I LIBRI DEI NOSTRI AUTORI

In questa pagina troverete elencate le recensioni e,o, le presentazioni dei libri scritti dai nostri Autor

TITOLO AUTORE
ECHI AD INCASTRO FRANCO SANTAMARIA
IL TEMPO DELLA VITA RENO BROMURO
LA NOSTRA CITTA' VIOLENTA RENATO MILLERI (Remil)

BARCALUNA

MARCO CHIERICI

 

 Vai alla Home Page di Interactive People

Il sito delle Grandi Emozioni!


 

Franco Santamaria, ECHI AD INCASTRO
(Joker, pp. 72, euro 11,50 - ISBN 88-7536-007-3)

L’opera di Franco Santamaria – in poesia come in pittura, disciplina nella quale l’autore concretizza con accesa espressione le proprie angosce – è eminentemente politica, sociale: si fa coraggiosamente e caparbiamente carico delle sofferenze altrui non immaginando di sottrarli al prossimo (così fa chi si ritiene un dio, o il personaggio di un racconto – penso a The wish house di Kipling), ma condividendole ed approfittando con generosità della propria facoltà, essendo egli un artista, di levare il proprio canto sopra la palude di conformismo ed oppressione che smorza il grido di chi artista non è. Non c’è, tuttavia, nell’opera di Santamaria la componente dell’illusione: egli sa bene che l’artista proprio in quanto tale è costituzionalmente ostacolato, messo a tacere, eliminato, e proprio per questo egli sfrutta al massimo ciò che il comune nemico (la mediocrità, l’egoismo, lo strapotere…) gli permette di esprimere, organizzandolo in forme verbali o pittoriche le quali si nutrono sempre di un sanguinoso agon, di una lotta incessante, corpo a corpo, violenta e senza esclusione di colpi.
.....
Santamaria sa farsi corda vibrante per simpatia, sconfiggendo quel soggettivismo soffocante che l’uomo coltiva da sempre (e che nell’artista, guarda caso, è gioco-forza imperante anche qualora restasse ad di qua dell’egotismo), un’interpretazione della propria sofferenza come riflesso del patire umano, sofferenza esistenziale più che condizione di dolore personale. (dalla Prefazione di Sandro Montalto)

... se è vero che il poeta dipinge un panorama di solitudine, talora di nichilismo che è solo suo e gli appartiene tutto, rimane anche vero che il lettore è profondamente coinvolto (a fresco di lettura, ho avvertito una sensazione di avvolgimento, quasi di assedio, ad opera della densità della sua lirica) nella ricerca di consonanze, affratellato nell’inchiesta e nell’indagine (appunto, un incastrare echi).
La poesia di Santamaria, infatti, ha il dono non usuale di farsi voce comune, di parlare anche per la sete di verità altrui, anche in conflitto con i limiti imposti dallo spazio e dal tempo... (dalla recensione di Gian Domenico Mazzocato)

Le figure retoriche, di senso e di suono, rimandano di volta in volta alla carnalità e alla metafisica, in un’alternanza di slancio passionale, “ho lasciato il cuore alle tue forme”, e meditazione contemplativa, “dalle nostre case se ne andarono presto i sogni”, che riposano su arcane, sedimentate certezze, frutto di un lungo, laborioso percorso esistenziale, che si fa cifra di un vissuto universalmente ed univocamente partecipato.
Monologhi sussultano inquieti, sconfinando su parole e concetti-chiave, Tempo e Solitudine, che segnano il vissuto inquieto di un’anima sulle tracce di una sfuggente eternità che irride i nostri sogni. (dalla recensione di Maria Teresa Manganiello)

_________

Franco Santamaria è nato a Tursi (Matera), risiede ad Afragola (Napoli), dopo lunga permanenza prima a Taranto, poi a Napoli.
Ha pubblicato i volumi di poesia "Primo lievito" (Gastaldi) e "Storie di echi" (Ferraro). Oltre al "Catalogo" dei suoi dipinti, in Internet ha pubblicato l’opera sperimentale di poesia-pittura “Parola e Immagine”, presentata in mostre/recital in molte città italiane e in Svizzera. (1)
Con poesie, racconti, dipinti, è presente in riviste letterarie, antologie, portali di letteratura e gallerie d’arte.
Ha conseguito, tra gli altri riconoscimenti, il Primo Premio “Poeta Top 2004” e l’onore-onere di rappresentare l’Italia alla 4^ Biennale Internazionale dell’ Arte Contemporanea di Firenze (dicembre 2003).
Ha all’attivo numerose mostre personali e collettive sia in Italia che all’estero.
(1) http://web.tiscali.it/santamariaPoesia

_________

 Se vuoi acquistare il libro:
 •-  Edizioni Joker, Via Verdi 68 - 15067 Novi Ligure (AL) - Tel. 0143.75043; c/c/postale n.40946642
 •-   Librerie Fiduciarie: vedere su www.edizionijoker.com
 •-   www.365giorni.fieralibro.net
 •-  Franco Santamaria: Via Salicelle pal. Tulipano sc. C - 80021 Afragola (NA) - frasmari@tin.it - mediante vaglia postale


