Saggio sul Capitalismo

 

 

CAPITOLO PRIMO

 

VERSO IL SISTEMA CAPITALISTICO

 

 

 

 

1. Sistema artigianale. - Nelle società nelle quali predomina la produzione di merci svolta da individui che consumano le merci stesse lo sviluppo economico si trova al primo stadio; quando la produzione medesima è svolta da individui che producono non solo per se stessi ma anche per il prossimo lo sviluppo economico sale di un gradino e quando la produzione per il mercato diviene non solo un fatto professionale ma la professionalità medesima è legata e per certi aspetti determinata dall’impiego di macchine operatrici di volta in volta più sofisticate ed in grado di accrescere in modo perentorio la produttività del lavoro, cioè di esplicare al meglio per la produzione le capacità intellettuali e manuali degli uomini, lo sviluppo economico approda alla sua fase capitalistica.

Le capacità intellettuali e manuali degli uomini sono indubbiamente le determinanti prime dello sviluppo economico solo che, nella fase capitalistica, concentrandosi nell’uso più appropriato del capitale nella produzione imprimono al capitale stesso un così marcato sviluppo quantitativo e qualitativo da farlo apparire come la condizione senza la quale il sistema stesso non posso sussistere. Non che possa sussistere società capitalistica senza capitale ma è chiaro che tutto ciò che in pratica si fa rientrare sotto tale denominazione è il prodotto del lavoro, cioè dell’applicazione ai processi di produzione dell’intelligenza e della forza muscolare degli uomini cosicché il capitale prima che un fattore dello sviluppo economico è un prodotto, ancorché impiegato per la produzione di altre merci. La denominazione e l’idea di società «capitalistica» alimentano così l’idea che tutto sia dovuto alle «macchine» come se queste fossero piovute come una manna dal cielo: i detentori di questo inossidabile strumento di produzione si sentono socialmente gratificati dalla sua (del capitale) proprietà, anche perché ne ricavano lauti guadagni, ma è evidente che senza l’applicazione del lavoro siffatti strumenti di produzione non esisterebbero e, ammessa per assurdo la loro esistenza in assenza di lavoro, non avrebbero nessun valore economico e quindi perderebbero tutta la loro appettibilità economica e sociale.

Con queste premesse è evidente come il sistema economico-sociale fondato sul capitale sia centrato su una contraddizione: da un lato chi produce la ricchezza e valorizza il capitale è di fatto estromesso dalle decisioni relative alla gestione del capitale stesso, dall’altro lato che non produce nulla decide, in ragione del diritto di proprietà, l’uso a lui più conveniente del ricordato capitale determinando in pratica anche l’uso per fini produttivi del lavoro materiale e immateriale degli uomini.

La contraddizione enunciate può essere considerata come un prodotto della natura umana in generale e non del sistema capitalistico di produzione ed in quanto tale come un dato: si può e si deve correggere questo dato ma il tentativo di eliminarlo comporta inevitabilmente il proiettare un fatto eminentemente «strumentale» alla felicità umana come la produzione e la distribuzione della ricchezza economica in una dimensione metafisica instaurando per di più una sorta di teologismo che, come ha ampiamente dimostrato la storia di due secoli di rivoluzione industriale, male si addice alla gestione degli affari economici.

Attraverso tali considerazioni non si vuole indurre a credere che la moralità dei comportamenti umani debba essere considerata un elemento «accessorio» o inutile nella gestione degli affari economici ma si vuole porre in evidenza che le questioni economiche sono solo una delle componenti della complessa struttura di istinti e azioni razionali di cui ogni individuo è variamente dotato e che di conseguenza è per lo meno arbitrario indurre a credere che l’eliminazione delle divergenze economiche porti automaticamente ad uno stato di «pace sociale» fondato sulla libera solidarietà e cooperazione fra tutti gli uomini.

Il sistema di produzione capitalistico, anzi, con la propria immensa capacità di produzione è in grado di modificare non solo i consumi alimentari o d’abbigliamento ma anche, molto più incisivamente, di accrescere le conoscenze filosofiche e scientifiche e soprattutto di far partecipare a tale processo praticamente tutti gli stati della popolazione.

Per sua stessa natura il capitalismo esige una crescente specializzazione produttiva degli individui e nella attuale fase storica siffatta specializzazione è già arrivata ad un grado tale che un premio Nobel per la letteratura può avere serie difficoltà ascoltando il dialogo di due riparatori di elettrodomestici a capire che cosa effettivamente essi stiano dicendo: in siffatte condizioni di «emancipazione» culturale da parte di larghissimi strati della popolazione una sorta di «teologia del capitalismo», da qualunque parte essa provenga, comportando di fatto una netta divisione fra «ciò che è bene» e «ciò che è male» è destinata inevitabilmente a fallire proprio perché uno dei principale effetti del sistema di produzione capitalistico è stato quello di dissolvere quel sistema produttivo che è invece compatibile con una concezione «teologica» della vita.

Il sistema cui fa riferimento la sopra citata dissoluzione è quello fondato sull’agricoltura e l’artigianato nel quale le condizioni di vita sono immutate ed immutabili ma nel quale soprattutto si realizza un tipo di comunità i cui rapporti umani sono pesantemente condizionati da elementi non direttamente controllabili dalle capacità umane, elementi che sono un fattore decisivo per la produttività dell’intero sistema.

Per quanto l’ingegno umano riesca a fare in termini di fertilizzazione del suolo e prevenzione di agenti atmosferici il ciclo dell’agricoltura è dominato interamente da una forza che sfugge in ultima analisi al controllo dell’uomo: si può imparare a coltivare il grano in condizioni particolarmente difficili sotto il profilo climatico o del terreno ma non si può di fatto intervenire sui tempi di produzione e nemmeno sulla quantità del raccolto. Il ciclo di produzione agricolo è determinato quasi esclusivamente dalle leggi della fisica e conseguentemente la cultura di una società contadina non può che tendere a perpetuare la propria condizione economica, in altri termini è una cultura di natura conservatrice dove anche le regole giuridiche ed i comportamenti sociali saranno in qualche modo subordinati al miglior sfruttamento di quello che è il principale «fattore» della produzione: la terra.

