difesa del lavoratore, ponendo dei limiti alla giornata lavorativa e alle condizioni di lavoro, nonché istituendo organizzazioni direttamente controllate dallo Stato che si occupano della previdenza e dell’assistenza (almeno in linea teorica) per le classi meno agiate. Il risultato di queste azioni legislative è stato un miglioramento delle condizioni di lavoro per coloro che sono stati posti alla base dell’organizzazione dell’impresa e, sfruttando in modo più o meno adeguato il progresso tecnologico, ne è derivato anche un aumento delle retribuzioni, quindi delle condizioni di vita, delle suddette classi sociali (tipicamente operai e impiegati). Ma l’aumento della produttività del lavoro per effetto del progresso tecnico e della più efficiente organizzazione produttiva ha trasformato la grande impresa capitalistica del primo stadio di sviluppo nelle moderne società per azioni nelle quali il rapporto fra capitalista-lavoratore è stato spazzato via per sempre dall’instaurazione nell’impresa di un apparato amministrativo per altro indispensabile per il buon funzionamento dell’impresa. Ed anche in quelle poche imprese di grandi dimensioni dove è sopravissuta la figura dell’impreditore-padrone il ruolo svolto da quest’ultimo nel funzionamento e nello sviluppo dell’impresa è se non marginale almeno fortemente condizionato dall’esistenza (imprescindibile) di una gamma di amministratori e dirigenti che si occupano quotidianamente di far funzionare nei modi voluti e programmati l’impresa nel suo complesso. In questo contesto la controparte del lavoratore non è più l’imprenditore-padrone ma un consiglio di amministrazione il quale deve conciliare le esigenze dell’impresa con quelle dei suoi membri e dei lavoratori in forza all’impresa. In questo modo fra l’impresa e il lavoratore viene a crearsi un rapporto di tipo «burocratico» che però, se da un lato riduce lo sfruttamento in senso stretto in quanto il lavoratore tende ad essere «tutelato» da una determinata legislazione che nella grande impresa viene in linea di massima applicata, dall’altro il lavoratore diviene sempre di più un alienato rispetto all’organizzazione dell’impresa la quale impone il proprio «modello» di vita non solo al proprio interno ma anche all’esterno, vale a dire quando il lavoratore non è sul posto di lavoro e s’aggira «liberamente» nell’ambiente sociale. In questo contesto lavorare non è più semplicemente un mezzo per ottenere un reddito con il quale condurre una vita dignitosa ma diventa una vera e propria etica di vita e si può affermare, con un buon grado di affidabilità, che se la divisione del lavoro e il progresso tecnico applicato ai metodi di produzione e alle merci prodotte costituiscono la base «tecnica» della produzione capitalistica l’etica del lavoro costituisce l’essenza non tanto e non solo dell’impresa capitalistica quanto del sistema complessivamente inteso, quindi nei suoi aspetti economici, sociali e politici.

 

 

17. - Il salario come costo di produzione. - L’approntamento del processo produttivo richiede, come sopra visto, l’acquisizione dei Fattori della produzione che hanno tutti sia un costo di acquisizione che un costo di utilizzazione. Quando l’impresa acquista i Fattori pluriennali, i Fattori di esercizio e i Servizi necessari alla produzione l’oggetto dello scambio è una merce nel senso proprio del termine e il prezzo che viene pagato si riferisce alla quantità e alla qualità della merce. L’acquisizione del Fattore lavoro non si realizza con l’acquisizione di una merce ma con il «diritto» ad ottenere delle prestazioni a pagamento: l’oggetto della transazione è quindi non solo «immateriale» ma coinvolge direttamente il prestatore di lavoro nell’organizzazione dell’impresa. Da un punto di vista strettamente economico le prestazioni di lavoro hanno un costo che l’impresa deve conteggiare insieme agli altri al fine di determinare i prezzi di vendita necessari all’ottenimento dell’equilibrio economico, finanziario e patrimoniale durevole. In questa ottica la formazione del costo del lavoro è governata dai seguenti ordini di fattori:

1) La quantità e la qualità delle prestazioni

2) Il rendimento economico delle prestazioni

3) I vincoli giuridici che condizionano non solo la retribuzione ma

le condizioni di lavoro

 

La quantità e la qualità delle prestazioni di lavoro che l’impresa si trova a richiedere sono determinati dai programmi di produzione, soprattutto dai programmi a lungo termine con i quali l’impresa definisce le proprie strategie produttive, modificando la propria struttura organizzativa.