 

 

IL TEMPO DELLA VITA

di Reno Bromuro


 

IL LINGUAGGIO DELLA POESIA

La letteratura italiana contemporanea è povera di poesia. Mentre in altri paesi (specie nell’Oriente europeo, ma anche in Sudamerica o in India) la produzione poetica coinvolge molti e validi autori ed è appassionatamente seguita da un grande pubblico, in  Italia dopo la «Stagione dei giganti» della triade CarducciPascoliD’Annunzio la poesia è ripiegata su filoni riservati agli intenditori, come il crepuscolarismo, l’intimismo, l’ermetismo, che non si sono imposti più che tanto all’attenzione della gente, anche perché ispirati ad un esasperato solipsismo, e quindi quanto mai estranei alla vita e agli interessi dei meccanismi comunitari in cui opera e si esprime l’uomo del nostro tempo.

Ho letto in questi giorni alcune poesie di Reno Bromuro, pubblicate nelle raccolte «Camminare cantando» (1989) e «Poesie della vita» (1991). E mi ha colpito la sua capacità di recuperare l'efficacia comunicativa del linguaggio poetico combinando l’espressione dei sentimenti più delicati ed intimi con la ricerca attenta di una realtà concreta e quasi terragna, dai ricordi della fanciullezza all’impatto con gli avvenimenti pubblici che hanno contrassegnato, nel bene e nel male, lo svolgersi della storia e dei rapporti sociali nell’arco della sua vita.

In un mondo distratto, che non ascolta più nulla, Bromuro chiede, nella sua poesia – programma, «Quando parla un poeta», di essere ascoltato in silenzio, perché “tutto ciò che dice un poeta è sempre cosa seria e meditata”. Ed enuncia le cose che vuole dire:

«Voglio un mondo che parli

la lingua universale dell’amore.

Voglio scrivere per le strade

sui muri delle case screpolate

sui vetri degli alti grattacieli

sul parabrezza delle auto

sui banchi di scuola

sul volano del tornio

i miei versi che vogliono

esaltare la volontà del poeta

il desiderio di un mondo

che parli la lingua universale dell’amore».

Ecco dunque un poeta che ha qualcosa da dire e non ha timore di dirlo, e in termini di alto impegno civile, agli uomini che si rifiutano di vedere ciò che li circonda; ecco un poeta che si ribella – come scrive altrove – alla schiavitù, all’ingiustizia, alla ipocrisia, alla cattiveria. Ha pertanto tutti i titoli per chiederci di ascoltarlo e di riflettere sui messaggi che ci manda con lo strumento ineffabile del linguaggio della poesia; un linguaggio che purtroppo ci è ormai poco consueto,ma che è pur sempre il solo che arriva non solo alla nostra mente ma anche al nostro cuore.

                                                                Gian Franco Cimurro (Dossier n. 44)

PARERI DEI LETTORI

Caro Reno,

non conosco la ragione per cui mi permetto di scriverti solo adesso. Forse hai semplicemente offerto l'occasione, o forse non avevo avuto prima il coraggio di esprimermi a proposito della tua opera.

Ho acquistato "Il tempo della vita" dopo la tua prima segnalazione in lista e ho atteso trepidamente che arrivasse a casa. E' arrivata in un pomeriggio piovoso in cui avevo quasi dimenticato cosa potesse desiderare il postino da me. Stavo attraversando un momento difficile, l'apatia stava cercando di impadronirsi ancora di me e di trasformarsi in unica certezza. Poi, il tuo libro. Esagererei a scriverti che abbia avuto un effetto miracoloso - sarei falsa -, ma ha creato uno status quo da cui mi sono smossa. Se permetti il paragone, è stato come un momento epifanico. Sebbene non abbia vissuto tanti degli avvenimenti che hai scritto, mi sono rispecchiata nelle stesse emozioni. Più di tutti, ho vissuto "L'amore è entrato..." per il particolare momento in cui l'ho letta.

Da quel giorno, il tuo libro giace, anzi "vive" (mi permetto questo verbo per eliminare ogni passività) sul mio comodino, dove vi sono i libri a cui tengo di più, a cui dedico qualche ora notturna. Un abbraccio e un affettuoso saluto, con la stima che nutro da sempre per te,  

Gloria

Per ulteriori informazioni contattate direttamente l'Autore al seguente indirizzo: renobromuro3@tin.it




OPERA DI POESIA POSTUMA

di

Renato Milleri

 (REMIL)