Le considerazioni sopra svolte permettono di affrontare il tema della produzione e della distribuzione della ricchezza economica nel sistema «artigianale» e poi di quello «capitalistico» tenendo sempre presente che l’organizzazione della produzione è uno dei prodotti della produzione stessa e che di conseguenza il superamento di una certa organizzazione della produzione non può che avvenire tramite il radicale superamento di una certa forma di produzione: il potere politico può solo intervenire a modificare le più evidenti discriminazioni sociali che un sistema può determinare (può concedere ad esempio ai contadini, in una economia agricola, il diritto di ricevere annualmente una prefissata percentuale del raccolto e può sanzionare con multe o altri provvedimenti amministrativi o penali quei proprietari terrieri che non rispettano le norme giuridiche) ma non può sovvertire di proprio arbitrio l’organizzazione della produzione (uno stato potrebbe di certo espropriare le terre ai latifondisti per assegnarle in «eque» proporzioni ai contadini che lavorano le terre medesime ma siffatto provvedimento non altererebbe la sostanza economica dell’organizzazione della produzione che certo continuerebbe ad essere fondata sul lavoro del singolo contadino e dei suoi diretti congiunti).

Lo studio di un sistema economico è dunque, secondo la tesi del presente scritto, uno studio dei modi di produzione e distribuzione del reddito ed è per questo che il punto di partenza è quello che può definire il concetto «filosofico» di produzione.

Il concetto filosofico di produzione è praticamente descritto nel periodo d’apertura del presente scritto e può essere sintetizzato entro uno schema che prevede un rapporto, come direbbe Marx, «dialettico» fra due concetti: «produzione tecnica» e «produzione economica».

Produzione tecnica è un atto o una serie di atti che consentono di risolvere in modo conveniente una esigenza definita (un bisogno economico, direbbero gli economisti della scuola marginalista): chi deve costruire una casa sa che ha bisogno almeno di un geometra che rediga il progetto di costruzione e quindi di una impresa di costruzioni che realizzi il progetto medesimo. Gli atti tecnici necessari alla costruzione costituiscono la produzione tecnica e non sono condizionati dalla morale o dalla politica o dalla filosofia perché nella costruzione della casa non entra nessun elemento etico.

Produzione economica è invece un solo atto che consente di determinare il valore del prodotto del lavoro e di conseguenza di determinare il valore del lavoro stesso. Il passaggio dalla produzione tecnica a quella economica comporta, per la società capitalistica, un coinvolgimento dell’elemento etico che conferisce al valore economico della produzione (valore di scambio o prezzo nel linguaggio corrente degli economisti) una indubbia connotazione metafisica che nessuna scuola economica è riuscita, al presente, ad esplicare efficacemente.

L’applicazione dei concetti di produzione tecnica e produzione economica ai sistemi fondati sull’agricoltura e sull’artigianato non presenta particolari difficoltà teoriche in quanto il valore dei beni prodotti può essere facilmente determinato in funzione della quantità di lavoro incorporato.

Se un falegname impiega dieci ore di tempo per costruire un tavolo ed un fabbro impiega cinque ore di tempo per produrre una vanga qualunque sia il metro monetario per la definizione dei prezzi il valore relativo sarà sempre pari a due vanghe per ogni tavolo.

Per poter meglio apprezzare e definire la conclusione appena detta è necessario analizzare i seguenti punti con riferimento al sistema artigianale:

 

1) la struttura produttiva

2) l’accumulazione del capitale

3) la produttività del sistema

4) l’evoluzione produttiva

5) la distribuzione del reddito

La struttura produttiva del sistema artigianale può essere ricondotta sostanzialmente a due settori: l’agricolo e l’artigianale. Il primo settore fornisce le derrate alimentari necessarie alla sopravvivenza della popolazione mentre il secondo fornisce quelle merci non alimentari altrettanto indispensabili per la sopravvivenza e l’evoluzione della specie umana.

Un aspetto molto particolare che è bene mettere in evidenza è che nell’accezione di «settore agricolo» sono ricomprese anche le attività estrattive che forniscono più che altro materie prime al settore dell’artigianato.

In estrema sintesi la struttura produttiva del sistema può essere così espressa, in simboli algebrici:

1) A = Pa + R

2) B = z A + Pi

dove l’espressione 1) indica con A la quantità di prodotti agricolo e minerario ottenuto in un certo periodo di tempo, «Pa» indica il profitto degli imprenditori agricoli, «R» le rendite dei proprietari terrieri, B indica la quantità di prodotto ottenuto nel settore artigianale, «z» la frazione di «A» che è utilizzata come materia prima nel settore B e infine «Pi» indica i profitti dell’artigiano.

Come si può notare nel sistema in esame è supposta l’esistenza di soli redditi da capitale (rendite) e da lavoro autonomo (profitti artigiani e contadini) mentre è assente qualunque riferimento a reddito di lavoro dipendente che verranno introdotti a tempo debito.

Le equazioni della produzione agricola ed artigianale devono essere meglio precisate introducendo da un lato il numero degli addetti alla produzione e dall’altro il numero dei beneficiari della produzione medesima, cioè l’intera popolazione.

Rispetto agli addetti della produzione le espressioni 1) e 2) possono essere così modificate:

1.1) x Na = Pa + R

2.1) y Ni = z (x Na) + Pi

mentre il totale della popolazione può essere così sintetizzato:

 

3) N = Na + Ni + T + M

 

dove «N» indica l’intera popolazione, «Na» gli addetti alla produzione nel settore agricolo-minerario, «Ni» gli addetti alla produzione del settore artigianale, «T» i proprietari terrieri e «M» una più o meno vasta categoria di mantenuti del sistema che vive alla spalle delle tre categorie precedenti.