In questo contesto il costo del lavoro è esaminato in funzione del programma predisposto e normalmente l’impresa ha diverse possibilità di organizzare la produzione, possibilità nelle quali la quantità e la qualità di prestazioni lavorative differiscono a seconda dei modi di produrre una certa merce o servizio (se con più manodopera o con più «mezzi meccanici»).

La quantità e la qualità del lavoro posseggono però, nelle imprese capitalistiche, un certo grado di rigidità economica dovuta al fatto che l’impresa è una organizzazione di mezzi e di uomini, organizzazione necessaria per espletare la produzione nel suo senso più ampio ma anche più compiuto.

Nell’impresa capitalistica di grandi e medie dimensioni vi sono gli addetti alle linee di produzione ma vi sono anche magazzinieri, impiegati che chi occupano delle fatturazione e, in generale, dell’amministrazione, vi sono portieri, vi sono addetti alla riscossione dei crediti ecc. e vi sono, ovviamente, dirigenti preposti al coordinamento dei vari «settori» in cui si articola l’organizzazione aziendale. Tutti questi prestatori di lavoro svolgono funzioni non strettamente «produttive» ma non di meno il loro lavoro è necessario affinché il complessivo sistema d’impresa produca i risultati sperati. Tale complessa struttura organizzativa dà origine a differenti funzioni cui sono legati, ovviamente, differenti livelli retributivi determinati soprattutto dalla posizione occupata nella «piramide aziendale». Il costo del lavoro per l’impresa capitalistica è quindi determinato in larga misura dalle necessità organizzative che trattandosi di imprese di grandi dimensioni sono necessità che danno origine ad una struttura del costo del lavoro molto complessa, in quanto per l’impresa è necessario retribuire prestazioni molto differenti sia per qualità che per quantità.

La varietà della quantità e della qualità delle prestazioni di lavoro non incide solamente sulla formazione delle retribuzioni e dei cosiddetti oneri sociali a carico del lavoro ma incide anche sui costi «generali» dell’organizzazione produttiva in quanto per l’impresa diviene necessario gestire nel modo corretto sotto il profilo strettamente amministrativo tutto il personale dipendente: l’assunzione, l’inserimento «pratico» sul lavoro, la gestione mensile delle retribuzioni, le condizioni «personali» di ciascun lavoratore, i rapporti complessivi e individuali fra impresa e Enti preposti all’assistenza e alla previdenza e molte altre questioni necessitano, in pratica, di un «settore» specifico dell’amministrazione che occupa stabilmente una serie più o meno consistente di impiegati con una loro (ovvia) retribuzione e con un costo per l’impresa (per altro imprescindibile).

Al termine del processo produttivo l’impresa capitalistica avrà quindi sostenuto un costo del lavoro complessivo che non è solo relativo agli addetti alla linea di produzione ma attiene all’intera organizzazione aziendale e l’esistenza di più linee di produzione o di una differenziazione produttiva pone semplicemente il problema di individuare quanto del costo del lavoro del personale «amministrativo» incide sulla formazione dei prezzi di vendita, mettendo così l’amministrazione aziendale nelle condizioni di verificare la stessa congruità economica dell’apparato amministrativo esistente. In queste condizioni la quantità e la qualità delle prestazioni di lavoro in quanto tali potrebbero non essere più significative per il sistema d’impresa riguardato nel suo complesso e questo perché le prestazioni di lavoro di impiegati e dirigenti, ancorché qualitativamente adeguate ai livelli organizzativi dell’impresa, potrebbero rivelarsi in eccesso rispetto alla quantità di lavoro effettivamente necessaria per il buon andamento del sistema amministrativo complessivamente inteso. In altri termini l’amministrazione potrebbe accorgersi, da un esame dettagliato della gestione aziendale (con numeri alla mano), che le prestazioni svolte dagli amministrativi o dai dirigenti sono sia per quantità che per qualità eccedenti le effettive esigenze dell’impresa e che, per conseguenza, incidono in modo «indebito» sulla formazione dei costi di produzione. La cosiddetta razionalità economica e l’esigenza del mantenimento dell’equilibrio economico impongono quindi all’impresa di privarsi di tali prestazioni, ovvero di organizzare il settore amministrativo in modo differente al fine di recuperare almeno in parte l’efficienza perduta.