                        PROPOSTE - EDITORIALI - ROMA


Più leggo quest’opera «La nostra città violenta» di Remil (Renato Milleri), scritta nel 1986, e più mi convinco che sto facendo il viaggio dantesco a ritroso. Mi spiego: Dante dal peccato sale attraverso il monte del Purgatorio per raggiungere il Paradiso, per mondarsi, in questo modo, dei peccati giovanili; Remil fa il viaggio in senso opposto, dalla spensieratezza giovanile (il Paradiso) vissuta scorrazzando per la sua città amata (Roma) all’Inferno in cui oggi Roma vive: violentata, diffamata, stuprata in continuazione; e come Dante divide la sua Commedia in tre Cantiche lui canta l’amore – odio per Roma «La nostra città violenta» in cinque parti: L’Amore, L'Illusione, La Ribellione, La Stanchezza e La Violenza. Ma  andiamo con ordine.
 Apre la raccolta una considerazione che titola «Amore»
 “Quando la città è buona
nascono sovente pagine d'amore
che riempiono l'aria
di misteriosa armonia”.
Per i romani quest’armonia misteriosa nasce dal Gianicolo e si espande sulla città, ancora mezza assonnata, che sbadigliando si gode l’armonia che l’avvolge, dal Borgo alle estreme periferie da Sud Est a Nord Ovest: armonia d’ogni ceto sociale.
 Ho parlato di un viaggio dantesco in senso inverso ed eccolo che inizia, l’armonia che ha avvolto la città, come il cielo da un orizzonte all’altro, comincia a dissolversi e mi ritornano alla memoria i versi di Dante:
...« lo mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, ed a quel modo
Che ditta dentro, vo significando ».
Proprio questa definizione assoluta, dell'essenza vera della poesia e dell'arte, noto nella raccolta di poesie di Remil.
 Rivedo dinanzi agli occhi l’incontro di Dante con Bonagiunta Orbicciani da Lucca, nel balzo del VI canto del Purgatorio e questi gli chiede se lui abbia iniziato la nuova poesia « Le nuove rime » con la canzone della Vita Nova « Donne che avete intelletto d'amore ». Dante non risponde direttamente; dice solo: Io son uno che, quando sento qualche cosa dentro di me, ascolto attentamente ed esprimo quel che sento, con tutta sincerità. Ecco perché mi sento di affermare che il canone fondamentale con cui Remil dichiara:
 «Quando la città è buona
nascono sovente pagine d'amore…»
 Con questi versi egli definisce e spiega il concetto del suo principio, che potrà essere accettato come un giudizio, per definire il comportamento della “sua” Città.
Remil non è un Poeta artificioso, retorico come oggi se ne vedono e in grandissima quantità, specialmente in Internet, non c’è Web o Sito che non faccia spazio a questo tipo di pseudo poeti (grafomani, in verità), che hanno sempre nelle loro opere qualche cosa che finisce col disturbare, con lo stancare. Remil è convinto che, come la sincerità è la prima e più pregevole dote dell'uomo, così dobbiamo dire che deve essere il fondamento di ogni poesia e di qualsiasi manifestazione artistica.
Remil è straordinariamente sincero. Nella «Nostra città violenta» ha espresso sempre con gran forza e con meravigliosa immediatezza quel che sentiva dentro il suo animo. La stessa cosa, io credo, che si debba dire di tutti i veri grandi poeti che noi conosciamo.
La limpidezza del verso mi riporta alla scorrevolezza dell’ottava ariostesca, mentre il contenuto de "Il Principe" del Machiavelli che, per quanto scritto in prosa, è una vera e propria creazione della mente e della fantasia.
De «La nostra città violenta» mi attrae proprio la straordinaria sincerità con cui l'autore espone le sue esperienze, la vita degli uomini, il modo di come violentano la sua amata – odiata città, le conclusioni e gli insegnamenti che va traendo da esse.
Quello che mi piace di più è la chiarezza della sua espressione, l’evidenza delle descrizioni, l’immediatezza con cui esprime tutto quello che passa nel suo animo. La stessa dote che lo avvicina molto al Petrarca le cui poesie hanno il profumo della sincerità, sia che egli esprima il sentimento che lo lega a Laura, sia che ci faccia sentire gli scrupoli da cui è tormentato il suo spirito.
«Un giorno ti porterò con me
a conoscere le acque buone e sapienti
dell'amore felice.
Anche le terre aride del silenzio
dove abbiamo costruito la nostra casa
troveranno le parole
che non sono state mai dette
nel lungo gioco delle assenze.
Vedrai amore
un giorno verrai con me
fino a conoscere
la luce bianca dell'infinito!»
 Il discorso è ripreso dopo aver detto al suo amore che il sole sta morendo. E’ stato solo un attimo di incertezza che subito stacca gli occhi dall'astro e ripensa che anche le terre aride del silenzio, troveranno le parole.
In quel medesimo istante egli si sente trasumanato e inizia effettivamente, senza accorgersene, il volo attraverso gli spazi infiniti. Solo avverte un'armonia mai sentita:
 «Vedrai amore
un giorno verrai con me
fino a conoscere
la luce bianca dell'infinito!»
e si trova immerso in un lago di luce. L’amore gli viene incontro come la primavera agli uccelli.
L'interesse evolutivo del Canto è costituito soprattutto dalle immagini che sono veramente poetiche: le acque buone e sapienti, le terre aride del silenzio troveranno le parole che non sono state mai dette.
Questa poesia è di argenteo nitore. Basta soffermarci a considerare i versi già accennati per perderci nell’immensità delle immagini che in essi appaiono. Sono immagini tanto limpide che ci si può smarrire in quella luce bianca dell’Infinito.
«Anche l'ultima lacrima
raccoglie l'azzurro del giorno
dei fiori il sole giallo
e del vento
l'ultimo tormento dei capelli
che muovono verso l'addio».
Sono immagini concepite serenamente e rese nella scelta delle parole colla medesima serenità con cui sono state immaginate. Il verso è così semplice e nello stesso tempo così scultoreo, da farci balzar vivo davanti agli occhi il tormento del vento nei capelli e l’ultima lacrima che raccoglie l’azzurro del giorno.  Le facce attonite che guardano la lacrima, l’ultima, che raccoglie l’azzurro del giorno, stanno effettivamente davanti a noi, balzate fuori all'improvviso per virtù del verso semplicissimo con straordinaria evidenza. Allo stesso modo, sempre con la medesima semplicità di mezzi, dal gruppo il poeta fa spiccare in netto rilievo la figura del treno fermo al binario numero 21, un binario gelido, dove
«C'e' un treno in arrivo
e tanto amore che attende.
C’e’ un’arancia tra le mani
e tanto freddo.
E le mani sbucciano l'arancia, piano,
come una carezza sulla pelle».
Com’è bella quest’immagine in piena luce invernale, che pur raggelando le mani non vieta il caldo al cuore che sente “quelle” mani come una carezza sulla pelle; ed è luce dal sorriso dolce e folgorante nello stesso tempo.
Gli ultimi due versi sono di meravigliosa potenza nei quali si esprime la grandezza dell’amore, principio e fine di ogni cosa e come sempre datore unico della vera pace.

