Alla gente del Sud
e a quanti, conoscendola,
l'amano


Su argento e cristallo Pietre a dolmen Storie di echi Su ala di roccia Come uccelli designati
Nella notte degli umiliati Diadema Notturno Era un albero Alle fiamme del vento
In ogni campana Da anni Trebbiatura Sorriso di zagara Il luogo segreto ai domini
A rinnovato vento Sulla rena L'angelo sacrilego Torna da noi la pioggia Antiche case
In fuga Oltre la valle Volti Barca capovolta Nascono i sogni dalle nuvole
Per esodi Sento la malinconia dell'autunno Così povera e appena tremante Un gesto ambiguo


Su argento e cristallo

 

Su argento e cristallo innalza il suo trono
il rapace dalle ali crociate
ardenti come armi quando il vento è cedevole
perché non sa conoscere
e dirittamente volgere per azzurri cieli
l'impeto del suo essere univoco.
Dal piedistallo di nuvole
sfibranti un sole quasi irreale
ambigui fulgori rimena.

Illude di guarire le angosce dell'uomo
che voli di frumento attende dalla creta,
allinea congiure tra le uncinate mani
a lacerare le sue gelide guance
di notte.

Sono solchi scavati nella terra
che spingono torrenti d'insepolto
sangue verso oscure foci,
piaghe profonde
quali bocche in bava di finale anelito.

Vertigine del ponte che allunga
sfinite radici nel tufo a piombo della Rabatana,
mille volte dalla nebbia posseduta
al rombo cupo del tamburo.

Dove l'eco
ansima millenarie cadenze violente, nelle aeree
grotte dei cavernicoli,
vi sono braccia legate ad alberi dai rami recisi
perché i fanciulli non vi appendano
funi per gioco
e gli uccelli non vi perpetuino amori.


Pietre a dolmen

 

Anche le pietre a dolmen
alzate su colonne
si ridurranno in granelli di tragedia antica.
Perché anche tra le pietre a dolmen
su colonne d'aria
trema la profondità
del grido della valle in eco
di rotte
sillabe - dei fanciulli che si gonfiano di creta,
delle madri riverse
sulle ossa di Pescotorrente quando muore
d'estate,
dell'uomo che grappoli di spighe rincorre con la falce
cavalcando uno scarabeo.

Anche queste mie pietre saranno
granelli quali scene di infinite sconfitte.


 

Storie di echi

 

Le rocce nella notte raccontano storie di echi
a che tutti sappiano della sua consistenza.

Allora
distingui nel vento
gli artigli dell'Invisibile che graffiano
le porte dei contadini in disperante attesa e recidono
il riso sincopato delle donne nei preludi d'amore;
e sai a chi appartengono quei grappoli di vene rotonde
che i pampini vogliono coprire di giorno
e perché alcuni uccelli si tingono di rosso il petto
e molti altri sono tutto vestiti di nero;
sai anche perché spesso si rinvengono orme sui costoni lente
che non sono di capre e i calanchi
emettono lamenti e pianti durante la pioggia.

Di notte
sai anche perché, per toccare una diversa
aurora, vanno verso nord treni di uomini
esili come canne
e stracci legati con lo spago, mentre bimbi nudi
rincorrono lucertole e rospi con lunghi fili d'erba.

Sai anche perché il tuono dei motori, da lontano,
è senza fermate e impietoso più dell'acqua che precipita
in rapido torrente, macinando
spighe metalliche e olio di nafta in conversione
inquietante.


Su ala di roccia

 

Mi avvolge ala di roccia
dove il tuono s'inonda in echi profondi.
Sono acino di quiete,
minuscola goccia depurata dal vuoto
che il ragno sospende con mani di velluto.

Alle fibre arse del giorno
svanisce il fiume
rotolante catene di macerie e fuochi
soffiati dalle cavità dell'argilla,
attorno al gheppio che grida la sua solitudine
s'inebriano rondini filando reti per il cielo
e vie che ancora siano calde di miti.

Porgo la fronte al lavabo della speranza
e, in alto un canestro di petali levando,
avverto il profumo di nascite
non legate alla pietra o all'umido potere della pioggia.


Come uccelli designati

 

Le fibre della volontà pacifica
come scempio di uccelli designati
cadono
col piombo nel corpo
sui sanguigni baluardi dell'aurora,
tra le reti del deflusso fluviale
al cui fondo
è impressa la smorfia delle madri già renificate.

