OBSCURE METAL UNDERGROUND & VULTURE CULTURE
I, VOIDHANGER MAGAZINE - ARGOMENTI

DOOM... WHAT THOU WILT!
STORIA DEL DOOM - PARTE I: LE ORIGINI U.S.A.
SAINT VITUS, TROUBLE, PENTAGRAM, WINO & THE OBSESSED
a cura di Voidhanger

 

PREMESSA
Tracciare - anche solo per grandi linee - una esegesi della musica doom che ne colga le innumerevoli sfaccettature è impresa di proporzioni titaniche. Se infatti è facile rintracciarne le matrici e individuarne i tratti principali, è altrettanto difficoltoso delimitarne i confini, che col passare del tempo si sono fatti sempre più sfumati.
Oggi che il termine “globalizzazione” è entrato nel vocabolario comune, è in atto un processo di contaminazioni e “incroci” a cui nemmeno la musica resta estranea. In altre parole, le categorizzazioni del passato sono rivoluzionate, l’inter-comunicazione tra generi musicali sta cambiando il volto del Rock e persino un genere ritenuto tra i più conservatori (per la forte identità stilistica) come il doom si arricchisce di spunti inediti. Ciò spiega perché la stampa degli ultimi anni si sia trovata ad usare frequentemente definizioni - a volte ermetiche e disorientanti - quali gothic-doom, sludge-doom, doom-death, space-doom, stoner-doom, drone-doom, trance-doom e funeral-doom, spesso per sottolinearne la commistione con altri generi.
Verrebbe quasi la tentazione di ipotizzare una darwiniana “evoluzione della specie doom”, che ha mutato parzialmente aspetto per adeguarsi ai tempi, rigenerarsi e auto-preservarsi. Potrebbe essere questo il motivo (senza sottovalutare il lavoro di etichette come Hellhound, Peaceville, Rise Above e Black Widow) per cui il doom è riuscito a sopravvivere alla rivoluzione thrash degli anni ’80, al successivo avvento del death metal, all’esplosione grunge e nu-metal dei ’90 e persino al blast-beat infernale del black metal (in apparenza, la sua nemesi naturale), per tornare prepotentemente alla ribalta in tempi recenti grazie allo stoner rock e al riaffacciarsi sulle scene di gruppi e personaggi cardine quali Pentagram e Wino.
In realtà, in accordo con le opinioni degli artisti stessi e degli “addetti ai lavori”, invece che di evoluzione in senso stretto parrebbe più corretto parlare di due (o più) modi diversi e non coincidenti di suonare la musica del destino, oggi divisa tra la proposizione autentica e appassionata degli stilemi del passato e le contaminazioni prevalentemente death e gothic dell’ultimo decennio, che fanno storia a sé e che hanno avuto una genesi tutta loro. Non si tratta di due estremi di una stessa linea che stentano a trovare la chiusura del cerchio, ma piuttosto di due parallele col tempo sempre più distanti l’una dall’altra; con la spiacevole conseguenza di aver dato vita ad una “guerra”, tuttora in corso, tra puristi fanatici e modernisti senza memoria storica. Nonostante ciò, le varie scene doom restano solide e vitali anche grazie ad un nutrito seguito di appassionati cultori in contatto tra loro e numericamente in crescita. Questa è solo una delle tante apparenti “contraddizioni” che fanno di questo genere uno tra i più sfuggenti e difficili da conoscere e studiare con senso critico.

GLI ANNI '70: LE RADICI
Al di là di motivi attinenti alla sua fortissima identità stilistica, sin dall’inizio compiuta e ben definita, la longevità del doom si spiega prima di tutto col fatto di essere figlio della musica dei “padri fondatori” Black Sabbath, peraltro alla base di innumerevoli altre espressioni del rock duro e del metal moderni.
Di quest’ultimo, il doom è sempre stato considerato un sotto-genere. Dalla concezione sabbathiana dell’hard rock ha mutuato alcune caratteristiche ben precise riproposte - almeno inizialmente - con assoluta fedeltà, e a questo proposito il brano “Black Sabbath” che apre l’omonimo debutto di Iommi e compagni (1970) deve essere considerato a tutti gli effetti come il primo manifesto del doom, la sua forma primigenia. Lo scroscio della pioggia e i tuoni iniziali creano un’atmosfera cimiteriale lugubre e oppressiva; la musica è di una lentezza spossante e per certi aspetti ipnotica; l’improvvisa cavalcata centrale aggiunge dinamica e crea contrasto, mentre la voce solenne e allucinata di Ozzy recita liriche che evocano Satana, e dunque il confronto tra l’umano e il soprannaturale, il conflitto tra il Bene e il Male.
Il doom prende le mosse da questa canzone, tanto a livello musicale, quanto a livello di ispirazione letteraria; sebbene buona parte degli esponenti del genere (segnatamente gruppi come Trouble, Saint Vitus, Internal Void, Count Raven e più recentemente Place Of Skulls) abbiano spesso utilizzato testi a sfondo religioso, spirituale e cristiano, traendo ancora una volta ispirazione dai Sabbath di “Master Of Reality” e accentuando così una dicotomia di fondo propria della prima ondata doom perché propria dello stesso gruppo di Birmingham.
Canta infatti Ozzy in “After Forever”: “Ho capito la verità. Sì, ho visto la luce è ho cambiato idea, e mentre alla fine dei nostri giorni voi sarete soli e spaventati, io sarò preparato. E’ possibile che tu sia preoccupato di ciò che potrebbero dire i tuoi amici, se sapessero che credi in Dio. Dovrebbero capire, prima di criticare, che Dio è l’unica via d’amore. Aprite gli occhi e capite che Egli è l’unico e il solo che adesso possa salvarvi da tutto questo peccato e odio”.
Un così radicale cambiamento di prospettive si spiega anche col fatto che in quel periodo i Sabs avevano avvertito la necessità di distaccarsi da certe tematiche che gli avevano guadagnato solo problemi di censura e l’accostamento poco gradito ad un altro combo “nero” inglese, i Black Widow. Al riguardo, molti studiosi della materia sono concordi nel ritenere che una fonte di ispirazione del doom sia rintracciabile anche nel primo disco della Vedova Nera, “Sacrifice”, e in generale nel cosiddetto “dark sound” (inglese e spesso di concezione progressive) degli anni ’70, come quello di High Tide, Atomic Rooster (la foto della band sul capolavoro “Death Walks Behind You” li ritrae in un cimitero), Necromandus, Monument e molte altre formazioni.
Sarebbe storicamente errato non annoverare nella lista degli “iniziatori” anche i Judas Priest, che, sebbene destinati a divenire i paladini dell’heavy metal, avevano comunque prodotto un secondo album proto-doom decisamente influente, quel “Sad Wings Of Destiny” che non poco doveva ai Sabbath della prima ora. Senza dimenticare che in quegli anni - dall’altra parte dell’oceano - erano attivi Macabre e Bedemon, due seminali formazioni pre-Pentagram nate dall’amore per gruppi heavy ante litteram come Blue Cheer, Sir Lord Baltimore, Groundhogs, Dust, Mountain e Budgie, tanto per fare dei nomi.
Le origini del doom sono insomma radicate nel rock duro dei tardi Sixties e in quello dei Seventies, d’estrazione prevalentemente europea e inglese (ma non solo), imbevuto di occultismo, esoterismo e di un immaginario gotico di cui la musica del destino si è certamente nutrita prima di venire ufficialmente alla luce nei fatidici anni ’80.