La qualità e la quantità delle prestazioni di lavoro così numerose nell’organizzazione dell’impresa capitalistica pongono il problema del rendimento economico, vale a dire del rapporto fra costo sostenuto e risultato ottenuto.

La produttività economica del lavoro, ma in generale di ogni fattore della produzione, è spesso indicata come un rapporto quantitativo che mette in relazione il lavoro svolto (per esempio espresso in ore) e la produzione ottenuta (normalmente espressa in unità prodotte). Nell’impresa capitalistica la produttività non può però essere semplicemente intesa in termini di quantità prodotta, vale a dire di merci o servizi da destinare alla vendita, ma deve più correttamente essere intesa in termini economici i cui parametri fondamentali sono il tempo di lavoro necessario a compiere una certa operazione (non necessariamente produttiva nel senso stretto del termine) e l’ordine sistematico di tale operazione, vale a dire la necessità e la funzionalità che una certa operazione compiuta in un certo modo e secondo certi tempi ha in funzione dell’ottenimento, per l’impresa, dell’equilibrio economico, finanziario e patrimoniale durevole nel tempo.

Il rendimento del fattore lavoro non è quindi un rendimento univoco all’interno dell’impresa capitalistica ma cambia a seconda della funzione svolta dal lavoratore: gli addetti alla produzione dovranno occuparsi di produrre le merci o i servizi oggetto dell’attività d’impresa e il loro rendimento sarà valutato in termini di «pezzi» prodotti in un determinato periodo di tempo (produttivo); gli addetti alle mansioni amministrative (in senso lato) dovranno occuparsi dello svolgimento di una precisa prassi amministrativa, seguendo schemi in linea di massima predefiniti nonché mantenendo il ritmo produttivo imposto dall’organizzazione d’impresa (in pratica, come gli operai, dovranno eseguire secondo modalità predefinite e tempi predefiniti una serie di operazioni di carattere più o meno «intellettuale»); gli addetti alle mansioni strategiche per l’impresa, vale a dire i dirigenti, dovranno occuparsi da un lato del corretto funzionamento del settore d’impresa sotto la loro direzione e dall’altro di assumere, strategicamente appunto, quelle decisioni più consone per lo sviluppo dell’intera struttura aziendale, quindi porre in atto un coordinamento con le mansioni ed il lavoro dei loro colleghi di pari funzioni. Mentre per gli operai e per gli impiegati è relativamente facile calcolare il rendimento economico in quanto il risultato ottenuto è solitamente quantificabile in unità prodotte o in «pratiche» evase per i dirigenti la valutazione del rendimento è meno quantificabile ma, si può dire, è altrettanto percettibile e visibile in quanto è da loro che si dirama l’assetto organizzativo dell’impresa e una loro decisione corretta o sbagliata (sia essa attinente alla finanza, al marketing, alla produzione o ad altre attività dell’impresa) si riflette immediatamente sull’equilibrio economico dell’impresa con l’aggravante (se così si può dire) che trattandosi di decisioni strategiche i loro effetti hanno peso maggiore e divengono immediatamente visibili (in primo luogo da coloro che si occupano della contabilità generale dell’impresa).