L’ILLUSIONE

«Quando la città delude
spesso ci abbandona al sogno
e la speranza sostituisce l’amore
e la vita non e’
che continua illusione».

MI SONO IMMERSO DI CIELO

«Mi sono immerso di cielo
e coperto di nubi.
Ho piovuto lacrime di mare
salate come il vento
che le asciugava sul volto
(…)
E da questa terra
e’ nato il fiore dell'amore
e mi sono abbracciato
cercando la vita di un sole caldo
e l'ho trovato nel colore di un'ape
corsa a baciare il fiore.
Il suo sapore
era il miele dei miei sogni
e mi sono nutrito del suo nettare
fino a quando la notte della luna
m'ha piegato gli occhi».
Superbamente splendide sono poi le immagini pittoriche e luminose che si scatenano a prendere la parte di sole più lucente per essere coccolati e letti, per rimanere impressi nella memoria: soprattutto per la nitidezza di queste immagini che Remil continua a rappresentarci:
«Il suo sapore
era il miele dei miei sogni
e mi sono nutrito del suo nettare
fino a quando la notte della luna
m'ha piegato gli occhi».
Si pensi al miele dei sogni nutrito dal nettare dell’amore. Questa immagine del “nettare” dei sogni incolla sugli occhi un caleidoscopio per farci vedere la vita sotto un altro aspetto: immersa in una miriade di colori.
Quella di Remil è una pittura piena di luce e, nello stesso tempo, delicatissima. Appunto per questo esercita sul lettore un grande fascino e può giungere ad effetti straordinari. Penso, per esempio, a quando le mani ghiacce sbucciano l’arancia e avvertono come una calda carezza sul cuore. E' evidente che le mani, in attesa dell’arrivo del treno, stanno a dimostrare quanto l’ansia non dava sosta all’attesa spossante. Qui la semplicità della poesia di Remil tocca veramente il sublime.
Come ho già detto, il Poeta sta compiendo un viaggio che lo deve portare dallo stato di beatitudine alla travolgente peccaminosità in cui vive la sua città, perché convinto che questo è l’unico modo per salvarla dal peccato in cui si troverà. E’ cosciente che per arrivare al possesso della grazia, cioè alla felicità e quindi a Dio, questo viaggio dev'essere compiuto solamente da lui, in modo che sia la sua parola testimonianza e documento per le future genti, poiché il poeta scrive non solo per se ma anche per i suoi fratelli, per gli altri uomini che, leggendo, si sentiranno spinti a fare lo stesso. In che cosa consiste questo raggiungimento? Noi sappiamo che la risposta è amare e servire Dio in questa vita e andarlo poi a godere nell'altra. Quindi, fondamento della vita spirituale è il conoscere, il sapere. Non c'è nessuna cosa che tanto degradi l'uomo quanto l'ignoranza.
Remil ha fatto sua questa concezione dantesca della fede nei confronti dell’umanità, ha capito che la verità non si presenta tutta intera e immediata a noi fin dal primo momento nel quale abbiamo incominciato ad aver contatti con essa. Spesso, dopo che l'uomo ha raggiunto una verità, o meglio un nuovo aspetto della verità, ecco che nel suo cuore sorgono dei dubbi: se la nostra mente, davanti a quei dubbi, si ferma o stanca o sfiduciata o angosciata, non giungerà mai alla verità. Il dubbio non deve far piombare l'uomo nello scetticismo o, peggio, nell'indifferenza e nella negazione. Il dubbio non è nient'altro che una delle tante difficoltà che si oppongono all'uomo nel cammino della sua esistenza. La virtù consiste proprio nel superare le difficoltà a mano a mano che si presentano. Noi dobbiamo adoperare la nostra intelligenza per risolvere i dubbi, rendendocene ragione, e cavando dal nostro ragionamento nuovi argomenti per illustrare al nostro spirito, sempre meglio, l'essenza del vero. La storia dell'umanità è tutta intessuta di queste lotte contro il dubbio. Se Cristoforo Colombo avesse ceduto ai dubbi che dovettero spesso nascere nella sua mente nel sentire le argomentazioni e le irrisioni dei dotti ai quali esponeva le sue teorie, la partenza da Palos non sarebbe mai avvenuta e la verità intorno alla forma, alla grandezza di questo nostro globo non ci sarebbe mai apparsa in tutta la sua luce.
La verità è come una piramide: la base è formata dalle verità minori, diremo così, più facilmente accessibili. Quanto più si sale e la piramide va restringendosi, le verità da conquistarsi diventano più ardue e richiedono un maggiore impegno. Per chi sale la stanchezza è un grande pericolo. perché potrebbe far nascere la sfiducia. Sta nella potenza del volere, superare queste crisi di sfiducia e salire sempre, finché si è raggiunta la vetta della piramide dov'è la verità assoluta. La conquista dell’amore sarà possibile solamente se noi avremo approfittato del dubbio per elevarci sempre più. E' questa la grande lezione che il poeta ci vuole dare per mezzo di queste stupende immagini che sono di per se stesse già una grande verità umana. Noi dobbiamo tendere al vero; esso e raggiungibile, perché, se non lo fosse, il genere umano cesserebbe di potersi dire creato a immagine e somiglianza di Dio.
Nella verità l'uomo trova attuata compiutamente la sua missione e la sua natura, perché senza la verità ogni altro bene umano cesserebbe di essere un bene reale e sarebbe pura e semplice apparenza contingente e transeunte.
Il dubbio è il mezzo che la natura ci offre per fare della verità un bene essenziale, un elemento costitutivo della nostra natura.
«Ho visto
qualcuno spostarsi e poi sparire
E’ forse il gioco d'ombre dell'anima