GLI ANNI '80: LA NASCITA DEL DOOM
L’humus favorevole alla nascita del doom è quello della New Wave Of British Heavy Metal, che sulla spinta del punk del ’77 - e fino all’arrivo del thrash - detta legge nei cuori dei giovani appassionati di musica pesante, consentendo un necessario ricambio generazionale in ambito rock. In realtà, nel contesto della NWOBHM il doom viene relegato ad un ruolo di secondo piano, complice la mancata affermazione commerciale di alcuni gruppi che in seno al movimento perpetravano la tradizione del “Sabbath sound” alla luce di un’impostazione moderna e al passo coi tempi, operando in pratica da ponte di collegamento tra il vecchio hard rock dei ‘70 e il nuovo modo di suonare hard’n’heavy. Ci riferiamo, ad esempio, a formazioni come Angel Witch (nella foto), Witchfinder General e Witchfynde.
I primi e più importanti sono di Birmingham, come i Sabbath. Guidati dal chitarrista/cantante Kevin Heybourne e già attivi nella seconda metà degli anni ’70 col nome Lucifer, debuttano con il brano “Baphomet” sulla fondamentale compilation “Metal For Muthas” (la stessa che rivelò al mondo gli Iron Maiden) e nel 1980 pubblicano uno strepitoso album omonimo per la Bronze che entusiasma la critica inglese. Ma di cui fanno tesoro soprattutto gli americani: è un caso che canzoni come “Atlantis”, “Sorcerers” e “Angel Of Death” ricordino enormemente lo stile dei The Obsessed, tanto musicalmente quanto dal punto di vista vocale? Probabilmente no, considerato che la band di Wino a quel tempo era già attiva e che l’artista (allora “solo” un chitarrista, non ancora al corrente delle proprie doti canore) aveva le orecchie ben tese verso quello che era successo e che ancora stava succedendo in Inghilterra. Ancora, l’ascolto comparato di “Burning A Sinner” - primo singolo dei Witchfinder General, poi incluso sullo splendido debutto “Death Penalty” (1982) - e “The Shooting Gallery” dei Saint Vitus (dall’album “Mournful Cries”, ‘88) rivela come struttura e melodia della seconda assomiglino molto a quelli della prima.
Difficile e poco produttivo stabilire chi abbia ispirato chi, o se alcune band siano pervenute a medesimi risultati per proprio conto. Occorrerebbe infatti tenere in considerazione parecchie altre variabili di grande peso, tra cui la semi-rivoluzione rock dei Motörhead (in anticipo sia sul punk che sulla NWOBHM) e soprattutto l’influenza – più o meno diretta e di tipo attitudinale – esercitata sul doom americano da parte di certo punk-hardcore. Curioso che un genere che i detrattori tacciano di immobilismo - auspicato peraltro da certi suoi sostenitori più nostalgici e oppositori dello stoner - sia invece suonato da musicisti aperti e non certo intrappolati nella gabbia delle categorizzazioni stilistiche.
Comunque sia, è proprio quello punk-hardcore l’ambiente in cui inizialmente operano The Obsessed (che a tale Ian MacKaye piacciono così tanto da spingerlo ad emularli formando i Fugazi). Ed è questo l’ambiente in cui si muovono i californiani Saint Vitus, che – scritturati su raccomandazione di Henry Rollins – pubblicano i primi album per la SST Records del chitarrista dei Black Flag, Greg Ginn, e che citano proprio i Flag (ma anche Discharge, Saints, Sex Pistols, etc.) tra i contemporanei preferiti…
La calda accoglienza riservata dagli americani ai gruppi della NWOBHM citati e ad altri ancora, è evento cruciale per le sorti del doom: se, come abbiamo visto, esso affonda le radici nell’Inghilterra dei ’70, nominalmente nasce però in America grazie ai Saint Vitus, i primi a dichiararsi apertamente una doom band.

 