I fattori che determinano il rendimento economico del lavoro, vale a dire il tempo necessario per il compimento di una certa operazione e l’ordine sistematico delle operazioni medesime, non sono un dato fisso nel tempo e nello spazio, divergono da impresa a impresa e divergono anche a seconda del tipo di produzione messa in atto.

Nell’impresa capitalistica le determinanti della produttività economica danno origine alla cosiddetta «organizzazione scientifica del lavoro» che significa in buona sostanza che nessuna azione umana è lasciata, nell’ambito dell’organizzazione dell’impresa, al caso o all’iniziativa del singolo individuo ma è determinata dal gruppo dirigente che valuta la produttività medesima in funzione dell’equilibrio generale del sistema e quindi colloca le retribuzioni e gli oneri cui esse danno origine fra i costi di produzione che in quanto tali devono essere compatibili con le risorse economiche complessivamente prodotte dall’impresa (il valore aggiunto prodotto).

La produttività del lavoro e la sua organizzazione su basi scientifiche all’interno dell’impresa capitalistica sono normalmente soggette ai vincoli di carattere giuridico che le legislazioni delle varie nazioni in cui il capitalismo si è affermato hanno posto a difesa delle condizioni di lavoro soprattutto di coloro che sono posti al livello più basso nella gerarchia produttiva e aziendale.

La legislazione entra nel merito delle retribuzioni ma anche delle condizioni di lavoro, che devono rispettare degli orari massimi di impiego e un minimo di sicurezza sui luoghi di lavoro; in più vi sono Enti pubblici in vari Paesi capitalistici che si occupano della previdenza, dell’assistenza e delle assicurazioni contro gli infortuni i cui servizi sono a disposizione di coloro che entrano nel mondo del lavoro e che sono finanziati in parte da tutti i cittadini attraverso il prelievo fiscale e in parte attraverso la cosiddetta «contribuzione obbligatoria» a carico delle imprese che assumono così un onere aggiuntivo alla retribuzione propriamente intesa.

Nell’impresa capitalistica le diverse componenti, appena individuate, che determinano il costo del lavoro sono tutte pervase da un elemento che costituisce, si può dire, una «spina nel cuore» nel sistema e che viene correntemente definito come «flessibilità».

La flessibilità del lavoro attiene al rendimento economico così come alla quantità e qualità delle prestazioni e, anche, ai vincoli giuridici posti a tutela delle classi lavoratrici.

La flessibilità di un fattore della produzione è la sua capacità di adattamento alle differenti esigenze dell’impresa, esigenze che cambiano nello spazio e nel tempo e che sono necessarie per mantenere e migliorare le condizioni di equilibrio economico, finanziario e patrimoniale. Nell’economia dell’impresa vi sono fattori che presentano un grado di flessibilità molto elevata (come per esempio il denaro o alcuni tipi di servizi) e vi sono fattori il cui grado di flessibilità è meno elevato (come per esempio un impianto industriale destinato alla produzione di una particolare merce e non utilizzabile per altre produzioni). In questo contesto la flessibilità del lavoro costituisce un caso a sé. Per l’organizzazione dell’impresa le prestazioni manuali e intellettuali del lavoratori assunti dovrebbero sempre rispondere alle differenti esigenze, mutevoli secondo le circostanze della produzione, del mercato, della tecnologia ecc. mentre per coloro che prestano i propri servizi i cambiamenti di rendimento economico e di condizioni di lavoro dovrebbero determinare situazioni migliori o, nella ipotesi peggiore, non pregiudicare quelle esistenti. In questo modo le attese circa la flessibilità delle condizioni di lavoro divengono la fonte di un potenziale conflitto fra imprese e prestatori, conflitto che in realtà diviene poi all’ordine del giorno nel sistema capitalistico. Il conflitto nasce dalla circostanza che mentre per i prestatori è soprattutto importante ottenere un reddito il più possibile elevato e «sicuro» per le imprese è importante mantenere ed accrescere la propria potenza economico-finanziaria, mantenimento e accrescimento non sempre «compatibile» con le richieste dei prestatori. Le incompatibilità sono numerose almeno quanto le differenti professionalità che normalmente l’impresa capitalistica utilizza per lo svolgimento del processo produttivo complessivamente intenso ma in linea di massima vi è una incompatibilità più «pervasiva» o più potente delle altre ed attiene al rapporto fra occupati e disoccupati.