La condizione produttiva fondamentale del sistema è ovviamente determinata dalla necessità di provvedere, comunque, al fabbisogno di almeno i bisogni primari dell’intera popolazione, sicché indicando con «k» la quantità di derrate alimentari mediamente necessarie a ciascun individuo e con «j» la quantità di prodotti artigianali sempre necessaria per ciascun individuo si possono formulare le due seguenti equazioni di «domanda»:

4.1) A’ = k N

4.2) B’ = j N

di chiaro e immediato significato.

Supposte le condizioni «minime» di produttività è chiaro che i coefficienti tecnici di produzione «x» e «y» dovrebbero rispondere al rapporto fra le due seguenti quantità:

                                   5.1)        x =  k N\  Na

                                   5.2)      y =    j N \Ni 

 

Il rapporto fra le espressioni 5), 1) e 2) è, nella fase dello sviluppo economico che stiamo esaminando, di dipendenza quasi assoluta, nel senso che k, j e N sono praticamente determinati da eventi non economici di cui il sistema deve farsi carico cosicché x e y rappresentano delle quantità minime da raggiungere per non far cadere nell’indigenza assoluta larghi strati della popolazione.

Dalle espressioni 1) e 2) è possibile trarre una prima importante nozione economica che è valida in tutti i sistemi di produzione: quella di reddito prodotto.

Il reddito prodotto è il flusso di ricchezza che in un dato periodo di tempo (per esempio un anno) è ricavato dall’impiego produttivo del lavoro e del capitale e nelle espressioni richiamate può essere così espresso:

Y = Pa + Pi + R

ovvero:

Y = A - zA + B

La prima espressione è la somma dei redditi dell’intero sistema mentre la seconda è semplicemente il valore della produzione ottenuta. Nel linguaggio corrente degli economisti entrambe le espressioni designano il «Valore Aggiunto».

L’introduzione del concetto di Valore Aggiunto è particolarmente importante e necessaria per poter passare ad un altro concetto che è l’accumulazione del capitale che può essere definita come la destinazione a fini produttivi di una parte del reddito prodotto, parte così sottratta al consumo corrente.

Il concetto di «capitale» ricomprende una categoria assai ampia di merci che nella fase dello sviluppo che si sta esaminando corrispondono in pratica agli strumenti di produzione utilizzati sia nel settore minerario che in quello agricolo e in quello artigianale.

Una distinzione delle categorie di capitale, per ora non ancora molto significativa, è quella fra capitale produttivo e capitale finanziario.

Il capitale produttivo è costituito da quelle merci che sono impiegate produttivamente, il capitale finanziario è invece la quantità di moneta che annualmente è detenuta sotto forma di mezzi produttivi.

La distinzione è particolarmente significativa perché incide direttamente sul calcolo sul calcolo della ricchezza economica, cioè sulla valutazione corrente del prodotto ottenuto.

Nel sistema in esame si può immaginare che una frazione dei profitti degli agricoltori e degli artigiani nonché una frazione delle rendite dei proprietari terrieri sia sottratta al consumo per essere destinata all’acquisizione di «strumenti di lavoro» fra i quali, a titolo d’esempio, è possibile ricomprendere il bestiame necessario per il processo di produzione agricolo. Indicando con «s» la frazione di reddito la dimensione dell’accumulazione sarà così determinata:

K = s (Pa + Pi + R)

Dal punto di vista produttivo l’accumulazione si sostanzia in elementi fra di loro eterogenei che servono ciascuno per una ben definita funzione di produzione tecnica; da un punto di vista economico si presentano invece come un corpo omogeneo che per ciascun imprenditore è definito da una determinata quantità di moneta occorrente per il loro acquisto.

Il diverso modo di presentarsi del capitale pone importanti problemi di valutazione che solo la limitatezza della dimensione rende i medesimi «sopportabili» nel presente sistema. Infatti per il capitale, come per il reddito, è possibile una distinzione fra «capitale tecnico» e «capitale economico» che esprimono rispettivamente la dimensione dei mezzi materiali a disposizione dell’imprenditore per lo svolgimento del processo di produzione e il valore economico di questi mezzi. Il passaggio dalla contabilità tecnica delle attrezzature produttive al loro valore nel processo di produzione costituisce, così come il passaggio dalla produzione tecnica alla produzione economica, uno dei più delicati (se non il più delicato) dei problemi dell’intera storia del pensiero economico.

Le scelte per la definizione di valore del capitale investito possono essere molto diverse: i prezzi di mercato, le quantità di lavoro incorporate nel bene, il saggio d’interesse o l’utilità diretta che i beni capitali forniscono alla produzione. Ognuna di tali scelte presenta difetti che qualche volta finiscono per compromettere la loro stessa efficacia e ciascuna di esse è sostenuta dalle varie scuole di pensiero economico che di volta in volta si affacciano alla ribalta. A tutt’oggi una soluzione del problema pare non esistere e gli economisti cercano d’aggirare l’ostacolo ogni volta che si presenta.

Come già riferito, però, nel sistema in esame la scarsa dimensione dell’accumulazione del capitale consente d’ignorare praticamente i problemi attinenti alla valutazione economica dei beni capitale in quanto l’esercizio risulterebbe sproporzionato rispetto al suo significato economico.

Un aspetto dell’accumulazione del capitale che è doveroso mettere in evidenza in quanto esso produce una prima e significativa modifica rispetto allo stesso stesso processo di produzione agricolo e artigianale riguarda la nascita e lo sviluppo di un’attività economica che, convenzionalmente, si può definire ausiliaria: il commercio.

Il commercio produce ovviamente la figura del commerciante che si occupa di ciò che gli economisti definiscono produzione nello spazio e nel tempo: in termini pratici si occupano di trasferire merci già prodotte da un luogo all’altro o di immagazzinare merci per collocarle sul mercato in tempi successivi.