BORN TOO LATE

Noti come Tyrant alla fine del decennio precedente, Dave Chandler (chitarra) e Mark Adams (basso) si uniscono ad Armando Acosta (batteria) e all’incredibile vocalist Scott Reagers pubblicando il primo album (omonimo come quello dei Black Sabbath, e come quello inaugurato dalla title-track) nel 1984 su SST. La copertina è nera e la foto del gruppo sul retro - con tanto di lapide a forma di croce e l’abbigliamento vagamente hippy del leader Dave Chandler - concorre ad evidenziare l’ispirazione 60’s/70’s oriented della band, con i Sabbath in prima linea. Il gruppo prende il nome da quello di un giovane che nel III sec. d.C. era stato decapitato per non aver voluto rinunciare alla sua fede cristiana (a loro volta, i Sabs gli avevano dedicato “St. Vitus Dance”, un brano di “Vol. 4”). D’altronde, nel logo della band, sopra la “V” di Vitus, vi è una croce, e su ogni album Chandler e compagni non perdono occasione di ringraziare Dio.
La musica, che alterna tempi ultra-lenti e potentissime cavalcate, evidenzia subito la maestria di Chandler (un maniaco del wah-wah psichedelico!), l’impressionante estensione vocale di Reagers e la profondità groovy della sezione ritmica. I successivi “The Walking Dead” EP (‘85), “Hollow’s Victim” (‘85) e l’EP “Thirsty And Miserable” (’87, con l’omonima cover dei Black Flag) ne precisano ulteriormente le traiettorie stilistiche, spesso denotando un approccio punk che nel debutto non era emerso con altrettanta chiarezza.
In questa prima fase a livello testuale si nota un’evidente infatuazione per temi horror o magici (“Zombie Hunger”, “White Magic/Black Magic”), anche se più in là i Vitus avrebbero adottato anche testi di denuncia sociale (“The War Starter” si dichiara contro la guerra allo stesso modo di “War Pigs” dei Sabbath) o di profonda introspezione. È il caso di “Dying Inside” e di “Born Too Late”, tratte dall’album del 1986 che da quest’ultima song prende il titolo. E' evidente il senso di emarginazione provato da una band di “perdenti” che continuava imperterrita a muoversi in direzione opposta rispetto a quella “fast & furious” del metal dell’epoca. E ciò nonostante che l’appartenenza a certi “valori” metal fosse comunque sbandierata spesso attraverso il ricorso a tematiche fantasy tanto care alla NWOBHM (ad esempio in “Dragon Time” e “The Troll”, entrambe su “Mournful Cries”).
“Born Too Late” è un mezzo capolavoro; segna l’ingresso di Scott “Wino” Weinrich (che aveva messo da parte gli Obsessed) in sostituzione di Reagers, ed è con questa formazione che la band pubblica forse il suo lavoro migliore, il quarto “Mournful Cries” (’88), e altri validissimi episodi come “V” (‘90) e “Live”, entrambi sulla seminale label tedesca Hellhound Records.
Con la fuoriuscita di Wino (destinato a nuova gloria con gli Obsessed), le acque intorno ai Saint Vitus si fanno torbide. Il suo sostituto è Christian Lindersson, proveniente dai doomsters svedesi Count Raven (e oggi al timone dei Terra Firma), ma il nuovo “C.O.D” (acronimo di “Children Of Doom”) è una delusione cocente, tanto che i Vitus decidono di gettare la spugna. Mentre il grunge calamita l’attenzione di tutti e il mondo del metal estremo è messo a ferro e fuoco dal death e dalla nascente scena black norvegese, la musica dei californiani suona fiacca, anacronistica e incapace di rinnovarsi. È la fine del gruppo simbolo del doom? Tutt’altro: è la dimostrazione che - in un gioco di parole - la forza interiore insita nel doom può cambiare il destino; che il pessimismo proprio del genere è occasione di riflessione, crescita, rinascita.
I tipi della Hellhound riescono a convincere i Vitus a fare un ultimo tentativo, e dopo aver ripreso nei ranghi l’originario singer Scott Reagers, nel ’95 la band dà alle stampe un ultimo disco, “Die Healing”, tardo capolavoro che recupera le atmosfere sepolcrali e opprimenti dell’esordio portandole alle estreme conseguenze. Con esso si chiude trionfalmente una carriera avara di soddisfazioni, ma che ha fatto davvero la storia di questa musica.
I Vitus mollano proprio mentre la “stoner revolution” riaccende i riflettori sul cugino doom, e tornano a vite ordinarie e a lavori (da dipendenti aeroportuali o da baristi in locali strip-tease, dicono i bene informati) che poco gli si addicono. Ma Dave Chandler è recentemente tornato alla ribalta coi Debris Inc., in attesa di debutto, mentre i Vitus si sono resi protagonisti di una estemporanea reunion (con Wino alla voce) in occasione del With Full Force Festival del Luglio 2003, in Germania. Sarà davvero il loro canto del cigno, o saranno destinati a tornare come gli zombie di cui cantavano?

 


PECCATO E REDENZIONE

Curiosamente, proprio nell’84 insieme ai Vitus aveva esordito un’altra importantissima formazione, quella dei Trouble. Formatasi a Chicago nel ’79, la band guidata dal prodigioso vocalist Eric Wagner non sarebbe stata destinata ad un successo maggiore di quello che aveva arriso ai Vitus, nonostante il suo stile profondamente sabbathiano si aprisse di tanto in tanto alla psichedelia (soprattutto nelle ultime prove) e nonostante i raffinati intrecci di chitarra di Bruce Franklin e Rick Wartell, forse l’accoppiata di axemen doom più celebrata.
Il bel debutto omonimo - più tardi ribattezzato “Psalm 9”, dal titolo di un brano che è la rilettura di un salmo della Bibbia - e l’ottimo successore “The Skull” (’85) vengono pubblicati da Metal Blade, e offrono all’ascolto tracce indimenticabili come “The Tempter”, “Bastards Will Pay” o la lunga “The Wish”, per un altro esempio di doom dalla forte connotazione religiosa che vale alla band l’inclusione nel movimento cristiano del cosiddetto “white metal”. Ma la lotta tra Bene e Male e il sapore biblico di certe composizioni si spiegano piuttosto col bisogno di espiazione di Wagner, allora alle prese con problemi di tossicodipendenza che destabilizzano i Trouble portando all’abbandono del bassista Sean McAllister, sostituito da Ron Holzner. Poi è il turno del batterista Jeff Olson, che - secondo voci di corridoio - addirittura lascia per farsi prete!
Con un nuovo drummer, la band pubblica quindi il terzo e meno brillante “Run To The Light” (‘87) e dopo un lungo periodo di assenza dalle scene torna inaspettatamente sulla Def American di Rick Rubin, prima con “Trouble” (’90) e poi con “Manic Frustration” (’92), due lavori maturi e convincenti.
Il doom dei Trouble è adesso qualcosa di definitivamente diverso da quello degli esordi. Contaminato dalla psichedelia beatlesiana (una passione che Wagner approfondirà ulteriormente coi Lid, psych-band formata insieme a Danny Cavanagh degli Anathema e titolare di un unico album per la Peaceville, “In The Mushroom”), si tratta per molti di un heavy rock psichedelico antesignano dello stoner, al pari della musica degli Obsessed e di parecchie altre formazioni doom dei primi anni ’90.
Anche il conclusivo album del ’96, il discreto “Plastic Green Head” (contenente anche una cover dei Monkees), può essere letto in una tale prospettiva, ed in effetti nel ’99 la band si coagula nuovamente intorno al nucleo Franklin-Wartell-Holzner per suonare alla prima edizione dello Stoner Hands Of Doom Festival, tenutasi in Virginia nell’Agosto di quell’anno. Manca Wagner, sostituito dall’ex-Exhorder e Floodgate Kyle Thomas, ma i fan di lunga data sono comunque ripagati da una cover di “Relentless”, un classico dei Pentagram eseguito proprio insieme al cantante e al batterista di quella band, Bobby Liebling e Joe Hasselvander.
Oggi, i Trouble si sono riformati con la line-up originale e continuano a suonare dal vivo (il concerto all’House Of Blues di Chicago del Febbraio 2003, in cui la band ha ripercorso tutte le tappe della sua carriera ultraventennale, aspetta di essere pubblicato su doppio CD), mentre Ron Holzner è dapprima entrato a far parte dei Place Of Skulls (subito lasciati per problemi logistici che gli impedivano di partecipare alle prove) e ha poi formato un nuovo gruppo, Debris Inc., insieme l’ex-Vitus Dave Chandler.
Ciò che in ultima analisi preme sottolineare dell’epopea doom dei Trouble è che la band ha coniato un suono unico, epico e soprattutto “metallico”, sicuramente calato negli Eighties metal in misura maggiore rispetto ad altri contemporanei, decisamente grezzi e legati ai canoni hard’n’heavy dei ‘70. Un merito non da poco, e che in qualche modo accomuna i Trouble ai cugini europei Candlemass.