Gli occupati nell’impresa capitalistica non sono tutti nelle medesime condizioni economiche e meno che meno nelle medesime condizioni di lavoro: vi sono occupati prossimi al pensionamento, occupati appena inseriti nell’impresa, occupati che svolgono funzioni «marginali» e occupati che hanno la professionalità richiesta dalle più recenti e strategiche decisioni dell’impresa. Si può dire che anche per i disoccupati vi è un eguale grado di differenziazione che li rende diversamente «appetibili» per l’impresa che cerca sempre di perseguire i propri obiettivi «strategici» servendosi o cercando di servirsi dei fattori produttivi che ritiene più opportuni.

Comunque siano le cose vi è sempre in ogni istante un flusso di prestatori d’opera che esce dal «lavoro» e un altro flusso che «entra» a far parte di una organizzazione d’impresa, trovando una occupazione: la flessibilità (o la rigidità) è uno dei meccanismi, forse il maggiore, che governa tali flussi. La posizione economica di chi è occupato è, nella norma, più potente di chi è disoccupato il quale dovrebbe tendere, se non altro, ad entrare nel mondo del lavoro produttivo attraverso l’«offerta» di una retribuzione mediamente più bassa di quelle correnti. Ma l’impresa capitalistica non è un organismo così sensibile come potrebbe a prima vista sembrare e non gli è sufficiente pagare una retribuzione dimezzata rispetto a quelle correnti per assumere in forza nuovo lavoro perché occorre valutare (per lei) non solo il rendimento tecnico-produttivo di chi entra ma soprattutto l’effetto complessivo sul proprio sistema e, in primo luogo, sui propri conti della nuova assunzione. Il rendimento e le capacità del prestatore sono indubbiamente elementi importanti ma risulta sicuramente decisiva la circostanza se la nuova produzione ottenuta è vendibile sul mercato a prezzi remunerativi, ovvero se il rendimento atteso dei nuovi investimenti è giudicato soddisfacente. Se non lo è l’impresa capitalistica (e per essa la direzione) rinuncia all’assunzione di nuovo personale cosicché la disoccupazione resta immutata o aumenta. In tale contesto se la disoccupazione diviene una percentuale rilevante della forza-lavoro disponibile il sistema capitalistico, quindi l’impresa capitalistica, si trovano ad affrontare anche un fenomeno sociale a fronte del quale politici, sociologi, gente comune e (ovviamente) economisti forniscono una loro ricetta più o meno infallibile. Ma l’impresa capitalistica che persegue l’equilibrio economico, finanziario e patrimoniale e quindi il profitto più alto possibile resta relativamente indifferente sia alla richieste dei prestatori di lavoro che alle critiche e suggerimenti lasciando semplicemente parlare la propria «contabilità» che nel momento in cui denuncia una scarsa o nulla possibilità di nuove assunzioni la mette nelle condizioni più consone per avere la coscienza tranquilla. In tali circostanze si possono rimuovere alcuni ostacoli attinenti alla legislazione del lavoro e sociale affinché le imprese siano indotte ad assumere, si possono concedere sussidi per incentivare l’assunzione, sgravi fiscali e contributivi, si possono promuovere da parte dello Stato e di altri organismi collettivi investimenti pubblici affinché parte dei disoccupati trovi lavoro e affinché le imprese del sistema trovino adeguate infrastrutture o divengano committenti di lavori pubblici e ciascun provvedimento potrà sortire effetti più o meno efficaci contro la disoccupazione ma finchè l’impresa capitalistica con i suoi principi di economicità, che nelle moderne società industriali non sono solo economici ma anche etici, sarà la base strutturale della produzione e della distribuzione della ricchezza economica il conflitto fra occupati e disoccupati rimarrà sostanzialmente immutato.