L’introduzione del commercio nel sistema agricolo-artigianale comporta il primo grande, decisivo e in un certo senso fatale passo verso l’economia capitalistica e ciò in considerazione del fatto che che il suddetto mercante dà vita ad un processo di circolazione della ricchezza che emancipa l’economia consentendo ai contadini e agli artigiani di produrre non solo per se stessi o per pochi individui ben definiti geograficamente, culturalmente e sotto il profilo delle classi sociali ma per un mercato vero e proprio introducendo pertanto i primi timidi elementi del sistema capitalistico: l’accumulazione e il rischio d’impresa.

La figura e la funzione del mercante determinano quindi le condizioni per l’allargamento del mercato che costituisce di fatto la base per l’allargamento della produzione agricola e artigianale e a livello d’impresa danno avvio a quelle forme capitalistiche che poi saranno dominanti nel sistema industriale.

Anzitutto il mercante intraprende la propria attività su basi d’incertezza grandemente più elevante che non i contadini e gli artigiani la cui fluttuazione dell’attività economica è più che altro legata a fenomeni naturali o sociali, in secondo luogo nell’ambito dell’impresa mercantile appare l’accumulazione della ricchezza nella sua forma più pura (e canonica) costituita dal denaro. I Mercanti sono prima finanziatori di artigiani e contadini e poi istitutori dell’impresa finanziaria il cui nome significa universalmente «denaro»: le banche.

Con queste premesse l’artigiano e il contadino si avviano a diventare i protagonisti del sistema industriale (soprattutto gli artigiani) sotto l’auspicio e il finanziamento dei ricchi mercanti che nella loro ricerca del più alto profitto finanziano produzioni via via più consistenti inducendo soprattutto gli artigiani a migliore qualitativamente la produzione con la conseguenza di migliarorla anche quantitativamente.

La produttività del sistema agricolo-artigianale e la sua evoluzione è strettamente condizionata dall’evoluzione del commercio e dalla conseguente spinta all’accumulazione. La struttura produttiva del sistema è modificata dal settore del commercio che introduce di fatto un ulteriore settore costituito da nuovi «operatori economici» che possono provenire da una qualunque delle classi socio-economiche più sopra individuate.

In sintesi il sistema economico può essere così formulato:

A) Settore Produttivo

1.1) x Na = Pa + R

1.2) y Ni = z (xNa) + Pi

 

B) Settore della Circolazione

1.3) Da = d1 x Na + Pc Nc1

1.4) Di = d2 y Ni + Pc Nc2

 

C) Settore del Consumo (domanda finale)

1.5) A’ = k N

1.6) B’ = j N

 

Mentre per i settori A) e C) non vi è bisogno di spiegazioni il nuovo settore B) richiede una ovvia spiegazione delle equazioni e dei simboli.

L’equazione 1.3) rappresenta gli acquisti che i commercianti rivolgono al settore Agricolo-minerario e «Da» rappresenta la quantità acquistata, o domandata. Per il momento si suppone che i commercianti acquistino tutta la produzione che s’incaricano poi di collocare sul mercato ma non costituisce alcuna limitazione iscrivere nel modello una quota di mercato «gestita» dai commerciati e una «gestita» direttamente dai titolari delle aziende agricole. In conseguenza di questa supposizione il valore del simbolo «d1» è in tale contesto pari all’unità.

La quantità «xNa» rappresenta ovviamente quanto viene acquistato dal settore agricolo, Pc rappresenta i profitti dei commercianti e N1 il numero dei commerciati impiegati nel settore.

Considerazioni perfettamente corrispondenti valgono per l’equazione 1.4) riferita al commercio dei beni artigianali dove, quindi, «Di» rappresenta la quantità domandata, «d2» la frazione di merci acquistate dal settore, «y Ni» la produzione artigianale, Pc i profitti e N2 il numero dei commercianti impiegati nel sottore.

In questo schema il settore C) del Consumo è collegato al settore A) della Produzione tramite il settore B) del Commercio (o circolazione) e quindi, in linea di massima, valgono le equivalenze

 

x Na = Da = kN

y Ni = Di = jN

 

L’aspetto più sorprendente del modello appena scritto è il fatto che, essendo costruito semplicemente sulle quantità prodotte (e vendute) vi sono degli «operatori economici», i commerciati, che necessariamente (cioè per avere il pareggio delle quantità prodotte e vendute) non «possono» percepire nessun reddito o profitto.

La cosa è direttamente verificabile dalle equazioni 1.3) e 1.4) dove, chiaramente, le quantità Da e Di sono rispettivamente uguali alle quantità d1 xNa e d2 yNi da cui segue, per la soluzione delle due equazione che una delle due quantità che rappresentano il reddito e il numero dei commercianti devono necessariamente essere pari a zero e non vi sono dubbi che la logica imponga che siano i redditi (Pc) ad essere pari a zero. In altri termini nelle condizioni poste non vi è spazio per un «profitto commerciale» e quindi, per conseguenza, non vi è nemmeno spazio per il settore del commercio.

La soluzione di questo apparente vicolo cieco ha in effetti una propria autonoma, e storicamente determinata, via d’uscita che consiste semplicemente nel trasformare il sistema da equazioni delle «quantità» a equazioni dei «valori» per attuare la quale è necessario inserire nel sistema i «prezzi». L’inserimento dei prezzi ha come conseguenza che anche i redditi del sistema, profitti e rendite, siano valutati in termini monetari. Se per il momento si adotta l’ipotesi di un «reddito medio» per contadini, artigiani e commercianti che dovrebbe corrispondere più o meno al reddito medio necessario per la sussistenza o poco più si possono riscrivere le equazioni nella forma seguente:

A) Settore Produttivo

1.1) (x Na) p1 = (Na RMa) + R

1.2) (y Ni) p2 = z (xNa) p1 + (Ni RMi)

 

B) Settore della Circolazione

1.3) Da = (d1 x Na) p1 + (Nc1 RMc)

1.4) Di = (d2 y Ni) p2 + (Nc2 RMc)

 

C) Settore del Consumo (domanda finale)

1.5) A’ p3 = k RT

1.6) B’ p4 = j RT

 

Dall’equazione 1.1), con semplici ed opportuni passaggi algebrici, si ottiene:

 

Na (x p1 - RMa) = R

 

cioè le Rendite totali del sistema, in termini monetari, sono date dalla differenza fra i ricavi delle aziende agricole (x p1) e i Profitti dei contadini (RMa).