 


UN CULTO DURO A MORIRE

“In principio furono i Pentagram…”. Il Libro della Genesi di un immaginaria Bibbia del Doom si deve necessariamente aprire con queste parole, perché sebbene i Pentagram abbiano debuttato nella seconda metà degli ’80 (e precisamente nel 1985), in realtà hanno iniziato la propria carriera all’alba del decennio precedente. Addirittura, molti dei suoi membri erano attivi già alla fine dei ’60, prima ancora di Ozzy e Iommi!
Insieme a quella di Obsessed e Saint Vitus, la storia dei Pentagram è emblematica per capire le motivazioni di fondo della musica doom. Una storia fatta di decisioni controcorrente, prese in nome di una integrità artistica che per troppo tempo ha relegato il gruppo ai margini delle scene. Una band pressoché invisibile per circa 10 anni, oggi finalmente sottratta all’anonimato e recuperata alla notorietà che merita. Ma procediamo con ordine, ché la strada è lunga e piena di deviazioni.

1. LE ORIGINI
L’anima dei Pentagram è il cantante/chitarrista Bobby Liebling, attorno a cui nel 1971 si coagula una primissima incarnazione della band, con Vincent McAllister al basso, Geof O’Keefe (ex-Space Meat) alla chitarra e Steve Martin alla batteria. Liebling si è appena lasciato alle spalle l’esperienza negli Shades Of Darkness, durata tre anni (dal 1966 al 1969), ed è deciso a fare dei Macabre una band duratura, ispirata ai grandi acts che hanno segnato la sua formazione artistica: dai Blue Cheer ai Groundhogs, dai Sir Lord Baltimore ai Grand Funk. Ma già nel Luglio del 1972, in occasione della pubblicazione del 7” d’esordio “Be Forwarned/Lazy Lady”, la line-up della band subisce dei cambiamenti: si aggiunge Greg Mayne al basso, mentre McAllister e O’Keefe passano alla chitarra e alla batteria, rispettivamente. L’instabilità ha sempre accompagnato i Pentagram nella loro carriera trentennale, e non soltanto con riferimento alla line-up: è risaputo che nei primi tempi il gruppo cambia moniker spesso e volentieri, passando da Stone Bunny (formati nel ‘70 con ciò che restava degli Space Meat di Geof O’Keefe) a Wicked Angel, a Virgin Death.
A complicare il lavoro di ricostruzione storica concorre anche la presenza di progetti paralleli. Uno di essi in particolare, denominato Bedemon, si segnala per la sua incontestabile natura proto-doom.

2. BEDEMON
La paternità del progetto si deve al chitarrista Randy Palmer (conosciuto anche come “The Bellman” e scomparso nel 2002 a soli 49 anni in un incidente automobilistico), che ispirato da Blue Cheer e Black Sabbath decide di mettere in piedi un suo progetto personale, inizialmente chiamato The Giant Behemoth. Della band fanno parte anche Bobby “Plugie” Liebling e Geof O’Keefe, che a loro volta hanno appena dato vita ai Pentagram subito dopo l’esperienza negli Stone Bunny.
Dopo aver reclutato un nuovo membro, il bassista Mike Matthews, The Behemoth (nel frattempo avevano accorciato il moniker) sono vogliosi di registrare, ma ancora il gruppo non si riconosce nel nome scelto da Palmer. In alternativa, il più tenebroso che gli viene in mente è Demon, peraltro enormemente sfruttato; ma aggiunte le iniziali di Behemoth, i Bedemon sono finalmente pronti a partire.
Durano un arco temporale di 4 anni, dal 1971 al 1974, e si sciolgono quando Palmer entra in pianta stabile nei Pentagram. La loro storia oscura è raccontata nei solchi di “Child Of Darkness”, un demo del ’71 pubblicato originariamente da Doom Records sotto forma di bootleg non autorizzato e che presto sarà ristampato dall’attenta Black Widow Records. In brani come “Touch The Sky”, “Serpent Venom” e la title-track, la band appare incanalata nel solco stilistico degli stessi Pentagram, cercando e trovando il modo per fondere le atmosfere ossianiche e doom dei Black Sabbath con il gigantismo sonoro dei Blue Cheer più distorti e blues.
Ma la storia della band non finisce qui: i Bedemon si sono riformati e - nonostante la morte di Palmer - stanno ultimando la stesura di un nuovo album.

