DELIRIO

   Di Angela Buccella

 

Io e te.
Strette. Ti sentivo contro. Ti sentivo addosso.
L’odore della tua pelle nelle narici. A fondo. Sempre più dentro.
Un bisturi ficcato nella carne.
Questo l’effetto che mi facevi.
Il gelo.
Eravamo nel cortile. Di notte. Al buio. Praticamente svestite.
Canottiera e mutandine.
Entrambe bianche.
Cotone sottile che faceva trasparire ogni minimo sussulto e ogni singola sensazione corporea.
Il tuo viso. Il tuo splendido volto. Eri bella anche così.
Lo avevo promesso. Lo avevo giurato. Non mi sarei mai dimenticata di te.
Mai.
Per me eri fondamentale.
Anche ora.
Anche questa notte.
Il sudore ti faceva restare attaccati alla fronte ciocche di capelli neri.
Neri come i nostri giorni.
Come il nostro passato.
Come noi.
Piccoli brufoletti spuntavano sul pallore della tua candida pelle.
Eravamo state sempre diverse.
La nostra amicizia è sempre andata al di là degli schemi
Eri splendida. Anche ora.
Eri rimasta bella nonostante tutto.
Solo uno stupido non poteva rendersi conto.
Solo uno stupido avrebbe dato peso agli sfregi che ricoprivano la tua pelle.
La tua mano sul mio collo.
Erano gesti di estremo amore. Tenevo il braccio intorno alla tua vita, per paura che un alito di vento ti portasse via da me.

“Non soffiare… potrebbe svanire tutto nelle tenebre”

Di nuovo. Ancora una volta.

Avevo te. Il bisogno di sentirti accanto.

Ha iniziato a piovere. Proprio come quella notte.
Acqua ci cadeva addosso rendendo trasparente i nostri indumenti intimi.
Fredde gocce ad inzuppare i nostri corpi.
A lavare le nostre impure anime.

Io e te. Nella notte. Sole.

Ho ancora nella mente le immagini.

La macchia di sangue intorno alla testa ti incoronava regina di bellezza e dolore.
Quella notte.
Ricordo i miei occhi.
Sgranati.
L’angoscia. Ti vedevo stesa. Sul cemento.
Per un sfottuto gioco.
Ci eravamo stese una accanto all’altra.
Poi tu eri voluta restare. Lì. Così.
Dio piangeva.
Acqua a lavare la maschera di sangue che indossavi.
Acqua sporca colava fino alle tempie per scivolare tra i capelli, per dileguarsi nelle orecchie.

Ma era passato. Solo le ferite tornavano a ricordarcelo.
Ti ho sentito sospirare.
Hai avuto un sussulto e sei sobbalzata ancora più vicino a me.
Ci siamo guardate.
Mi hai sfiorato le labbra. Hai detto “ti amo”.

Abbiamo sempre pensato che non esiste il voler bene. E’ sintomo di ipocrisia.
Così, ci siamo sempre dette ti amo.

Mi hai stretta. Forte. Per quanto il tuo esile corpo ti consentiva.
Hai passato la lingua sulle mie labbra.
Poi hai riso.

Mi hai preso una mano. Le nostre cosce magre e lunghe si erano arrossate per il freddo e la pioggia.
Siamo andate verso il portone.
Era notte. Il cortile era vuoto.

Abbiamo aspettato nell’atrio che arrivasse l’ascensore.
A piedi nudi. Le dita sporche di fango e terra.
Le unghie nere. Avevamo ballato gridando.

Siamo arrivate all’appartamento.
Mi hai tirata per prendermi contro di te.

I nostri piccoli seni erano attaccati, così le ossa del bacino.
“Siamo tutt’uno non vedi?”
Mi hai detto.
Io tacevo. Poi ti ho sorriso.

Sei andata in camera, ti sei buttata a sedere sul letto e hai preso il rossetto.
Viola.
Hai iniziato a passarlo sulle labbra. Le hai ricoperte di colore.
Poi hai ispessito il contorno, sempre di più.
Hai iniziato a disegnare. A ricoprire le cicatrici di colore. Avevi lunghi segni ad interrompere l’armonia delle tue forme.

“Sono bella così?”

“Rispondimi..”

“Sono bella così?”



Ho iniziato a piangere. In silenzio.
Ero patetica.
Lo sapevamo entrambe.
Ma tacevo.