Registro la condanna
su nastri di convulsa paura e non conosco
smeriglio che annulli i cerchi del marchio di fuoco.


Nella notte degli umiliati

 

Nella notte degli umiliati tra gli schianti della pioggia
monche braccia vibrano da folgorato tronco
che gli spasimi della lotta affrontare volle
da solo.

Nella notte degli umiliati nelle dimore del fuoco
scendono
sotto pesi di cenere
cariatidi bruciando canestri di fiori mai vissuti.


Diadema

 

Il diadema del mare è un'onda
di crescente
inquietudine convergente al sogno del fanciullo
che sorrideva a spighe future: dov'era
il segno, la culla serena del giorno.

Il diadema del mare è un'onda
di crescente
inquietudine convergente al volto dell'uomo
trafitto nell'arena.

Gli anelli della mia mutazione in creta fossile
svolgono la rete dell'angoscia verso rive
dove l'onda si consuma in eco.


Notturno

 

La rosea dolcezza del sole ai confini
del nero tabernacolo
non si pone al senso della nuova sfera.
E' declino indifferente,
perdita senza dolore, attesa
di fantasmi rapiti in sconvolti sudari.

Le confuse corone del cemento
e della forza tracciante le linee del bitume
forgiano altri giorni dagli occhi stanchi
nelle luci che vacillano
e vortici di verità mai fusi ai cerchi del silenzio.

Ogni impulso all'orgasmo riapre labbra violacee,
esegue il ballo del sangue
su foglie di palma sfibrate, quasi violenza alla terra
in un letto di buio tenace.


Era un albero

 

Con la superba iridescenza del pavone,
custode e simbolo
di ciò che si credeva duraturo,
di ciò che si credeva possedere l'affilata penetrazione delle spade,
nell'umida ebrietà dell'autunno l'albero ardeva
confermando un patrimonio estremo
nella regione dei fossili.

La bocca filtrava la rugiada dei sogni,
a sé volgeva un diapason di sicura vittoria.

Ora, con le sue linee di ossa svuotate
zufola il vento,
il gufo
cadenza il suo requiem
disperando di un'altra esistenza di gemme.


Alle fiamme del vento

 

Alle fiamme del vento in tempesta è vana
la resistenza delle foglie a cui manchi
la solidità dell'idea,
precipitano
in melma di stagno affogando.

Alle fiamme del vento in tempesta
anche la rigida catena si ricompone
con gli anelli della paura e della pazzia
a pietà negata.

Perché,
se la mano solcata dalla disposta inutilità degli aratri
e dalla veglia degli stanchi fuggiaschi
ha già sfrangiato fino in fondo pagine di dolore?
Se insepolta rimane
la lumaca lungo il sentiero appena toccato dalla luce,
schiacciata
su cruna di terra a pioggia finita,
mentre le prime uova deponeva?
Se senz'attesa di mutata eco
rimane il grido del pastore nella valle,
perché le acque del fiume non sa calmare,
non sa trovare passi
per altre rive dove l'erba scintilli di smeraldo?

Ombra di fantasma che al sole non si dilegua,
più io non temo il vento in tempesta
ineluttabile carnefice.


In ogni campana

 

In ogni campana batte un martello di fuoco
per il ritorno delle anime alle origini.

Ma la nostra catarsi avviene nelle scalpellature
di ogni giorno,
segna una seduta nei suoi termini
ogni giorno,
all'aria compressa dallo zolfo e dai fossili
di quelli che a noi hanno consegnato
di svolgere la stessa storia
sul sale dei calanchi a squame,
all'ascitico ventre dell'inedia dagli occhi infossati,
alla disposizione ultima
delle labbra ormai prive di saliva.

La nostra catarsi sgorga
dalle case dell'avvilente rassegnazione, dove si ricompone
il corpo esploso tra le macchie del lentisco,
dal sesso violentato della bimba in agonia
cui vano
è stato per pietà tenderci dolcissime mani
per continuare un sogno di fiore appena germogliato,

dal vortice di cenere che dai campi
ossessivamente ululando
s'innalza.


Da anni

 

Da anni
il molino ha spezzato
il suo rosario di pane, perché andarono perduti
i grani in una terra infeconda
e spigarono nuvole ininterrotte di pianto.

Neppure si abbandona
in linee sfumate dai colori della luce
la purezza del volo dei colombi
che, uccelli notturni dagli occhi dei piccoli orfani,
stanno languenti
sulla ruggine del cemento e del legno sfibrato di sant'Anna.