3. SCELTE DIFFICILI
Mentre i Bedemon di Palmer vivono il loro sogno doom, i Pentagram hanno adottato definitivamente tale ragione sociale e tra il ’73 e il ’74 pubblicano due singoli “Human Hurricane/Earth Flight” (limitato a 100 copie) e “Under My Thumb/When The Screams Come” (con Randy Palmer), quest’ultimo solo un test-pressing mai commercializzato. Ma tanto basta per farne circolare il nome e suscitare le attenzioni di Gene Simmons e Paul Stanley dei Kiss, in cerca di gruppi da reclutare per la loro Casablanca Records. Assistono alle prove dei Pentagram, li scarrozzano in giro sulla loro limousine e si offrono di acquistare i diritti per incidere due brani di Liebling e soci, “Much Too Young To Know” e soprattutto “Star Lady” (scritta da Palmer e per cui i due Kiss erano disposti a sborsare la cifra astronomica di $10.000!). Ma i Pentagram rifiutano l’offerta e continuano in una situazione di semi-anonimato, limitandosi a registrare demo e modificando ancora la line-up.
Il compito di illustrare i primi anni di vita della band è egregiamente svolto dalla compilation “First Daze Here – The Vintage Collection”, pubblicata da Relapse nel 2002 e contenente tutti i grandi classici del gruppo nelle loro versioni originali (da “Forever My Queen” e “When The Screams Come” a “Be Forwarned” e “Star Lady”).
Nel ’78 Liebling fa amicizia col batterista Joe Hasselvander, e l’anno seguente viene rilasciato il 7” “Living In A Ram’s Head/When The Screams Come”, col basso di Martin Swaney e le chitarre di Richard Kueth e Paul Throwbridge. Si tratta della famosa “High Voltage Pentagram”, formazione parecchio più dura che in passato e che è possibile ammirare dal vivo nel recente “A Keg Full Of Dynamite” (Black Widow Records, 2003).
Poi, nonostante l’ingresso di Vance Bokus (tra l’80 e l’82, anche cantante degli Obsessed) al posto di Swaney, i Pentagram cessano d’esistere nel 1979.
Ma evidentemente il destino aveva in serbo ben altro per la band, e questa volta è Hasselvander e tirare le castagne dal fuoco.

4. DEATH ROW
Nel 1981 Hasselvander suona la batteria anche nei Death Row, band guidata dal chitarrista del Tennessee Victor Griffin e completata da Lee Abney al basso (poi rimpiazzato guarda caso dall’ex- Pentagram Swaney). Nel giorno di Halloween, Griffin viene presentato a Liebling da Hasselvander, e un nuovo patto viene siglato.
L’anno successivo i Death Row registrano il demo “All Your Sins”, si esibiscono dal vivo con continuità (le loro gesta live sono celebrate nel vinile “Death Is Alive: 1981-1985”, stampato nel 2000 da Game Two Records in sole 500 copie) e vengono notati dalla Dutch East India Trading, che suggerisce loro di tornare al nome Pentagram per venire incontro alle richieste dei fan in vista della pubblicazione dell’omonimo album di debutto. E' la fine della parentesi Death Row, che però si riformano nel 2001 per alcuni live show. Il primo disco dei Pentagram, invece, vede la luce solo nel 1985 e su etichetta privata (la Pentagram Records, ovviamente), a circa 15 anni di distanza dal primo vagito della band. “Pentagram” contiene il materiale del demo “All Your Sins”, re-missato per l’occasione; ma Hasselvander - non soddisfatto della gestione promozionale - è fuori dal gruppo già da qualche mese per dedicarsi ad una carriera solista che frutterà svariati dischi su Dutch East India Trading e in cui si cimenta con tutti gli strumenti. Il suo posto dietro alle pelli è ora di tale Stuart Bose, che quindi suona in quasi tutti i brani del secondo full-length, “Day Of Reckoning”, pubblicato da Napalm Records nel 1987. Hasselvander torna comunque in line-up proprio prima della release, ma poi lascia per entrare nelle fila degli inglesi Raven, con cui registra numerosi album, e nei Rag Doll. Victor Griffin, invece, rifiuta l’offerta di entrare nei Carnivore di Pete Steel e Mike Amott, e si trasferisce a Hollywood in cerca di fortuna.
I Pentagram sono di nuovo allo sbando, ma duri a morire. Nel 1988 si riformano addirittura con parte della line-up dei ’70, progettando la pubblicazione di “Show ‘Em How”, album dalle sonorità meno heavy che nel passato recente della band, dunque più in linea con quanto proposto ad inizio carriera. Ma non se ne fa nulla, e a nulla serve il fatto che si fossero affidati alle cure di Wade Brooks, ex-manager dei Trouble.

5. NEVER SAY DIE
Bisogna attendere il 1990 perché le acque intorno ai Pentagram tornino ad agitarsi. L’occasione è offerta dal successo crescente dei Cathedral, che sciolgono il doom metal dai suoi legacci underground e includono una cover di “All Your Sins” nel primo demo, “In Memorium”.
Nel ‘91 l’inglese Peaceville Records chiede a Liebling di approntare un terzo album, e nel frattempo ristampa i primi due lavori della band. “Pentagram” esce col nuovo titolo di “Relentless”, mentre per “Day Of Reckoning” Joe Hasselvander registra tutte le parti di batteria che in origine erano di Stuart Bose. Anche Griffin torna dal suo esilio hollywoodiano e rientra in formazione con un pugno di nuovi brani in parte confluiti sul terzo “Be Forewarned”, del 1994. Nel frattempo i Pentagram avevano ripreso ad esibirsi dal vivo, e addirittura Hasselvander e Griffin avevano suonato coi Cathedral in un tour del ’94 insieme a Black Sabbath e Godspeed (gli odierni Solace), in sostituzione dei dimissionari Adam Lehan e Mark Wharton. Anzi, fu proprio su consiglio dei due Pentagram che Lee Dorrian proseguì l’avventura dei Cathedral con una line-up quadrangolare, senza l’apporto di una seconda chitarra.
Col brano “Sinister” partecipano anche al secondo volume della seminale compilation “Dark Passages” (Rise Above Records, ‘94), che ospita futuri prime-movers dello stoner-doom come Orange Goblin ed Electric Wizard.
Il resto è storia di questi giorni: abbandonata la Peaceville (che diventando una succursale della Music For Nations aveva perso i connotati underground che Liebling esigeva), la band approda alla sua label attuale, la genovese Black Widow Records, diventandone la band di punta.
I Pentagram partecipano così al tributo ai loro idoli di sempre, i Blue Cheer, con le cover di “Feather From Your Tree” e “Out Of Focus”; ma soprattutto danno alle stampe due nuovi studio-album, “Review Your Choices” (1999) e “Sub-Basement” (2001). La band è oramai ridotta ad un duo, con Liebling alla voce e Hasselvander a suonare tutti gli strumenti, ma i risultati sono stratosferici, tanto che in molti decretano “Sub-Basement” come il miglior disco mai pubblicato dai Pentagram. D’altronde, la cifra stilistica della band non ha subito mutamenti di sorta: Liebling, che del Pentagramma è sempre stato la punta più acuminata, è il solito stregone-istrione, dotato di una timbrica lugubre, sinistra, esaltata dagli assolo violacei di Hasselvander e perfettamente integrata all’interno di granitiche partiture doom o di rombanti groove heavy-blues.
La magica alchimia tra i due è spezzata però nel recente "Show 'em How", in cui Liebling - in rotta con l'amico - si circonda di musicisti altrettanto abili, vale a dire il batterista Mike Smail (Cathedral, Penance) e chitarrista e bassista dei doomsters Internal Void, Kelly Carmichael e Adam S. Heinzman. I "nuovi" Pentagram suonano come una versione odierna della formazione dei '70, ossia con maggiore enfasi sugli accenti heavy rock settantiani della musica (cosa che è successa agli stessi Internal Void sulle loro ultime prove in studio). Lo sottolinea d'altronde anche il recupero di un paio di brani storici quali "Last Days Here" e la mitica "Starlady".
Che abbiano scoperto l’elisir di lunga vita o stipulato un patto col diavolo, del loro talento immarcescibile sono coscienti essi stessi, se è vero che in “Sub-Basement” Liebling canta: “Like the bats hanging in their nocturnal fleet, I’m still around underground gettin’ my peace without sleep”. Per sempre giovani, per sempre maledetti.

