ORE D'ABRUZZO
dalla rivista "IL SECOLO XX" Anno 30° - N. 30 Rizzoli & C. - Milano
(rarità assoluta che riproduce, fedelmente, un articolto, apparso il 18 settembre 1931 su una nota rivista italiana, con le impressioni e le malinconie del celebre sceneggiatore e artista Ettore Maria MARGADONNA con le rarissime immagini scattate alla fine dell'ottocento a Palena dal pittore Oreste Recchione). |
Ciò che i miei e gli amici non mi perdonano è la mia irremovibile decisione di ripartire alla vigilia della festa del santo protettore. Il quale è San Falco, eremita calabrese.
Ha un nome guerriero, non c'è che dire, e l'artista napoletano che ne ha scolpito in argento le sembianze lo ha raffigurato con un volto leale, incorniciato dalla barba ricciuta e le braccia aperte come per dire et nunc dimitte servum tuum, Domine. Così mi suggerisce il suo volto estatico: viceversa per i miei compaesani il gesto conclude chi sa quale potente esorcisma perché a San Falco ricorrono gli ossessi, cioè quelli che hanno in corpo il demonio. Ricordo gli ultimi che giungevano, spesso legati, stralunati e divincolantisi, restii ad entrare in chiesa, in furore appena posti dinanzi al simulacro, gementi, con la bava alla bocca. Il prete orava, gli astanti accompagnavano fervidamente con le loro preci. L'ossesso cadeva in una specie di prostrazione: spesso vomitava treccioline di capelli, grovigli di spaghi, chiodi, fiammiferi, crini. Quasi sempre si rasserenava, sembrava guarito. E il popolo, giustamente, gridava al miracolo e giubilava. A migliaia accorrevano i pellegrini. Ora la taumaturgica terapia di San Falco è in ribasso.
Potevo confessare ai miei e ai palenesi che me ne ripartivo anche perché non accorrevano più indemoniati per impetrare dal santo un salutare, liberatore " esci fuori, Satana "? Potevo dir loro che Palena non mi appariva più pittoresca, religiosa, gentile, come negli anni, ormai tanto lontani, della mia infanzia? Potevo rimproverarli d'aver trascurato tutta la prammatica e le più belle tradizioni delle nostre feste? Infine (prendo il coraggio a due mani) non è là festa del santo protettore quella che avrei rivisto più volentieri, ma quella di Nostra Signora e del Cuore di Gesù che si celebra ai primi di maggio ed è una pia inaugurazione della buona stagione che laggiù arriva un po' in ritardo. Nostra Signora è un statua di carta pesta, fabbricata, credo, in quel di Lecce, ed ha un volto gentile e benigno: quando in processione la portano sulle spalle quattro giovanotti, oscilla un poco e sembra che parli e benedica. E dietro viene Gesù, di legno dipinto, anche lui roseo e lucido, con una barba accurata e con uno sguardo arcano, pieno d'infinita dolcezza. Sarà il ricordo di quei chiari, miti giorni di primavera, sarà il canto delle verginelle del quale posso ancora ripetere qualche frammento: Mira il tuo popolo, bella Signora, Che pieno di giubilo, oggi t'onora. (così, o press'a poco, la Regina del Cielo mi perdoni) e che mi strugge come la ninna-nanna di mia madre, certo è che quella festa la vorrei davvero rivedere, riudire quel " che pieno di giubilo " il quale saliva al cielo come un sincero osanna. In questa festività tornavano a farsi rivedere, dopo l'assenza invernale, le donne di Campo di Giove,