Il vecchio cantastorie non più ritrova
tra i sassi dell'Agri e del Sinni
trepidanti note, che il tuono
ha calcificato nelle cavità dell'argilla, non più
compone il canto per chi volle dal cielo trarre
umane radici.


Trebbiatura

 

Il rosso flagello della canicola strappa
la pelle ancora tumida dei cieli d'inverno.
Anche nella canicola si registra il duro patto
che depone grigie scorie nei sentieri
e incupisce il passo in tonfo dei viandanti smarriti.

All'ordine delle pulegge stridenti una disuguaglianza rotante
si spogliano piccoli occhi dalle bende d'oro
in fluida sostanza di radici e di fiumi
che la rinata speranza nidifica all'ombra della quercia grande.

Qui, ieri,
bimbi prendevano stelline di sole umano tra le foglie
e vecchi rubavano canti di lotta ai segreti della terra,
sull'aia i trebbianti battevano la fame coi forconi,
amanti inanellavano pallidi cuori sui rami
alla luna nascente dagli aranci
ubriaca di zagare.

Ma si svena il tempo così atteso della nuova
creazione al magro
volume del seme di novembre
e nel nero colore del pianto disfuma,

ai riapparsi fantasmi
che ridiscendono lenti
nei pozzi dove, sotto ruota pesante di fango,
anche le falci lunari scomparvero.


Sorriso di zagara

 

A tregua dell'oscuro categorico dei sarmenti
in acqua di fiume montano si scioglie il dolore,
quando rari angeli passano da noi
a rendere il verde a un lembo aspro di terra.

E' tepore quasi consunto all'improvviso tramonto
il masso che la luce ora purifica e morde sui cigli
e nell'incubo dei profughi, sgomenta, penetra.

Anche s'illumina la voce dell'armonia originaria
in foglia sonora alla pioggia, in estensione
e respiro di interrotto silenzio.

L'acqua del fiume mi avvolge con fremito d'ali,
mi vince sorriso di zagara vergine,
di grido secolare attesissima eco.


In luogo segreto ai domini

 

In luogo segreto ai domini
della pietra che in grandine di rosse schegge rotea ed esplode
mi solleva
marea di braccia distese ai pascoli marini
e in natura d'alga riscatta sacrari violati.

Come diversi i suoni e le forme che in me germogliano
e a cosciente segno di libertà elevo,
come sfumanti nell'ombra le vittime ai labari sospese!

Una croce incoroni
il nudo ventre di terra covante solitudini di voci.

In nascosta conchiglia custodirò
il mistero del seme per il nuovo albero della vita,
palpiti di donna lieviteranno le sue radici.


A rinnovato vento

 

Sono una notte testarda le nuvole nere di pioggia,
fintanto che il vento scova e disperde fragili
linee nelle brughiere
e veste il colore delle foglie morte
alla linfa nei grandi querceti.

Non più,
fanciulla, la dolcezza serena di ieri che ardeva di zagara
e della tua voce profumava
a farti zolla e sudore
come me, come altri che nel sonno inquieto dei fiumi rimangono.

Non più
la danza vibrante delle ali sull'arcobaleno
a succhiarne i colori e il nome di ogni singolo fiore.

Non più
il calice sacrificale, in alto, delle nostre
angosce che il tuono esplode e precipita
sui muschi delle dimore dei fuochi emigrati.

L'estasi dell'ombra in carezze
e il nitrito fervente dei cavalli sulle tracce della luna,
la cadenza della mano che orchestra fiamme nei falò,
quanto come sangue invenato in noi riverberava
in goccia dissolta si dilegua
a rinnovato vento che ancor più oscura e dilaga.


Sulla rena

 

Sulla rena ingorda di gialla sete
la voce dell'onda batte il ritmo ad ogni risveglio
di fossile tra i grani, come chiaro petalo di rosa.
Però l'onda non conta il tempo
né sfoglia l'ordine
di ciò che in puntuale cadenza e in forma indeterminabile
viene deposto e risorge.

Sulla rena disponibile ad ogni violenta assorbenza
la mano dell'onda spinge l'orgasmo estremo
dell'uomo che fluttuò prigioniero di alghe alla deriva.
E non trattiene l'eternità del moto.

Sulla rena gonfia di membra marine disfatte
il cuore dell'onda diventa fiore di schiuma
per simulacri di stele al fondo caduti.