 


QUELLA MALEDETTA NUVOLA NERA

Robert Scott Weinrich nasce il 29 Settembre del 1960. Appena dodicenne, insieme al compagno di scuola Mark Laue assiste ad un live show dei Black Sabbath presso il Civic Center di Baltimora, Maryland. Entrambi restano fulminati e decidono di emularne le gesta. Nel ’74 iniziano a provare con un giovanissimo batterista, ma la differenza d’età e il fatto che Wino e Laue entrano al Wooten High School di Rockville, poco distante da Baltimora, li spinge a cercare altri coetanei con cui suonare. Vengono così in contatto col chitarrista Johnny Reese e il batterista Dave Williams, conosciuto anche come Dave Flood, e i due nuovi acquisti trasmettono a Wino e a Laue la loro passione per il jazz-fusion e per chiarristi come John McLaughlin (Lifetime, Mahavishnu Orchestra) e Alan Holdsworth (Tempest, UK). Il primo nome scelto per la band è Warhorse, l’anno è il 1977. Il moniker The Obsessed fa la sua comparsa un anno dopo (ma per breve tempo la band si chiamerà anche Turmoil), e tra il 1980 e il 1982 alla line-up si aggiunge anche il singer Vance Bokus.
“A quei tempi gli Obsessed erano una two-guitar band”, spiega Wino. “Suonavamo uno strano miscuglio di jazz e rock, cimentandoci in cover dei Beatles e in pezzi originali come ‘Decimation’. Quando arrivò il punk, decidemmo di allontanare il secondo chitarrista, che era molto bravo, ma anche incapace di controllarsi negli assolo; e inoltre dopo i concerti spariva coi soldi che l’esibizione ci aveva fruttato. Noi eravamo appassionati di Johnny Thunders e dei New York Dolls, e spesso dal vivo eseguivamo brani di Saints, Dead Boys e Heartbreakers. La gente apprezzava anche i nostri pezzi autografi, per cui si era creato questa specie di strano rapporto col pubblico punk. Persino quelli che criticavano il nostro look glam (testimoniato dalle foto nel booklet del primo album degli Obsessed, n.d.a.) venivano ai nostri concerti. Dopo che cacciammo Vance, proseguimmo come trio e pubblicammo l’EP ‘Sodden Jackal’ nel 1983”. Il disco cementa il rapporto con un’audience che ai tempi è discretamente vasta grazie soprattutto al supporto dei frequentatori della scena hardcore, conquistati attraverso spettacolari live show nel Maryland, a Washington D.C., a Filadelfia e a New York.
Oltre al jazz-fusion, a segnare il chitarrismo complesso e metallico di Wino è anche l’ascendenza esercitata dai gruppi proto-doom della NWOBHM e dal punk-hardcore.

1. SAINT WINO
Tra il 1984 e il 1985 la band sembra finalmente in procinto di spiccare il volo. L’occasione è data dalla partecipazione alla compilation “Metal Massacre VI” su Metal Blade Records col brano “Concrete Cancer”. Racconta Wino: “L’accordo prevedeva che dopo aver contribuito con quel pezzo avremmo automaticamente firmato un contratto per l’uscita di un full-length. Ma poi successe che nacque il thrash. Te ne potevi accorgere già dalle band presenti sulla raccolta: Nasty Savage, The Possessed, Dark Angel... A quel tempo Brian Slagel di Metal Blade aveva sotto contratto gli Slayer, e ‘Hell Awaits’ era appena stato pubblicato. Improvvisamente si trovò con tutti questi gruppi thrash a disposizione e ritirò l’offerta di pubblicare il nostro disco, che avevamo già scritto e i cui pezzi facevano parte di ‘Hiding Mask’, il nostro primo demo”.
Ma il 1985 è soprattutto l’anno in cui Wino si fa santo. L’ingresso nei Saint Vitus avviene su invito diretto della band, orfana del dimissionario singer Scott Reagers; così il chitarrista si trasferisce nel Sud della California e scopre finalmente di essere un ottimo cantante. Da brividi è la sua performance vocale nella micidiale confessione sull’abuso di alcol intitolata “Dying Inside” e tratta dall’album del 1986, “Born Too Late”, la cui title-track sottolinea il senso di alienazione provato dalla band all’interno di un circuito in cui ben pochi sembrano accorgersi di loro. Wino e compagni si sentono “nati troppo tardi”, rifiutati perché abbracciano un’ideologia musicale sorpassata dagli eventi, soprattutto con l’incalzare del thrash metal. Il gruppo è insomma conscio del fatto che il doom – basato soprattutto sull’espressività e su tempi lenti, piuttosto che su velocità e strabilianti tecnicismi – non sarebbe esploso mai, restando un affare per pochi cultori. Ma ciò non impedisce loro di pubblicare dischi importanti come “Mournful Cries”, “V” e “Live”, dove Wino si cimenta non senza problemi con vecchi classici come “White Stallion” e “War Is Our Destiny”, in origine pensati per le vocals operistiche di Reagers. Nel 1988 il musicista trova anche il tempo di collaborare in studio e dal vivo coi giovani heavy rockers Lost Breed, cantando e scrivendo qualche brano (il bootleg “WINO Daze” su Doom Records contiene 6 pezzi registrati per un demo), ma i Vitus restano il suo gruppo principale.
Poi, la crisi: Wino non resta convinto dal nuovo materiale composto da Chandler, a sua volta indispettito dal successo degli Obsessed sdoganati nel frattempo dalla Hellhound; e quando in un momento di tensione il barbuto chitarrista offende Wino paragonandone la voce a quella di Axl Rose, questi lascia i Vitus al loro destino e riporta definitivamente in vita gli Obsessed.