Dall’equazione 1.2) si ottiene invece:

                         y p2 -  z x Na  p1\Ni    = RMi

cioè il reddito (medio) degli artigiani è dato dalla differenza fra i ricavi (y p2) e i costi sostenuti per l’acquisto di materiali dal settore agircolo-minerario.

Rispetto alle equazioni del Settore della Circolazione è necessario anzitutto porre una semplificazione di calcolo e cioè:

x Na = A’ = Q

e cioè indicare con la medesima simbologia sia la quantità acquistata dal settore (x Na) che la quantità venduta (A’) da cui segue, fondendo la 1.3) con la 1.5):

Q p3 = (d1 Q) p1 + (Nc1 RMc)

che con semplici passaggi algebrici diventa:

 

p3 = p1 + Nc 1  RMc \Q

 

vale a dire che il prezzo di vendita delle merci agricole messe in commercio dal settore B) è pari al prezzo d’acquisto p1 sommato al reddito «unitario» monetario di ciascun commerciante.

Il dato più interessante per l’analisi economica è ovviamente costituito dalla quantità Nc1 RMc, il reddito monetario dei commercianti.

Il reddito monetario dei commercianti è ovviamente un profitto d’impresa dovuto, da un punto di vista strettamente contabile, alla differenza positiva fra p3 (prezzo di vendita) e p1 (prezzo d’acquisto). Alla formazione di questo reddito concorre ovviamente il concetto di Reddito Medio o Normale che ogni commerciante dovrebbe percepire per essere almeno stimolato a svolgere questa attività economica.

In realtà l’attività commerciale, al pari dell’agricola e dell’artigianale, si svolge sia sul piano tecnico (comprare e vendere merci) che sul piano economico (valorizzazione del lavoro) e uno studio appena più accurato dell’attività tecnica introduce, forse in modo insospettabile, nel mondo della produzione capitalistica.

Come un’attività apparentemente «innocua» come il commercio possa produrre (e abbia prodotto nei fatti) la più imponente trasformazione nell’attività economica costituisce l’oggetto di tutto il Saggio e in particolare del prossimo paragrafo.

 

 

 

- 2. Sistema capitalistico. - Il sistema capitalistico presenta una struttura produttiva, di circolazione delle merci e di distribuzione della ricchezza prodotta formalmente molto simile a quella del sistema agricolo-artigianale e si può assumere pertanto come punto di partenza il «sistema» rappresentato dalle equazioni 1.1) - 1.6). L’inizio della produzione capitalistica parte dal settore del commercio e precisamente quando i commercianti, attraverso la loro tipica attività economica, impongono un allargamento geografico dei mercati sia di collocazione del prodotto che di acquisizione delle materie prime. In termini correnti la produzione da «semplice» trasformazione di materie prime in prodotti finiti o di «sementi» in «raccolti» diviene produzione nello spazio e nel tempo, mettendo così in contatto (economico) soggetti altrimenti destinati a rimanere per sempre fra di loro isolati.

Come è facile intuire la prima attività di supporto messa in atto dai commercianti è quella del trasporto per terra e per acqua (per cielo non essendo ancora maturi i tempi).

Supponiamo di fare riferimento ad una determinata area geografica nella quale stanzia una certa popolazione i cui bisogni sono soddisfatti da agricoltori e artigiani «locali» e supponiamo, per il momento, che un piccolo gruppo di commercianti si organizzi per trasportare un particolare prodotto in quell’area geografica andandolo a prelevare da un’altra area geografica, lontana «qualche» migliaia di chilometri.

L’atto economico svolto dai commercianti in quanto tale non ha nulla di particolarmente trascendentale da un punto di vista strettamente teorico o filosofico in quanto si tratta di partire dal luogo «X», percorrere un cammino «T», giungere al luogo «G», acquistare ad un certo prezzo una certa quantità di merce «Y», ripercorrere il tratto «T» e una volta tornati a «X» vendere agli utilizzatori finali le merci acquistate.

Da un punto di vista tecnico-economico questo atto diviene invece particolarmente complesso in quanto il commerciante decide di spostarsi da un luogo all’altro percorrendo molto chilometri e poiché stiamo parlando di un sistema economico nel quale i mezzi di trasporto non erano quelli di oggi il viaggio da compiere prevedeva una organizzazione particolarmente complessa di mezzi e di uomini e poiché si tratta di una organizzazione prettamente economica è anche necessario provvedere al suo finanziamento.

Il calcolo economico deve partire dal finanziamento necessario alla buona riuscita della spedizione ma per la valutazione di tale finanziamento occorre procedere ad una valutazione «tecnica» dei mezzi occorrenti al trasporto, della distanza e del tempo ritenuto necessario per la copertura della suddetta distanza.

Si suppongano i seguenti semplici dati:

Distanza = 1.000 km

Mezzi = 10 carri e 20 cavalli

Addetti = 2 ogni carro = 20 addetti

Salario addetto = 40 UM il giorno

Costo cavallo = 5.000 UM

Costo carro = 500 UM

Quantità = 100.000 unità

Prezzo (p1) = 10 UM (unità monetarie)

 

In queste condizioni il commerciante per affrontare il viaggio dovrà disporre dei seguenti mezzi monetari:

 

Acquisto cavalli = 100.000 UM

Acquisto carri = 5.000 UM

Acquisto merci = 1.000.000 UM

 

Totale Fabbisogno = 1.105.000 UM

 

E’ ovvio che per affrontare il viaggio il commerciante dovrà «anticipare» in tutto o in parte anche il salario ai «viaggiatori». Nella prima ipotesi avrà quindi necessità di un ulteriore finanziamento che sarà dato dal salario per addetto per il numero di giorni della spedizione. Si supponga che la spedizione duri, fra andata e ritorno, 30 giorni. In questo caso i salari da anticipare saranno pari a:

Salario Addetti = 24.000 UM

(40 x 20 x 30)

e il finanziamento totale arriverà pertanto a 1.129.000 UM

A questo punto possono darsi due ipotesi: il commerciante possiede la somma indicata e l’anticipa per la spedizione oppure la prende a prestito da terzi, ovvero cerca di coinvolgere altri soggetti al finanziamento della spedizione con la prospettiva di trarne un «congruo» profitto.