coi loro caratteristici costumi: gonnella di panno a molti teli, busto esterno, con maniche allacciate, fazzoletto bianco intorno alla bocca. Esercitavano, e qualcuna lo esercita tuttora, il piccolo commercio fra Sulmona e i paesi dell'alta montagna. Tenaci camminatrici hanno sempre ignorato l'esistenza della ferrovia e giungono a Palena valicando il passo di monte Coccia, per l'antica mulattiera che, prima dei binari, univa il mio paese alla vallata sulmontina. Vengono, a seconda della stagione, cariche di cipolle, di " scerte " d'agli, di peperoni, oppure portano canestri, coscine che sono (difficile spiegazione) dei bassi recipienti cilindrici per contenere granaglie o farine, fatte di un legno flessibile che è cucito con strisce pure di legno. A Palena le chiamano (pronunciare le e mute) " le fémene de Campe de Iuove "; arrivano a mattutino e se ne vanno nel primo pomeriggio, sbrigando in una giornata trenta, quaranta chilometri di montagna. Tutto ciò per guadagnare (non esagero) qualche lira. Ora questa poverissima mercatura va, per nostra fortuna, scomparendo. È scomparso pure lo " spezzino ", venditore di stoffe ambulante che si annunciava al grido di " na cann'e mezza na lira! " : per una lira, cioè, vendeva uno, due metri circa di cotonina stampata; ed è pure introvabile il suo prossimo collega che smerciava le stoffe all'incanto: alzava un palco in mezzo alla piazza e incominciava a decantare la sua mercanzia arringando il pubblico che a poco a poco infittiva, e poi si riscaldava, smaniava, diventava rosso man mano che ribassava il prezzo, alla fine le sue offerte sibilavano come schioppettate: dui e cinquanta! dui lire! 'na lir'e mezza! Seguiva un'invocazione quasi Blasfematoria alla Madonna del Carmine o di Monte Vergine. E dov'è andata a finire la " fémena " che indovinava la " ventura "? Sedeva su di un palco con un sudicio mazzo di
carte in mano e per due soldi leggeva l'avvenire alle ragazze e ai giovanotti: ognuno aveva un nemico nascosto che gli tramava del male, ognuno si sarebbe sposato, avrebbe avuto dei figli... No, non bastano le musiche, le rinomate bande per farmi restare a San Falco, o amici di Palena. Dovete dare un degno successore alla dinastia dei tamburini palenesi, far annunciare la prossima festa da un rinato Ubaldo Moschetti (sembra una nome inventato apposta per un suonatore di tamburo) e non basta: dovete far accorrere alla santa festività quello che vendeva i " pianeti della fortuna " coi diavolini di Cartesio sospesi in due boccioni d'acqua, i tenitori di rustiche roulettes, con quelle piste irte di chiodi contro cui ronzava una stecca: un ronzio che è rimasto per me il ronzio della fortuna; devo ritrovare, per San Falco, il sorbettiere che serviva un pizzico di neve rossa e dolciastra per un soldo; voglio rileggere il prossimo anno uno di quei manifesti firmati dalla Deputazione che incominciavano invariabilmente così: " Sabato, ore 4: inaugurazione della festa; spari di mortaretti, suoni di sacri, bronzi e giro delle musiche per le vie della città ".
Alle 4 del mattino! Questa sì che è fede sincera. Ma c'è dell'altro: davvero non rivedrò più quei palloni di carta velina, sagomati a forme di mitria, di mongolfiere, di santi col piviale, andarsene nel sereno crepuscolo 'come pianeti dorati, vagabondi per l'immensità? Qualcuno s'incendiava e da allora ho imparato come si spegne un astro del cielo. E la tombola? E la corsa nei sacchi, e l'albero di cuccagna? E quella meravigliosa illuminazione delle vie principali, fatta con tanti archi dove ardevano delle fiammelle chiuse entro bicchieri rossi, verdi, gialli, turchini... O amici di Paleria, voi m'intendete. Anche le belle, le famose donne di Palena non sono più quelle di una volta: hanno smesso l'antico costume, si son volute vestire alla snoda cittadina e hanno rinunciato ad un'ingenua grazia, fresca e sincera come l'odore del timo e della mentuccia per la nostra Tagliata. Una volta, " i signori " si schieravano tutt'in fila per ammirare le belle che riuscivano dalla Messa Cantata : e fra le belle c'era la più bella: la bella di Sant'Antonio, la bella dell'Aia Falchetta, la bella del Col Salardo; passavano esse contegnose, piegando pudiche gli occhi a terra e un poco arrossendo; ora invece le giovanette ti guardano arditamente.