o forse e’ soltanto la solitudine
unica eterna compagna
che non t'abbandona mai».
Nella opprimente solitudine notturna, quando appena si vede arrivare il mirabile riflesso dei propri pensieri e ci si sente pellegrini, Remil, si stacca dal punto dov'era e viene a porsi proprio davanti, per parlarci di sé, per dirci il suo dolore, la sua preoccupazione, il suo amore e la sua repulsione per questa sua città, che perde giorno dopo giorno la propria dignità e la sua potenza, e forse anche il ricordo della gloria passata; ma non si arrende poiché il dubbio o la speranza? Lo fa ancora cantare:
«Forse in fondo alla via
o in fondo al cuore,
nel fondo d'un bicchiere colmo di vino…
(…)
dovrà pur esserci
da qualche parte.
(…) voglio abbandonarmi
lasciando che il vento mi consumi
e mi trascini via
e che per caso
trovi qualcosa che conosco
o qualcuno che mi riconosca
questo è importante».
Queste parole sono quelle che esaltano la santità del ricordo, la santità dove vorrebbe ancora abbandonarsi per ritrovarla nell'antica vita familiare. Questi a mio avviso sono tra i più bei versi della raccolta, perché il poeta comincia a tentennare sulla forza infallibile e potente della sua poesia e vorrebbe lasciarsi abbandonato per farsi consumare dal vento e nello stesso tempo desidera che qualcuno lo riconosca ancora, specialmente se fosse sua madre: questo è importante. In questo modo egli parla a tutte le mamme, lui che
«ha perduto tutto,
stupidamente,
bussando alla porta dei sogni»
aspettando per anni forse che qualcuno aprisse una porta per farlo entrare, affinché potesse far svanire i sogni e realizzare la vita, perché
«E' un uomo
che non ha più un ricordo
perché il tempo che manca
per raggiungerlo
va sempre più in fretta
e tra non molto
nelle nostre città
non ci sarà più posto
per nessun ricordo.
Lui è un uomo
che odia tutto questo
ma non ha niente
per darne un prezzo,
perciò ogni sera
attende l'amante del paradiso»
Ora invece, l’amante del paradiso non appartiene più alle antiche e oneste donne del passato quando la città era abitata dai galantuomini.
Roma un tempo era piccola e, nello stesso immensa, tanto aveva esteso il suo impero, ma la gente che l'abitava era onesta; oggi appare grande e ricca, ma la ricchezza e la potenza derivano dalla confusione delle persone, dall'immigrazione in città del contadiname arricchito che non è ancora riuscito a liberarsi degli abiti rozzi la cui stoffa era stata tessuta al telaio a mano; dal puzzo del concime portato dalla campagna. La ricchezza ha generato l'ambizione e da questa sono nate le violenze e gli stupri, gli eccidi e gli infanticidi; i fratricidi e i matricidi.
Il poeta si cosparge il capo di cenere e continua a parlarci di sé e delle sue aspirazioni, che sono poi, le stesse che vorrebbe per la sua città.
Ma forse è meglio che lasci la parola al poeta che meglio di me esprime i propri sentimenti, palesa le sue ansie, confessa il suo desiderio di un amore come quello che ha perduto: gli anni giovanili e le scorribande infantili per vie acciottolate di quella Roma amata e al godimento provato nel sentire il suono roboante dei suoi passi sui ciottoli (sampietrini – così li chiamano a Roma -), che il silenzio notturno faceva echeggiare fino all’inverosimile come l’eco del cannone sparato a mezzogiorno sul Gianicolo.
«Quando la città è amara
dimentichi tutto, anche
l'amore
e la voglia di andarsene
diventa
l'unico credo di una
ribellione
senza speranza»
giacché il destino decreta che egli deve correre il rischio di vivere… bere fino in fondo il calice amaro della delusione se vuole che il suo canto si libri libero e diventi il canto di tutte le genti; per questo non deve cercare alcun rifugio; e d'altra parte, se volesse riferire tutto quello che serra in una morsa la sua anima facendola sanguinare deve necessariamente soffrire.
Ho detto in principio che il protagonista di questa raccolta di versi di Remil (Renato Millèri) è il viaggio a ritroso dal Paradiso all’Inferno, ebbene l’Inferno il Poeta lo sta sopportando con fede, cosciente che il suo canto riuscirà a scuotere gli animi e vedrà gli uomini guardarsi ancora dentro per ritrovare se stessi e il proprio amore per sé e per i figli dei figli.
  Come abbiamo visto Egli è attaccato alle tradizioni, ma non contrario alle novità, però desideroso di un affratellamento dell’umanità inspirato all'amore, al rispetto per le leggi, alla libertà e all'accettazione della suprema legge morale. Ed è tanta la passione personale con cui il poeta parla che a un certo momento irrompe in un grido di dolore tanto forte che par di udire le trombe di Gerico:
«Dove vai Pietro?
Là non c'è posto per nessuno.
Dove corri ora?
E’ tutto pieno
come un vagone di seconda classe.
In periferia i borgatari annoiano
con le loro penose avventure.
Lascia stare,  che serve andare?
I benpensanti annoiano ancora di più
sui loro trampoli di soldi raffinati
e basta inciampino un istante
per vederli coperti di merda.
Pietro
per te forse non c'è posto
su questa terra
ma non morire,
aspetta!
Se quelli come te muoiono
dimmi
chi resta a cantare la pazzia acuta
che vive il nostro tempo?»
L'elemento fondamentale del mondo poetico di Remil è l’amore – odio per la sua città martoriata dal caos della modernità e da quello più deleterio dell’urbanistica. Senza questo sentimento «La nostra città violenta» o non ci sarebbe stata o sarebbe stata ben diversa.