In entrambi i casi insieme al calcolo del fabbisogno di finanziamento diviene necessario il calcolo della convenienza economica all’operazione per fare il quale il commerciante non deve far altro che applicare la formula più sopra descritta.

Una utile ipotesi di lavoro è quella di definire il «prezzo minimo» al quale occorre rivendere la merce acquistata sul mercato locale per pareggiare almeno i costi di acquisizione, senza il conteggio dei profitti. Il commerciante deve pertanto passare da una contabilità dei costi di acquisto ad una contabilità dei costi di utilizzazione di quelli che ormai si possono definire (modernamente) come fattori della produzione.

Il costo dei cavalli è il primo costo di acquisizione ma è chiaro che se il commerciante prevede di utilizzare i cavalli per 10 viaggi nel corrente viaggio dovrà conteggiare semplicemente un decimo del costo sostenuto, vale a dire 10.000 UM. Analogo ragionamento va fatto per i carri. Se anch’essi sono ritenuti validi solo per 10 viaggi il loro costo di utilizzazione per il corrente viaggio deve essere di un decimo, quindi 50 UM. Il costo delle merci ed il costo degli addetti è invece per intero a carico del «viaggio corrente».

Qualora il commerciante si faccia anticipare da un finanziatore un parte delle cifra necessaria dovrà corrispondere al medesimo un interesse. Se quindi impiega 1.095.000 UM di terzi a un saggio del 10% annuo dovrà corrispondere al termine dei trenta giorni:

1.095.000 x 10% x 30/365 = 9.000 UM

che si aggiungono così ai sui costi di utilizzazione.

Inoltre è verosimile che tanto i cavalli quanto gli addetti dovranno in qualche modo essere «mantenuti», quindi nella previsione di spesa il commerciante dovrà inserire anche il costo relativo a tale mantenimento. Se tale costo fosse, per esempio, di 10 UM per gli addetti e di 1 UM per i cavalli vi sarebbero costi ulteriori per 6.600 UM. Il costo della spedizione sarebbe allora:

Utilizzazione cavalli = 10.000 UM

Utilizzazione carri = 500 UM

Salari degli addetti = 24.000 UM

Interessi ai finanziatori = 9.000 UM

Costi di gestione = 6.600 UM

Totale = 50.100 UM

 

L’applicazione della formula sarebbe pertanto:

10 (p1) +   50.100\100.000  = 10,501 (p3)

10,501 UM è dunque il prezzo minimo che il commerciante deve poter applicare sul mercato locale per trarre dalla spedizione almeno i mezzi economici per pagare i costi. La decisione se intraprendere o meno il viaggio dipende quindi da una valutazione del commerciante circa la possibilità di collocare sul mercato la quantità acquistata e al prezzo così ricavato.

Come è facile intuire anche da una sommaria esposizione dei fatti come la precedente nell’organizzazione e nella gestione del viaggio il commerciante si sottopone ad una serie di rischi di non facile valutazione.

Anzitutto il viaggio con le incognite ad esso connesse, quindi il fatto che la merce trovata sul posto non sia della qualità voluta o che il prezzo non sia più quello pensato, poi si trova a dover risolvere il problema di collocare per intero la partita di merce e al prezzo voluto.

Un elemento assolutamente empirico che può indurre il commerciante ad organizzare il viaggio è quello di una speranza di guadagno un poco più alta della «media» dei redditi della collettività e degli addetti al viaggio in particolare. Supponiamo che il commerciante in questione decida che valga la pena di organizzare il viaggio per conseguire un interesse sul capitale investito almeno pari a quello corrisposto ai finanziatori: vale a dire il 10% anno. Poichè il suo capitale investito nella spedizione è pari a 34.000 UM dovrebbe ricavare almeno 3.400 UM e che valutato anche che, per deperimento, mancanza di acquirenti o altre circostanze la quantità venduta sia in definitiva  98.000 unità. Il prezzo sarà allora:

             10 (p1) +  53.500\ 98.000 = 10,55

L’abilità del commerciante, la richiesta sostenuta da parte dei clienti ed altre circostanze possono indurre il prezzo così trovato a salire ma è indubbio che se l’aumento del prezzo arricchisce il commerciate è necessario anche che la collettività dove esso colloca i propri prodotti sia abbastanza ricca da sopportare questi prezzi. Il commerciante, tuttavia, può collocare i prodotti acquistati in mercati lontani sia ai diretti utilizzatori sia, più spesso, agli artigiani che possono così dedicarsi, se la merce non è presente nel luogo dove producono, a nuove produzioni di merci.

In questo secondo caso il meccanismo economico subisce (o può subire) una spinta inarrestabile (o apparentemente tale).

Il commerciante può infatti «finanziare» un numero più o meno grande di artigiani, fornendo loro le materie prime acquistate e inducendoli ad accrescere la produzione.