2. OBSESSED BY DOOM
A convincerlo al grande passo è la Hellhound Records, soddisfatta del piccolo successo underground dei Vitus. Nel 1990 Wino viene invitato a rispolverare registrazioni di cinque anni prima (con Ed Gulli alla batteria e Mark Laue al basso), fatte confluire in un disco omonimo (ribattezzato dai fan “Purple Album”), e ad intraprendere un tour. La scrittura è acerba, ma da brani affascinanti ed oscuri come “Tombstone Highway”, “The Way She Fly” e “Forever Midnight” si intuisce senza difficoltà che il musicista del Maryland è sulla buona strada per coniare una formula moderna di doom rock.
Tornato così in pista con la sua prima e più amata creatura, Wino cerca di immaginarne il futuro. Dapprima pensa ad una formazione col batterista Greg Rogers e il bassista Danny Hood (in passato già membro degli Obsessed), coppia affiatata che militava negli Acid Clown. Poi resta impressionato dalla tecnica del bassista Scott Reeder, proveniente dagli Across The River, una band della SST. Ed è con Reeder e Rogers che registra “Lunar Womb” (’91). L’album assembla brani nuovi di zecca e pezzi di dieci anni prima, ed è un capolavoro inaudito. Gli Obsessed sviluppano gli spunti psichedelici contenuti nel primo disco servendosi di strutture più agili, mutuate anche dal fusion e spesso proposte in fulminanti accelerazioni rock’n’roll à la Motorhead (esemplare lo strumentale “Spew”). Ma non manca il classico “gloom sound” della musica del destino, soprattutto in “Endless Circles”, “Jaded” e la title-track.
A ben vedere, “Lunar Womb” anticipa di circa 5 anni l’intero fenomeno stoner, e guarda caso Reeder lascia di lì a poco proprio per unirsi ai Kyuss: “Ha raggiunto ragazzi ricchi come lui”, si dice che abbia commentato Wino…
Reeder viene sostituito dall’olandese Guy Pinhas, che molla la sua band, i Beaver, per volare negli States in occasione delle registrazioni del terzo e ottimo “The Chruch Within”, stampato nel ’94 col patrocinio della Columbia (che - come altre etichette ancora in preda alla febbre grunge - mette sotto contratto parecchi gruppi hard’n’heavy sperando nel successo commerciale).
Grazie alla spinta della nuova casa discografica, Wino partecipa anche al tributo ai Sabbath “Nativity In Black”, ma l’appoggio della major si ritorce contro di lui quando gli viene chiesto di limare certe asperità del sound e di servirsi del noto producer Bob Rock. L’offerta è declinata con decisione e “The Church Within” viene prodotto sotto la supervisione degli Obsessed stessi e con un piccolo budget. Va sottolineato come la stesura di molti brani (“Blind Lightning”, Mourning”, “Decimation”, “Neatz Brigade”...) risalga addirittura a più di dieci anni prima, e stupisce fortemente come essi suonino assolutamente attuali ancora oggi, dopo 20 anni.
Al ritorno da un tour con White Zombie e Life Of Agony, i rapporti con la Columbia si incrinano definitivamente, e Wino resta con pochi dollari in tasca e un pugno di promesse non mantenute. “Il mio grosso errore con la Columbia fu quello di non aver acconsentito a che il produttore del disco fosse un nome di grido”, spiega l’artista, “perché sicuramente la Columbia l’avrebbe promosso di più. Lo registrammo con un ottimo ingegnere del suono che sapevamo avrebbe fatto un buon lavoro; così avremmo potuto risparmiare dei soldi. Se fossi stato più furbo, magari avremmo potuto avere un grande producer come Toby Wright (Alice In Chains, n.d.a.). La Columbia non ci voleva più, ma allo stesso tempo aveva già opzionato il nostro secondo album, e dal punto di vista legale era obbligata a pubblicarlo, pena il pagamento di una grossa somma di denaro. Cercò allora di gonfiare le spese che fino a quel momento aveva sostenuto per noi, addossandocene alcune che non avevamo mai fatto. Fortuna che eravamo aiutati da un buon avvocato… Alla fine ci liberammo dal loro giogo, ma restammo indebitati fino al collo”.
Sconfitto e amareggiato, l’artista si perde così in un vortice di droga (il letale speed) e alcol che lo riduce in assoluta povertà, costringendolo a vendere tutto, chitarra compresa, e persino a dormire sotto i ponti. La “maledizione” del doom sembra averlo colpito, precludendogli le strade di una legittima affermazione personale. A rileggerlo oggi, il testo di “Endless Circles”, in cui il nostro canta “C’è una nuvola nera che mi segue…”, suona proprio come un presagio di sventura.