Dunque, o amici, che avrei dovuto godermi per il San Falco del 1931? La processione, mi dite. Ma io preferisco quella della Madonna del Rosario, la festa di chiusura, nella prima domenica di ottobre Perché almeno in quella, io spero, le ultime, pie donne palenesi andranno al seguito di Maria in doppia fila, come le canefore ateniesi alla festa di Pallade, reggendo sulla testa la conca di rame pulito, tutt'infioccata e infiorata: la conca piena di grano, con una candelina piantata in mezzo e con un mazzetto di fiori al posto della fiamma. Salvate almeno questa tradizione, o amici! Salvate la nobile coreografia delle nostre processioni! Io non le rivedo da anni, queste processioni, e pure posso descriverle come se ieri vi avessi partecipato reggendo uno dei cordoni di guida del mio alto e rosso stendardo. Nella Madonna del Rosario precedono quelli con mozzette nere a bordi gialli: la croce astile, il paliotto, lo stendardo, distanziati l'un l'altro da file di confratelli, a due a due: prima i piccoli, poi gli anziani : i seniori ultimi con larghe fasce ornate di stelle e di comete, come sacerdoti pagani, e in mano una specie di pastorale con in cima un simbolo di pietà, in argento scolpito. E poi viene la mia congrega, in rosso e oro, e poi infine quelle della Madonna in nero e bianco: rivedo gli stendardieri, giovani gagliardi che reggono a fatica l'alto, sbandierato gonfalone. E poi vengono i cori di fanciulle, poi le musiche, poi i sacerdoti (chi mi farà rivedere lo scintillio delle loro pianete e dei loro piviali nel meriggio solare del Corpus Domini?), poi la statua della Madonna sotto un baldacchino, poi le canefore e le oranti. Le famiglie povere e ricche pongono bracieri alle porte delle case e vi bruciano incenso, dalle finestre e dai balconi pendono, come arazzi, coperte di seta e di cotone e piovono fiori. Arrivata dov'è la batteria la processione si arresta, le musiche e le salmodie tacciono, guardie e carabinieri allontanano i monelli e lo " sparatore " dà fuoco: pum! pum! pum! Con un crescendo rossiniano scroscia la cartacea mitraglia, fragorosa e cordiale, alternata da scoppi bonaccioni e sempre più forti fino all'ultimo rimbombante petardo. Un attimo di attonito stupore: poi la ripresa sinfonica delle musiche, dei canti, delle preghiere e su tutti, nel cielo, da i tre campanili, il coro di nove campane.
Ecco quello che tornerò a rivedere col cuore gonfio di antiche dolcezze, se voi mi promettete, o amici, di rinnovare il gaudioso spettacolo delle nostre feste. Ma voi forse non potete capire il valore di certe esigenze del cuore. Sono sicuro che se queste cose le rammentassi ad un cerchio di nostri concittadini che vivono laggiù, in America, io li farei piangere di melanconia. Noi soli, noi lontani possiamo vedere Palena nello sfondo della Maiella arenata come un immenso cetaceo, con la case addossate intorno all'aguzzo campanile e il fiume sonoro, sotto, dove oggi biancheggiano soltanto i ciottoli come ossa dissepolte. Sì, vi siete lasciati portar via e intubare l'acqua che cantava così sommessamente nella notte, voce famigliare che gli emigranti ascoltano in sogno ma che al ritorno non riudranno più. Verso chi è assente, verso chi, lungi, oltre il mare, pena e fatica dieci, vent'anni per ammassare qualche soldo, si ha anche qualche responsabilità di questo genere.
ETTORE MARGADONNA |