L’immissione nel processo produttivo artigianale di materie prime induce senza dubbio ad un aumento della produzione di «manufatti» con alcune conseguenze per tutto il sistema economico:

 

1) alcuni artigiani sfruttano meglio di altri le possibilità offerte dal mercato e pertanto assumo alle proprie dipendenze dei lavoranti che vengono addestrati per lo svolgimento del processo di produzione;

2) lo svolgimento del processo produttivo non è più affidato ad un solo addetto ma ogni lavorante compie una o poche operazioni specifiche del processo di produzione, acquisendo in tal modo una «specializzazione» produttiva;

3) l’accresciuto numero di lavoranti e il carattere ripetitivo di alcune operazioni di produzione inducono ad una maggiore «meccanizzazione» del processo di produzione con l’introduzione quindi di «macchine operatrici»;

4) l’accresciuto «potere produttivo» dei lavoranti induce ad una maggiore ricchezza nell’intera collettività, quindi a redditi più alti per i singoli operatori;

5) la divisione del lavoro e il progresso tecnico inducono ad un aumento della produttività con conseguente abbassamento dei costi di produzione delle merci;

6) l’impresa, anche se per ora in modo «timido» diviene sempre di più un «fenomeno finanziario» oltre che tecnico e da questa circostanza, apparentemente banale, prende forma la struttura produttiva e distributiva del sistema conosciuto come «capitalistico».

In modo sintetico si può affermare che quelle imprese artigianali che si trasformano in «capitalistiche» subiscono un cambiamento della struttura produttiva tecnica che determina a livello economico una complessa struttura di «fattori della produzione» che possono essere così classificati:

1) Materie prime agricole;

2) Materie prime industriali;

3) Lavoro dipendente;

4) Attrezzature produttive.

 

Le materie prime agricole sono acquisite dal tradizionale sistema agricolo senza modificare troppo la struttura produttiva di un settore o dell’altro.

Le materie prime industriali sono acquisite dal settore del commercio per cui l’attività commerciale si specializzerà in almeno tre settori:

 

1) il commercio al minuto di generi agricoli;

2) il commercio al minuto di merci «artigianali»;

3) il commercio fra imprese (all’ingrosso) di materie prime.

 

Il «lavoro dipendente» consiste nell’acquisizione di mano d’opera diretta alla produzione delle merci, quindi alla lavorazione delle materie prime necessaria per la trasformazione delle medesime in un prodotto finito. Il costo di acquisizione della mano d’opera è detto «salario».

Le attrezzature produttive possono essere acquisite solo da altre imprese che si specializzano nella produzione di «macchine operatrici» e quindi assumono anch’esse materie prime agricole, artigianali e mano d’opera dando così vita ad un settore del tutto nuovo e caratteristico del sistema capitalistico che opera secondo le classiche regole delle altre imprese.

Rispetto al settore del Consumo finale vi saranno tre «mercati»:

1) il mercato delle merci agricole;

2) il mercato delle merci artigianali;

3) il mercato delle merci industriali.

 

Quello che è quindi necessario ora esaminare è la struttura produttiva e distributiva della «nuova» impresa «capitalistica».

Come già visto per l’impresa artigianale anche per l’impresa industriale vi è un flusso di produzione in uscita dato dalla quantità prodotta in una certa unità di tempo (un giorno, un’ora o un anno).

Mentre nel caso dell’impresa artigianale tale flusso è essenzialmente determinato dal lavoro dell’artigiano nel caso della produzione capitalistica intervengono altri elementi che sono quelli più sopra definiti: materie prime, lavoro e attrezzature produttive: il processo di produzione tecnico avviene «combinando» in modo opportuno, spesso determinato dalle «leggi» della fisica, i tre elementi suddetti.

L’organizzazione della produzione industriale segue, nella sua struttura logico-economica, esattamente quella del commercio e pertanto quell’artigiano o commerciante (o chiunque altro) che, volendo sfruttare economicamente determinate «opportunità di mercato», prendesse in considerazione l’ipotesi della costituzione e della messa in opera di un’attività industriale dovrebbe percorrere il medesimo iter di fattibilità economica.

Ovviamente i dati tecnici riferiti alla produzione industriale sono assolutamente diversi da quelli relativi all’iniziativa «commerciale» e devono partire anzitutto dal tipo di processo di produzione che si è scelto di mettere in esecuzione.

Scegliendo di produrre, per esempio, camice occorrerà conoscere con precisione come si perviene da un pezzo di stoffa ad una camicia, quindi quante operazioni occorre fare e, particolarmente importante per il settore in esame, quali «macchine operatrici» possono «cooperare» con la mano d’opera «viva» affinché le operazioni siano più efficienti, precise e veloci.

Si supponga che per la produzione di una certa merce Q siano necessarie 50 operazioni distinte e che un artigiano di «medie» capacità compia queste 50 operazioni in 10 ore di lavoro cosicché al termine di una giornata abbia prodotto esattamente una unità di questa merce Q. In una prima fase un artigiano «intraprendente» potrebbe mettere a punto una macchina che consente di velocizzare una fase particolarmente importante del processo di produzione e contemporaneamente assumere mano d’opera che si specializza in una o poche operazioni affinché il processo di produzione non subisca «intoppi». Si supponga che questa fase particolarmente importante del processo di produzione richieda da sola due ore di lavoro di un «medio» artigiano e che l’invenzione di una macchina operatrice consenta ad un addetto svolgere la lavorazione in soli 24 minuti (1\5 del precedente tempo). Se le operazioni «preparatorie» a questa fase produttiva sono, per esempio, 30 necessariamente le operazioni susseguenti necessarie alla conclusione del ciclo di produzione sono 19. Il «fabbisogno» di mano d’opera è condizionato dal ritmo della macchina operatrice e della capacità dell’addetto di sfruttarla pienamente. Se l’addetto resta alla lavorazione per 10 ore il giorno la sua «capacità produttiva», con la indispensabile cooperazione della macchina operatrice, sarà di 25 unità. Affinché questa capacità produttiva sia efficacemente sfruttata occorre che gli addetti alla produzione «a monte» (continuando ad assumere le operazioni medie per addetto pari a 5) siano (30\5) 6 unità mentre gli addetti alla produzione «a valle» dovranno essere (19\5) 3,8 unità e cioè 4 sicché il totale degli addetti dovrà essere pari a 11.

In queste condizioni vi sono già una serie di elementi che consentono la formulazione di una fattibilità economica dell’impresa.