Per ulteriori informazioni scrivete a: renobromuro3@tin.it

Reno Bromuro


PREFAZIONE

"BARCALUNA"

di Chierici Marco

Sassoscritto editore Firenze

Prof. Enrico Nistri


I sogni che si fanno nel cuore della notte, chi mai se li ricorda dopo l’alba? Belli o brutti che siano, la maggior parte di noi li rimuove: li serra a doppia mandata nel cassetto dove, durante le ore di lavoro, chiude le cose che non considera serie e razionali e di cui dopo, il più delle volte, getta via la chiave. Marco Chierici, invece, accanto al suo letto, insieme a molti altri oggetti di incerta utilità pratica, tiene un quaderno nero che ha battezzato il “libro dei sogni”. Il lettore è libero d’immaginarselo con la copertina lucida e un po’ rugosa, a scaglie, come ai suoi tempi non dovevano venire richiesti nemmeno dai maestri più pignoli. Forse, anch’esso proviene da una visione onirica, e comunque gli serve per annotare  i sogni che lo hanno sconvolto durante la nottata.

Un dettaglio, a volte, conta più di un intero edificio. Da questo piccolo, ma non troppo, particolare affiora un tratto saliente del carattere di Chierici e soprattutto del suo atteggiarsi dinanzi all’esistenza: il suo amore per essa, un amore che però non è dispersivo abbandono all’attimo fuggente, diaspora di sentimenti, inseguimento di emozioni all’insegna del carpe diem. Ma è consapevolezza che la vita è un bene troppo prezioso per poterne disperdere anche i frammenti più minuti, per cui registrarne ogni emozione è il solo modo degno per evitare che ci sfugga di mano.