“Si. Sono bella. Ora.” Ti sei girata a guardarmi.
Poi mi sei venuta incontro.

“Fanculo.” Hai sibilato. “Sei una stronza. Una sfottuta stronza.”
“Sei bella” ho detto sottovoce.
Mi hai guardata.


Sei tornata a sdraiarti sul letto.
“Legami”.
Ho preso la corda che avevo tinto di nero.
Ti ho legata. Stretta.
Come sempre.
Ho preso il rossetto ed ho iniziato a scriverti sul corpo.
Volevi ti coprissi di scritte.
Di crudeli insulti.

Mi sono sdraiata al tua fianco una volta finito.
Mi sono rannicchiata.
Te, così legata hai iniziato a gridare e a scuoterti..

“Mi purifico”. “Mi purifico”.

Così è passata la notte. Due esseri prive di angeliche ali sullo stesso letto unite dal male di vivere e dall’immenso dolore.

Appena sveglia hai fissato interrogativamente i tuoi grandi occhi neri su di me..
“Mi ami?”
“Si che ti amo”
“Mi ami?”
“Ti ho detto di si.”
“Devi ripeterlo se è vero. Mi ami?”
“Ti amo”.
“E sarà per sempre?
“Per sempre.”
“Dimmi che mi ami.”
“Ti amo.”
“Dimmi che mi ami per sempre.”
“Ti amo per sempre.”

Hai riempito di acqua la vasca da bagno.
“Vorrei morire così”
Non ti ho risposto.
“Vorrei morire immersa in acqua, sangue e tanta schiuma profumata… Quando tireranno fuori il mio corpo, avrà la pelle morbida e levigata.
Sarebbe una morte deliziosa…”
“Smettila.”
“Ma non trovi che sarebbe una morte da diva?”

Me ne sono andata.
Sono uscita.
Ti ho lasciata sola.

Ho vagato per le strade.
Era tutto così maledettamente disperato.

Era grigio. Erano sensazioni oscure che si dissolvevano nel cielo.

E’ squillato il cellulare.
Eri te.

Urlavi “Perché mi hai abbandonata??”
“Adesso torno.”
“Perché mi hai abbandonata??!!
Ho attaccato.

Sono corsa verso casa. Stavo male. Ho vomitato in un angolo durante il tragitto.

Sono arrivata. Sudata. Col fiatone.
Ci siamo viste.
Hai detto “Ora taci e fissami”.
“Cosa vuoi fare?”
“Ti ho detto di stare zitta. Lo sai fare molto bene mi pare. Quindi taci.”
Sono rimasta immobile.
Avevi tra le dita una lametta.
Hai cominciato a passare il lato tagliente sull’addome.
La canotta si è macchiata di rosso.
Sulle cosce, sul viso, l’hai ripassata sulle cicatrici. “Ora sono bella?”
Ed eri bella comunque, anche in quello stato eri di una delirante bellezza.
Sei andata in bagno.
Ti ho seguito.
Hai preparato la vasca. L’hai fatta straboccare.

Ho avuto paura.
Ti sei immersa.

Mi sono spogliata.
Sono entrata in acqua con te.
Sul bordo una serie di bottiglie di birra vuote.
C’erano anche a terra. Sparse.
Ne hai presa una per berne il fondo.

Hai iniziato a tremare.
“Vorrei morire…”
“Hai detto che saremmo state insieme per sempre”
“Vorrei morire… insieme a te.”

Mi sono alzata. Nuda. In piedi. L’acqua bagnava il pavimento. La schiuma ancora sul corpo.
Ho preso altre lamette.
Sono tornata in acqua. Con te.

Ci siamo baciate.
Ci siamo strette.
Tremavamo.

Hai iniziato a farmi gli stessi tagli che avevi te.
Hai riprodotto le tue ferite sul mio volto.

Ho pianto.

Colava mascara macchiando la pelle.

Mascara e sangue.

Poi mi hai preso i polsi. Hai tagliato verticalmente.

Hai ripetuto il gesto su di te.

Immerse in acqua colma di bianca schiuma ci abbandonavamo.
“Saremo in sieme per sempre…”

“Ti amo” ho sussurrato.

Angela Buccella

 Il presente racconto non potrà essere pubblicato, o utilizzato in qualunque altro modo, sia parzialmente che integralmente, senza il consenso dell'autrice.