Anzitutto chi dà avvio (o vuole dare avvio) all’impresa ha a disposizione alcuni dati tecnici che sono:

1) addetti necessari per la produzione = 11

2) macchine operatrici necessarie = 1

3) materie prime necessarie = Q’

 

Il calcolo economico necessario per valutare le «possibilità» dell’impresa deve passare attraverso la «trasformazione» delle quantità in valori economici, quindi in definitiva in prezzi (che è il corrispettivo pagato per l’acquisizione di una merce o l’utilizzazione di un «fattore della produzione».

Il «prezzo» degli addetti alla produzione, come nel caso visto per i commercianti, è costituito dal salario. Si supponga che per il momento l’aspirante imprenditore, senza troppe analisi economiche e sociologiche, decida di acquisire la mano d’opera a un «prezzo» leggermente più alto di quello per gli addetti al commercio, per esempio a 50 UM al giorno. In questo caso gli undici addetti avranno un costo complessivo pari a 550 UM.

Le macchine operatrici necessarie al processo di produzione sono costituite, per esempio, da quella «nuova» e da una serie di altre di più tradizionale lavorazione. Il costo complessivo delle macchine operatrici tradizionali è, per esempio, pari a 648.000 UM con una durata stimata di 36.000 ore di lavoro mentre il costo della macchina operatrice «nuova» è pari a 432.000 UM con una durata stimata di 18.000 ore di lavoro. Poiché queste attrezzature produttive devono essere acquisite prima della loro utilizzazione in qualche modo il loro costo diviene indipendente dalla utilizzazione medesima per cui il calcolo economico dovrà, almeno, tenere in considerazione il «massimo sfruttamento» di queste macchine affinchè non vi siano costi sostenuti in assenza di correlativi ricavi. Per questo motivo l’ipotesi è quella di verificare le condizioni di equilibrio economico in relazione alla durata delle macchine operatrici più «longeve».

Il valore economico delle materie prime immesse nel processo di produzione è determinato dalle quantità utilizzate moltiplicate il relativo prezzo d’acquisto. Le quantità utilizzate di materie prime costituiscono un dato tecnico differente rispetto alle merci dell’impresa commerciale in quanto se sono necessarie alla fabbricazione del prodotto non si ritrovano nel prodotto sotto la medesima «forma» ma sono «elaborate» e integrate fra di loro in modo da costituire un nuovo prodotto. Ne segue che manca una corrispondenza di tipo tecnico fra le materie prime impiegate e il prodotto finito. Da un punto di vista tecnico è quindi necessario stabilire una «resa» dei materiali impiegati ovvero stabilire quanta «materia prima» occorre per fabbricare il prodotto finito, nel nostro caso pari a 25 unità giornaliere.

Poiché la produzione di una unità è solitamente determinata da un insieme di «materie prime» ognuna delle quali concorre alla formazione di una «parte» del prodotto finito sarebbe necessario prendere in considerazione ogni quantità utilizzata e quindi definirne sia la resa tecnica che il costo di produzione. Per semplificare le cose, ma senza nulla togliere al ragionamento, si supponga che la materia prima utilizzata sia unica e consista, per ogni unità prodotta, 5 kg. di «MP», con un prezzo pari, come già detto, a 10 UM.

Con i dati sopra indicati l’ipotetico «industriale» si troverebbe nella seguente situazione di costi giornalieri:

 

a) Mano d’opera = 550 UM

b) Attrezzature «tradizionali» = 180 UM

c) Attrezzature «innovative» = 240 UM

d) Materie prime = 250 UM

 

Totale costi di produzione = 1.220 UM

 

da cui segue che il prezzo necessario a pareggiare i costi di produzione è pari a 48,8 UM.

Indipendentemente da «produttività di fattori produttivi», da «sfruttamento del lavoro» o da «anticipazioni di capitale» il profitto per l’imprenditore nasce esclusivamente dalla circostanza di riuscire a collocare sul mercato tutta la merce prodotta ad un prezzo superiore a quello necessario a coprire i costi di produzione (nel caso pari a 48,8 UM).

Poiché il profitto dipende dalla differenza (positiva) fra i ricavi ed i costi sulla sua formazione incidono tutti i fattori di rischio e d’incertezza che incidono sui vari componenti dei costi e dei ricavi.

I rischi relativi ai fattori della produzione (e quindi a costi) attengono all’acquisto, all’utilizzazione e alla «combinazione» dei fattori medesimi nell’atto di produzione.

I rischi relativi alle vendite (quindi ai ricavi) attengono invece al mercato, quindi ai gusti dei consumatori (variabili), alla circostanza che alcuni di loro possono preferire prodotti simili o che il prodotto finito in misura più o meno consistente non sia adatto per essere venduto.

L’impresa economica capitalistica è interamente permeata da siffatti rischi interni ed esteri e via via che le sue dimensioni divengono più grandi le strategie adottate per la gestione (e quindi per il conseguimento del profitto) attengono tutte alla previsione e al controllo dei rischi.

Prevedere e controllare i rischi rispetto ai fattori di produzione significa controllare la produttività del lavoro, il corretto acquisto e utilizzo delle attrezzature produttive, il corretto acquisto e utilizzo delle materie prime, l’opportuna combinazione fra tutti i fattori della produzione e fra l’intera combinazione produttiva e l’ambiente in cui essa opera e molti altri «fenomeni» incidenti sulla vita dell’impresa.

Prevedere e controllare il rischio rispetto al mercato di collocazione del prodotto significa sviluppare delle tecniche di vendita, di acquisizione di nuovi clienti, di creazione di «fedeltà» al prodotto, di scelta dei modi di commercializzazione dei prodotti, di differenziazione dei prodotti rispetto alla concorrenza e altri fenomeni ancora.

La gestione del rischio è l’essenza dell’impresa capitalistica ed errori in siffatta gestione possono compromettere le più efficienti produzioni o rendere sterili i più ambiziosi programmi tecnico-produttivi.