Chierici - non è il frutto di una confessione personale, ma un dato che ogni lettore potrà desumere dalla lettura di questo libro - conserva, moralmente e spesso anche fisicamente, ogni ricordo che ne sia minimamente degno. Usa come segnalibro vecchie fotografie. Tiene sul comodino, da autodidatta qual’è, un Bignami che gli riassume la macrostoria del mondo, ma porta sempre con sé i ricordi, i rimpianti e a volte i rimorsi della sua microstoria personale. Giorno per giorno annota, registra tutto e quello che non consegna ai suoi  diari lo affida alle lettere inviate ad amici e familiari. Crede nella memoria in un mondo che tende ad annullare la storia. Ama il passato proprio perché crede nel futuro. “Noi viviamo per avere un bel passato”: in questo splendido aforisma, che da solo giustificherebbe un libro, è il significato più profondo di questo “zibaldone”.

Zibaldone: vocabolo reso aulico dalle memorie leopardiane, ma in realtà di estrazione familiare, più gastronomica che letteraria, vagamente apparentato con “zabaione”: “cibo mescolato grossolanamente”, spiega il Devoto Oli. E difficilmente un altro termine sarebbe più adatto per mettere un coperchio a questo saporito miscuglio di testi diversi per soggetto e data di composizione, appunti scritti in gioventù al lapis e fluire di notturna scrittura  creativa alla tastiera di un computer, liriche di gusto dannunziano e scoppiettanti autointerviste al fulmicotone. Anche lo stile è vario, eclettico, a tratti mimetico, nella tendenza ad adeguarsi, a seconda del tema, a diversi modelli letterari. Chierici adotta un registro lessicale piacevolmente vario,   spaziando dall’ordinario turpiloquio del linguaggio familiare alla riscoperta di vocaboli desueti e restituiti alla loro dignità (“amarra”, “commessure”, “putida”, “mano macra”), neologismi e citazioni latine, favole per bambini e apologhi ecologisti. Tutto questo può sembrare uno zabaione, ma, se di zabaione si tratta, si tratta comunque di un alimento nutriente per lo spirito come può esserlo il libro di un uomo che ama la vita. La ama, forse, troppo, al punto da dedicare molti inquietanti passi al suicidio, al punto da non accettare la mediocrità, l’“amarra del posto fisso”, come la chiama lui con un’espressione traslata dal linguaggio nautico; al punto da abbandonarsi in qualche caso all’istinto, come il coniglietto Pippy, protagonista di una delle più belle favole raccolte in questo libro.

Come ogni uomo del nostro tempo – e forse come ogni uomo in ogni tempo - Chierici è anche un fastello di contraddizioni. Contraddizioni vitali, feconde, senza le quali non ci sarebbero né arte né letteratura. Ama la famiglia, ma gli va stretta la fedeltà coniugale; crede fermamente in Dio, ma in un Dio col suo “lato beffardo”, che non interviene provvidenzialmente nella storia del mondo e nella vita degli uomini; ama la solitudine, ma nutre un profondo desiderio di affetti. E’ un individualista e teorizza, avallando gli antichi rimproveri materni, un suo personale diritto all’egoismo, ma stravede per la figlia e nei suoi delicatissimi dialoghi con lei, come  nella vibrante lettera scritta a un figlio nascituro sono comprese alcune fra le pagine più belle di quest’opera. Ama addobbare l’albero per la figlia, come non lo preparava suo padre, troppo assorbito dai suoi impegni (“papà lavorava sempre”), ma odia il Natale, e ce lo spiega in una delle sue riflessioni più amare e convincenti. Rimpiange la purezza dell’infanzia, ma è consapevole che l’innocenza, come la verginità, si perde una volta per sempre. Odia la morte, ma poi confessa di aver trascorso molte ore a fotografare tombe al cimitero, “le più belle, le più antiche, le più liberty”. Ama la donna, ma la teme per la sua instabilità, come del resto la maggior parte degli uomini, che però non hanno il coraggio di confessarlo.

Anche nella sfera politica e sociale, che non è quella prevalente, quest’opera è ricca di contraddizioni vitali, che poi sono le contraddizioni di gran parte della società occidentale all’inizio del nuovo millennio. Classe 1961,  Chierici è nato in un’epoca di fiducia nel futuro, quella in cui un’Europa risorta dalle rovine  archiviava la guerra mondiale e Kennedy apriva la sua nuova frontiera. Ha assorbito, come capita anche in tenerissima età, questo ottimismo dai discorsi dei genitori, dall’eco dei telegiornali, dalle vetrine addobbate, dal luccicare della carta patinata dei primi rotocalchi a colori. Ha avuto vent’anni nel decennio del riflusso; si è trovato a compierne quaranta l’anno dell’Undici Settembre e le sue convinzioni ne sono rimaste segnate. Chierici crede nella necessità di una difesa dell’Occidente dalla colonizzazione musulmana. Al rischio, paventato dall’ammiratissima Oriana Fallaci, che l’Europa si faccia “Eurabia” preferisce che il Vecchio Continente si riconosca in un’“Euroamerica”. Avverte per un’Italia già sovraffollata il rischio che comporta uno “smisurato numero” di extracomunitari “innocentemente ineducati”. Non ama i lodatori di Fidel Castro, i no-global carichi di gadgets dell’odiata società dei consumi, gli intellettuali alla Nanni Moretti promotori di “inutili girotondi”. A differenza di molti neoconservatori, passati spesso da un acritico filomarxismo a un altrettanto acritico filoamericanismo,  avverte però anche i limiti della civiltà occidentale, del suo consumismo eversivo degli equilibri ecologici, della sua etica del lavoro che è anche incapacità di attribuire al tempo il suo giusto valore. In questo ci appare nobilmente romano,  nel suo ideale dell’otium philosophicum, nella sua aspirazione a vivere di rendita (“chi non lo vorrebbe?”), nella sua convinzione che il tempo sottratto alla lettura sia tempo sottratto alla vita.