L'angelo sacrilego

 

Resta straziato tra l'autunno degli alberi
a stimmate di grappoli ossei confuso
il volto dell'angelo sacrilego
amico delle notti senza luna.

Cerco un suo anelito ancora umano
con povere mani, indifese alla pioggia,
e sono tutto un pianto
come di oboe violato
abbandonato all'angoscia.


Torna da noi la pioggia

 

Torna da noi la pioggia
a sgranare prove di dimore cavernicole sui precipizi tufacei,
a spiantare presenze di aranci indifese
sui fiumi di Pandosia, dove
mostri di Marte apparvero i primi elefanti,
a svenare ogni passo verso i campi dei liberi
cavalli che montano sui carrubi
e fremono in lunghi amori.

Smembrato e divelto
più non può il tronco in sé fermare sapori d'infanzia
né pronunciare speranze di terra
nel cui petto radici affondino e respirino.

Nel monologo della propria rigida rovina
più non può carezzare labbra
che colgono il gioco del miele filante nella luce
né raccontare in linee circolari altre scene
importanti della vita: anche
il suo sgomento è cenere dispersa alla pioggia.


Antiche case

 

Antiche case di pietre su pietre
maltate con gli anelli di Prometeo e le viscere dei trascinati.
In alto ancora durano le torri
sulle antiche case dei crisantemi, sui ferri spinati.

Gocce trattengono ansimi di pioggia appena appena sopita,
il tempo passa in canali di cemento
dove i colori
non sanno strappare alla notte l'aurora.


In fuga

 

Strada che trita
per inumanità della notte,
per impotenza degli alberi ciechi di isolamento,
pietre focaie in polvere che un soffio
di forza unitaria attendevano, come in origine.

Nelle cave dove il tuono esplode e insordisce
crescono collari di canapa e di ferro
a sigillare definitive sentenze di condanna.

Incenerisce il seme tra gli sterpi in fiamme
sui torrenti che il tremante chiarore batte
come le piste deserte dei cavalli.

Il mio passo è in fuga.


Oltre la valle

 

Oltre la valle degli echi vaganti
in lenta pena e in solitudine di voci,
si rapiscono ombre agitate e mute nella foschia dei motori.

Treni come ancestrali mostri s'inseguono lunghi
e in nere bocche si esauriscono.

Si perdono vele su conchiglie d'oro.

Da altissimi vetri che fissano un cielo incolore
stilla il ritmo del count-down, bruciando
pagine d'aria dopo calcoli di sicuro ritorno lunare.

Prevede l'automa inserto di lotte più aperte, più dure
a cicli di più inumane fecondazioni.

Diritta si può rendere la parabola
solo strappando le catene di creta fossile e di ferro,
solo zittendo la sirena del ghetto che ulula.


Volti

 

Di frequente mi tornano volti di nuvole
che il vento improvviso sbambagia e distrugge.

Volti che goccia dopo goccia versarono
pallide speranze nei canali e fuggirono
lasciando neppure iniziati argini.

O svuotati dall'immobilità della pietra
che la paura strettamente incastona ai dirupi,
o legati alla fede nell'umanità dell'artiglio
ancorché squarci il sentiero del sole futuro,
ad ogni ritorno d'alba cadono
come chi sfogliò in coro la sua non violenza
alla fame dei leoni nelle arene.

E odo dal salice il pianto ch'è mio, e tuo,
in questo campo di martiri
dove non si esaltano più baci di foglie innocenti.


Barca capovolta

 

Prima del morso della sabbia,
tenace e avvolgente i suoi fianchi di antica
quercia, ai gridi dei gabbiani si confuse il grido mai
rilevato sulla riva d'un naufrago morente.

Solo una presenza che intristisce
le brezze e le lune in cerca di amori marini
e l'onda, che ancora vibra.

Sulle sue vertebre di barca capovolta
il muschio innalza veli,
quando all'alba una trasparenza di simboli si apre.


Nascono i sogni dalle nuvole

 

Nascono i sogni dalle nuvole
come libri profetici dove ardono simboli di fuoco.
Mi vedo volante su immense
voragini, senza paura e distinguibile forma.