 

 

18. - Salari monetari e reali: una premessa. - Il reddito di lavoro viene erogato ai prestatori d’opera secondo un determinato contratto e costituisce quasi sempre l’unica fonte di sostentamento per il prestatore medesimo. Il sistema capitalistico nel corso del proprio sviluppo, anche se contrastato, ha messo a disposizione di una larghissima parte della popolazione un quantità «esagerata» di merci e di servizi, quantità in grado di soddifare sia le richieste attinenti ai cosiddetti «bisogni primari» sia quelle attinenti a bisogni non proprio prioritari (come per esempio l’acquisto di un home computer, sul quale peraltro sto scrivendo).

La retribuzione del lavoro ha una base monetaria nel senso che il lavoratore viene retribuito in moneta e poi lasciato «libero» di usare la suddetta moneta per acquistare una casa, un piatto di minestra o concorrere a una lotteria a premi. Nella normalità dei casi il prestatore di lavoro utilizza la propria retribuzione per acquistare le merci e i servizi di cui sente il bisogno per condurre un’esistenza dignitosa e le merci e i servizi acquistati divengono presto un standard di vita che egli cerca di accrescere (lentamente) o almeno di mantenere nel corso del tempo. Può accadere però che per ragioni diverse il prezzo delle merci e dei servizi normalmente utilizzati per il consumo aumenti di prezzo e, in alcuni circostanze, che gli aumenti siano piuttosto consistenti e comunque tali da mettere il lavoratore nelle condizioni o di ridurre il consumo o di richiedere al datore di lavoro (quindi all’impresa) un aumento della retribuzione.

L’aumento della retribuzione monetaria comporta per l’impresa un aggravio di costi se non è supportato da un aumento corrispondente della produttività e delle vendite sicché la concessione di una più alta retribuzione o determina una riduzione dei profitti netti (quindi una redistribuzione del valore aggiunto prodotto) oppure un aumento dei prezzi di vendita. L’effetto sui prezzi dipende dalla struttura del valore aggiunto, dalla sua dimensione e, ovviamente, dall’aumento percentuale delle retribuzioni.

Se una certa impresa, in una situazione di equilibrio economico, ha la seguente struttura economica:

Vendite                                UM          1.000

- Acquisti                             UM             600

- Servizi                                 UM            200

Valore aggiunto Prodotto       UM             200

 

Costo del lavoro                    UM            150

Profitti                                   UM               50

 

un aumento del 20% nel costo del lavoro dovrà determinare un aumento dei prezzi pari a

                % Costo del Lavoro x % di aumento

                                   0,15 x 0,2 = 3%

 

Se invece la struttura della produzione fosse la seguente:

 

Vendite                                     UM        1.000

- Acquisti                                   UM          100

- Servizi                                      UM          100

Valore aggiunto Prodotto            UM          800

 

Costo del lavoro                           UM        600

Profitti                                           UM       200

un aumento del 20% nel costo del lavoro dovrà determinare un aumento dei prezzi pari a:

                  % Costo del Lavoro x % di aumento 

                                0,6 x 0,2 = 12%

 

In entrambi i casi l’aumento del costo del lavoro ha determinato una variazione nella consistenza ma soprattutto nella composizione del Valore Aggiunto, alterando tale composizione a danno dei profitti. Se le merci e i servizi prodotti rientrano fra quelli normalmente acquistati dai lavoratori ci si troverebbe nella situazione seguente:

             Merci            + 3%         1.030

             Servizi           + 12%        1.120

 

Retribuzioni industria «merci»       + 20%    180

Retribuzioni industria «servizi»       + 20%    720

 

e quindi mentre prima dell’aumento a fronte di un reddito di 750 UM (150 + 600) si potevano acquistare in media 0,375 unità di beni e servizi dopo l’aumento il potere d’acquisto è pari a 0,4186 unità (+ 11,62%).