3. LA CAROVANA DELLO SPIRITO
Dopo aver toccato il fondo, Wino riesce però a risalire in superficie. Decide innanzitutto di abbandonare la California e ritornare nel Maryland, affrontando un viaggio di 3000 miglia in pullman. Trova dunque un lavoro in uno studio di registrazione, e con l’aiuto e l’incoraggiamento di molti amici e fan cresciuti ascoltando Obsessed e Vitus, in piena epoca stoner si disintossica, smette del tutto di bere e torna a suonare con una nuova sezione ritmica, costituita dall’ex-Wretched Dave Sherman (basso) e dall’ex-Unorthodox/Iron Man Gary Isom (batteria). Del gruppo si interessa la Tolotta dell’amico Joe Lally (bassista dei Fugazi), che ne pubblica un 7” ormai fuori catalogo intitolato “Lost Sun Dance/Courage”. Il moniker è quello degli Shine, poi abbandonato per evitare beghe legali con un omonimo gruppo americano. Dopo un provvisorio Shine A.D., il nuovo nome della band è presto scelto: Spirit Caravan, titolo di un vecchio brano degli Obsessed contenuto nella compilation “What The Hell” (Hellhound, ’91) e riproposta nella collezione di rarità degli Obsessed uscita su Southern Lord qualche hanno fa (“Incarnate”, 2000).
Tra il 1999 e il 2001 escono il debut “Jug Fulla Sun”, l’EP “Dreamwheel” e il secondo “Elusive Truth”. “Jug Fulla Sun” è giustamente acclamato dalla stoner generation come un capolavoro, e fa la sua comparsa in cima a numerose playlist di fine anno. Contiene brani che erano stati pensati per il follow-up di “The Church Within” (tra essi, “Fear’s Machine”), ma anche episodi del tutto nuovi che evidenziano un ritorno a certi temi psichedelici propri di “Lunar Womb” (“Lost Sun Dance”, la title-track).
Così, Wino diventa paradossalmente l’homo novus del doom, maturo, cambiato dal matrimonio e dalle vicissitudini. È differente anche il tenore dei suoi testi, che all’amarezza del passato recente privilegiano tematiche filosofiche sul senso della vita in un’ottica spirituale e trascendentale.
Però, dal punto di vista musicale il pur bello “Elusive Truth” registra in alcuni suoi momenti un appesantimento di trame e atmosfere, un inaspettato ritorno al doom più tetro che innesca il sospetto che qualcosa non vada per il verso giusto. E difatti, dopo un ultimo 7” su Tolotta, la Carovana dello Spirito giunge alla meta prima del previsto. Inizialmente lo scioglimento sembra dovuto agli impegni familiari di Wino, da poco divenuto padre e deciso ad appendere la chitarra al chiodo, almeno per un po’. Ma il subitaneo ingresso nei Place Of Skulls dell’ex-Pentagram Victor Griffin e le dichiarazioni di chi lo conosce bene rivelano una crisi consumatasi all’interno dei Caravan, determinata da profonde divergenze di vedute tra il chitarrista e la sezione ritmica. In particolare con il ribelle Dave Sherman, a sua volta leader dei doomsters Earthride.
Wino: “Pensavo che gli Spirit Caravan sarebbero stati il mio gruppo definitivo, ma durante l’ultimo tour americano ho visto talmente tante cose che non andavano da farmi pensare che non tutti nella band avevano i miei stessi obiettivi. Ci tengo alla disciplina e all’offrire uno spettacolo live dignitoso, ma per altri c’erano cose ben più importanti della musica, ed ero stanco di avere gente strafatta sul palco. Non voglio essere io a dover dire a qualcuno di moderarsi, di non esagerare proprio prima di un concerto. Ognuno dovrebbe essere responsabile di se stesso”. Il riferimento è a Sherman e ai suoi incontrollabili eccessi alcolici...
Il recente doppio CD “The Last Embrace” rilasciato da Meteorcity e contenente gran parte delle registrazioni della band insieme a brani inediti rende omaggio alla breve ma intensa epopea della Carovana dello Spirito, con cui Wino ha traghettato il doom da un decennio ad un altro, come già gli era capitato di fare tra gli ‘80 e i ‘90 al timone degli Obsessed.

4. LA MANO CHE GOVERNA IL MONDO
“Dopo lo scioglimento dei Caravan mi sentivo giù”, racconta l’artista. “Ero pronto a gettare la spugna, perché ricominciare daccapo mi sembrava cosa difficoltosa, e non sapevo se avevo voglia di farlo. Ma stavo suonando meglio di quanto avessi fatto in passato, e avvertivo il bisogno di fare musica aggressiva”. Così, sul finire del 2002 giunge inaspettata la notizia del ritorno di Wino con un nuovo power-trio, The Hidden Hand, immediatamente scritturato da Meteorcity in USA ed Exile On Mainstream in Europa. Il debut-album “Divine Propaganda” è un altro piccolo gioiello doom che ci restituisce un Wino al massimo della forma, sopravvissuto alla sua stessa leggenda. Accompagnato da Bruce Falkinburg (basso) e Dave Hennessy (batteria), Wino torna a macinare potente doom metal come ai tempi dei The Obsessed, ma senza dimenticare di esercitarsi in assolo heavy-psych come nel passato recente dei Caravan.
A stupire, però, è il concept socio-politico e religioso dietro “Divine Propaganda”, in cui l’artista fonde mirabilmente testi di accesa denuncia sociale, liriche in cui emerge l’arcinota passione per le antiche culture indigene americane e vere e proprie poesie che testimoniano del suo essere in perfetto equilibrio col mondo. Ma anche di certe idee radicali mutuate da letture particolari come quella di un famigerato tomo di David Icke, “And The Truth Shall Set You Free”, secondo il quale “c’è una ‘mano nascosta’ che guida i media, i capi religiosi e i governi, e che ci dà in pasto delle menzogne”. E ancora, sulla religione: “Sono dell’idea che la razza umana sia il risultato di una manipolazione genetica ad opera di alieni, e che Gesù stesso avesse origini extraterrestri. Probabilmente non si trattava nemmeno di un solo individuo, ma di un gruppo di persone venute per insegnarci qualcosa. Se poi ti guardi in giro, scopri che molte delle cose scritte nella Bibbia si trovano anche in miti e tradizioni pre-cristiane. Capisco che la gente non abbia la voglia e il tempo di passare al vaglio le molte religioni del mondo, e che ad un certo punto decida che il Cristianesimo sia quella giusta… d’altronde l’uomo ha bisogno di credere in qualcosa per non uscire fuori di senno. Dal canto mio, continuerò a meditare guardando il sole e a trarre energia dalla Terra”.
Questa ritrovata serenità di spirito permette a Wino di riconciliarsi col bassista Scott Reeder (con cui ha suonato insieme sull’ultimo lavoro dei Sixty Watt Shaman) e Dave Chandler dei Saint Vitus, riformatisi l'anno scorso in occasione di due concerti, uno negli States e l’altro in Europa: “Mi sembrava la cosa giusta da fare, perché sia io che Dave amiamo la stessa musica. Entrambi i concerti sono stati qualcosa di incredibile per me, ed è stato divertente tornare a provare insieme”.
Nel nuovo millennio Wino è saldamente al comando delle doom legion: si diverte a duellare con l’amico Griffin nell’ottimo secondo album dei Place Of Skulls, “With Vision”; contribuisce volentieri ai dischi di nuovi artisti che sono cresciuti con la sua musica (Solace, Mystick Krewe Of Clearlight, Sixty Watt Shaman, i Probot di Dave Grohl) ed è ancora il simbolo inossidabile del doom a stelle e strisce. L’orizzonte sembra finalmente sgombro da nuvole nere.

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