O come sconfinate praterie dove lenti
scorrono fiumi di luce e di eteree presenze:
gioco di linee
su giostre d'aria disegnavano le farfalle al volgere
delle nuvole verso i pini lontani,
quali speranze fiorite nel taglio
delle timpe mai sazie di suoni,
nenie si cullavano alle lavine della pioggia
discorrente a valle,
ripetuta scena tra i filari del tabacco si svolgeva
di riso traboccante
alle movenze di donne in buffi passi di danza.

Nascono anche sogni dalle nuvole
come città di fumo solido e di cannoni che inutilmente
tenti di saltare dopo sanguinanti rincorse.


Per esodi

 

Scende dalle giogaie del nord
a stringere la notte, la nostra di sempre,
in un quadrato dai confini di abisso.
Nella luce che si arrende e fugge
i fiori non possono creare arcobaleni,
la vanga si veste di freddo abbandono.

Hai volto di dio umano,
ma nero è il tempio dei drappi
dove pali innalzano vecchie agonie silenziose
e le foglie secche
posando
coprono lamenti di non conosciute scene.

I tuguri sono fienili che definitivamente
si corrompono e ardono.

Tutti perdiamo con la morte.

Al vento del nord che le nuda,
vedove fanciulle mordono perle
di vischio in violenta espansione, e perdute
corrono per vie lontane di aranci e di spighe solari,
dove la serpe si bagnava di rugiada,
qui i fiumi morendo già prima dell'estate.

Sollevo la mano a calice
a che l'ultima
goccia rimanga di questa testimonianza.


Sento la malinconia dell'autunno

 

Sento la malinconia dell'autunno quando cede
colori e foglie al vento
e le foglie si fanno a pietà della terra
lenzuolo di antichi profughi.
Di vuota esistenza insistono smorti echi
e amori che la mente delira e consuma.

Per i cieli che inseguo molti altri soffrono
la solitudine, perché i cieli
sono ombrelli stracciati e non solidali con la fragilità
dell'ombra legata alla propria depressione
che la nebbia travolge e dissolve in silenzio.

Il bruno dei tuoi capelli è la luce
ancora posseduta dagli alberi, il morbido smarrimento
della seta agli addii della luna che muore
tra lunghe dita affioranti in radici.
Ma c’è odore umido nelle case,
di legno marcito e di mani aperte come ciotole,
fredde e ancora sporche di madia,
dalle timpe a picco si rimandano in echi
di tuono le grida dei precipitati insieme alla pioggia.

Non so se la morte conta i miei passi
mentre segno il rettangolo di un tronco disteso e rigonfio.


Così povera e appena tremante

 

Forse, in bui cimiteri o grandi oceani del cielo
a infinito affaticamento, a definitiva perdita dell’essere
sprofondano moltitudini di stelle.

Inutilmente, quando ci accieca la notte
e fiumi di tristezze paurose infiammano le vene,
quella che fu nostra per scelta cerchiamo.

Così, questo grumo di terra del sud
che ci appartiene e in muta radice e ingiallito costone
consuma: è già una stella che langue,

così povera e appena tremante
sul filo dell’estremo orizzonte.


Un gesto ambiguo

 

Per me, a festa non suonano campane
perché non s'interrompe il nastro scorsoio dei giorni
che in immagine di terra violata totalmente mi rendono
né voglio affidare alla memoria di quanto mi resta
questo suo gesto a uguale contropeso per la bilancia di Temi.
Sono ragno che fugge il vuoto
della rete strappata, di una fede infranta d'improvviso.

Questo miele odora delle api arse d'estate,
non ricorda il colore maturo del grano;
soffocato ad incastro con i segni delle perdute
speranze, non fila
il sole tra le mie nude mani.

I suoi artigli guantati dalla pioggia e dal vento,
ritengono ancora la lacerante
trapanazione dei rostri di guerra,
la putrida ingordigia dei corpi finiti sui roveti.

Vento e pioggia sono ciechi mercenari
che spingono giovani radici e smunti alberi
nella voragine di finti cieli lacustri.
E quando dalla punta dei seni rocciosi
più tagliente progetta la linea di picchiata, essi
eseguono che la massa pollinica fecondi la terra deserta
e i piccoli occhi della pietra fissino l'infinito.

Poi, al ritorno dell'ora delle furie,
quando la febbre risveglia vulcani di fuoco,
altre montagne crescono per strati di scheletri sovrapposti,
altre cavità si gonfiano di acqua e di frane.

Ma dagli abissi marini le onde ripetono in eco
un forte odore di semina e già s'infiammano falci
a scuotere la mia solitudine.


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