L’aumento del potere d’acquisto, tuttavia, riposa sulla considerazione ovvia e banale che via sia un aumento della quantità prodotta o, alternativamente, che vi siano altre categorie di redditi che, penalizzati dall’aumento dei prezzi, riducono il loro potere d’acquisto e quindi la quantità di merci e servizi acquistata.

Nell’esempio portato la categoria dei redditi richiamata è costituita dai profitti che si è supposto restino invariati durante il processo di aumento dei prezzi per effetto dell’aumento delle retribuzioni. Ma nella situazione prospettata l’invarianza dei profitti «nominali» implica nei fatti un recesso delle posizioni di equilibrio economico e patrimoniale dell’impresa e, per conseguenza immediata, un minor grado di accumulazione del capitale, quindi minori investimenti produttivi. Se l’impresa vuole mantenere almeno le proprie posizioni precedenti deve procedere ad un ulteriore aumento dei prezzi in modo da conseguire anche un aumento dei profitti, almeno sotto il profilo nominale sicchè si dovrebbero aumentare di un ulteriore 1% il prezzo delle merci e di un ulteriore 4% quello dei servizi, con conseguente riduzione del potere d’acquisto di tutti i redditi del sistema.

Nella normalità dei sistemi capitalistici l’aumento delle retribuzioni nominali è successiva ad un aumento dei prezzi, ovvero le merci e i servizi richiesti dalle classi lavoratrici aumentano di prezzo per le cause più diverse e in qualche modo costringono il prestatore d’opera a richiedere un aumento della retribuzione per mantenere inalterato il potere d’acquisto. In questo caso gli effetti dell’incremento delle retribuzioni si somma agli effetti dell’aumento dei prezzi dando origine alla cosiddetta spirale salari-prezzi che può comportare gravi effetti sul funzionamento del sistema economico, sia per ciò che attiene alla produzione che per ciò che attiene alla distribuzione del reddito. E non pare vi siano dubbi sulla circostanza che le conseguenze più gravi di tali disfunzioni ricadano proprio sul potere d’acquisto delle retribuzioni, in primo luogo come minore capacità di acquisto e quindi anche come mutamento strutturale nella distribuzione del reddito che non sempre favorisce i prestatori d’opera.

La variazione del potere d’acquisto della moneta, ancorché espressa da un numero determinato, genera in realtà un’ampia gamma di situazioni che dipendono dal reddito percepito, dal luogo dove si vive, dai consumi abituali e altri ancora. In linea di massima si può supporre che i prestatori di lavoro siano in media in una situazione analoga sia per ciò che riguarda il reddito che per i consumi ma ciò non di meno i redditi e i prezzi aumentano ciascuno a «velocità» differenti e per coloro che dipendono in modo esclusivo dalla percezione di un reddito fisso le diverse velocità possono rivelarsi non poco lesive delle posizioni acquisite cosicché è quasi scontata la richiesta di aumenti retributivi necessari per mantenere il potere d’acquisto acquisito.

La vera questione «delicata» della vicenda prezzi-salari è data dal fatto che se da un lato i prestatori d’opera necessitano di aumenti retributivi per mantenere il proprio potere d’acquisto l’aumento generalizzato dei prezzi, soprattutto quando è costante e superiore a certe percentuali, determina una grave situazione d’incertezza nella gestione dell’impresa che spesso vede deteriorarsi la propria situazione economica. Da un punto di vista strettamente economico tale situazione determina un’altra incompatibilità fra «attese» dei prestatori e «necessità» delle imprese e, come nel caso della flessibilità del lavoro descritta nel precedente paragrafo, la soluzione del conflitto dipende molto dalla potenza economica delle parti ma poiché i prestatori di lavoro hanno in definitiva bisogno delle imprese sia per lavorare che per ottenere le merci necessarie ai consumi dovranno, almeno nel lungo periodo, subordinare le proprie richieste alle effettive disponibilità economiche delle imprese.