E le letture si affacciano e a volte irrompono nelle pagine di questo zibaldone, senza quasi mai, però, sopraffare l’ispirazione originaria di Chierici. Primo fra tutti l’Irraggiungibile Immaginifico d’Annunzio, seguito a ruota da Fedor Dostoevskij. E poi, senza discriminazioni geografiche o ideologiche, Isabel Allende ed Ezra Pound, Oscar Wilde ed Hermann Hesse, e Pavese e tanti altri. E poi i compositori, i cantanti, gli attori, i sassofonisti, le colonne sonore dell’infanzia e dell’adolescenza di un ragazzo che a sedici anni ha pianto per la morte di un imbolsito Elvis Presley: James Dean e Joe Ontario, Stan Getz e i Deep Purple e Jack Daniel, che non è un cantante ma, mescolato a coca cola light, guida discretamene come un buon CD le sue dita sulla tastiera del computer, in un’insonne notte estiva.

Può sorgere spontaneo nel lettore il quesito se Barcaluna sia un libro ottimista o pessimista. E’ una domanda legittima ma oziosa: per una delle tante sue (e nostre) più o meno apparenti contraddizioni, Chierici è un uomo che ama troppo la vita per accettarla così com’è. E’ un pessimista attivo, che cerca la felicità, ma è consapevole di quanto sia fragile e ammette coraggiosamente che il suo assillo della scrittura è anche un modo di sfuggirle: “quando si è felici non si scrive”. Può riuscire spontaneo al lettore anche chiedersi che cosa, oltre a questo, spinga Chierici a dedicare tanto tempo alla scrittura. Forse, anche un desiderio di affermazione dell’io: “Scrivere è il solo modo per parlare a lungo senza essere contraddetto”, sosteneva Jules Renard, il padre di “Pel di Carota”.  C’è un fondo di verità in tutto questo, ma solo in parte. A una lettura superficiale questo libro può sembrare un lungo monologo, e invece l’autore dialoga, con se stesso, ma anche con molti altri: con i grandi del passato, prossimo e remoto, con la figlia, con la moglie e la madre (sia pure con maggiore difficoltà), con il padre precocemente scomparso, col suo e nostro tempo. In realtà, dietro la cucina di questo zibaldone c’è un altro intento: l’obiettivo di salvare il passato e con esso i suoi frammenti di felicità, perché – come ricorda alla figlia nella conclusione del libro – “i ricordi scritti non saranno sbiaditi dal tempo, ma rimarranno vivi”.

Il fascino di Barcaluna, questo libro di un pessimista attivo capace di contagiare una non comune voglia di vivere, risiede anche in questo. Nell’era della telemania e della telecrazia, in cui c’è chi teorizza la fine della “galassia Gutenberg”, Chierici nutre una fede commovente nel potere salvifico della parola stampata. La scrittura è il mezzo più sicuro per salvare i ricordi di un’infanzia cullata dalle grandi illusioni degli anni Sessanta, i piaceri puliti di un’adolescenza in cui si poteva “ridere forte senza spendere un soldo” e la vita non c’era ancora “sfuggita di mano”, i frammenti di felicità della vita matrimoniale, l’amore per la figlia, ispiratrice fra l’altro del tenerissimo titolo del libro. Certo, a differenza della poetessa inglese Dorothy Lees, che aveva come motto “I record only the sunny hours”, Chierici annota in questo zibaldone anche le giornate tempestose; ma è difficile non scorgere in una di queste pagine, anche la più ciclotimicamente malinconica, il balenare di un arcobaleno che spesso ha intinto i suoi colori nella tavolozza della memoria.

In una delle pagine più riuscite del suo libro, all’interno di un lungo elenco di tipi umani detestati, l’autore confessa il suo odio per “quelli che non sfogliano mai i loro album di vecchie foto”. Marco Chierici non è uno di loro: difficilmente può esserlo chi è in grado di apprezzare questo libro.

 

 Prof. Enrico Nistri  

Per ulteriori informazioni contattate direttamente l'Autore al seguente indirizzo: marcochierici@libero.it 


 Vai alla Home Page di Interactive People

Il sito delle Grandi Emozioni!