OBSCURE METAL UNDERGROUND & VULTURE CULTURE
I, VOIDHANGER MAGAZINE - ASCOLTI
Recensioni a cura di Voidhanger

 

DEATHSPELL OMEGA
Si Monumentum Requires, Circumspice
(Norma Evangelium Diaboli, 2004)

Difficile pronosticare che i francesi Deathspell Omega potessero sfornare un capolavoro del calibro di "Si Monumentum Requires, Circumspice". I lavori precedenti, tra cui il pregiatissimo "Inquisitors Of Satan", parlavano un linguaggio black iniettato di thrash sostanzialmente tradizionale e lineare, seppure di una ferocia incontrollabile. Nulla che potesse anticipare la "malevoluzione" del loro stile, con cui oggi spingono il metal satanico verso nuovi livelli espressivi, tanto musicalmente quanto dal punto di vista lirico. La brutalità distruttiva dei Deathspell Omega è ancora lì; spesso si nasconde dietro strumentali dalle atmosfere opprimenti ("First Prayer") o mid-tempo mortiferi e dal sapore death metal ("Hetoimasia"), come fosse una bestia in attesa di azzannare la preda. Tutta la loro foga ferina si manifesta invece in "Sola Fide I & II", "Blessed Are The Dead Whiche Dye In The Lorde" e "Drink The Devil's Blood", quando la band si lascia andare ad esplosioni di violenza parossistica. Il caos prenderebbe il sopravvento se non fosse per i frequenti appigli melodici in grado di tenere insieme il tutto e di rendere l'ascolto di questi 78 minuti meno arduo. La produzione privilegia i bassi ed esalta un cantato prevalentemente growl (opera di Mikka di Clandestine Blaze/Northern Heritage Records) che farnetica sull'origine divina del Demonio, in sermoni blasfemi atti a invertire e sovvertire i dogmi cristiani. L'apice è raggiunto in "Carnal Malefactor", oltre 11 minuti che si sviluppano su di un tessuto chitarristico melodico e dai forti accenti depressive, interrotto a metà da un canto liturgico destinato ad essere inghiottito dalle chitarre leonine dei Nostri. Roba da groppo in gola.
Come gli Ondskapt di "Draco Sit Mihi Dux" e i Funeral Mist di "Salvation", i Deathspell Omega sintetizzano in un disco complesso e maturo una nuova forma di black satanico (che qualcuno ha già definito "religious black metal"), finalmente temibile come e più degli "inni a Satana" di dieci anni fa. Impressionanti.

 

ELECTRIC WIZARD
We Live
(Rise Above, 2004)

Chi li dava per spacciati dopo l’abbandono di Tim Bagshaw e Mark Greening, adesso alle prese col progetto Ramesses, dovrà ricredersi: gli Electric Wizard di Jus Oborn tornano oggi con una formazione quadrangolare comprensiva di tre nuovi brutti ceffi con la passione per il doom e le droghe (non necessariamente in ordine di preferenza). Tra essi, l’ex-Iron Moneky Justin Greaves e la bionda chitarrista Liz Buckingman (dalle fila degli sludgers americani 13 e Sourvein), chiamata a raddoppiare il voltaggio elettrico della musica di Oborn.
Si nota subito che il drumming di Greaves, tellurico e ricco di contrappunti, conferisce maggiore dinamicità interna ai brani; vedi i ritmi percussivi e ipnotici di “Eko Eko Azarak” (a sottolinearne il carattere di invocazione rituale), oppure lo sprint thrash-black di “Another Perfect Day?”, che invero animava già “We, The Undead” sul precedente “Let Us Prey”. Dal canto loro, Oborn e Buckingam “psichedelicizzano” i pezzi tramite riffoni induttori di trance e assolo space-blues in grado di materializzare gli incubi di H.P.Lovecraft. Non mancano nemmeno certi spunti oscuramente melodici, che permettono a “Flower Of Evil” e alla title-track di rivaleggiare con vecchi hit come “Supercoven” e “Barbarian”. Nei 15 epici minuti di “Saturn’s Children”, invece, il clima si fa ancora più drogato e pernicioso, e in coda si distingue chiaramente l’invocazione di Satana. Che ovviamente se la darà a gambe, sopraffatto dalla paura…Se in passato ai nostri “marijuana-nauti” piaceva perdersi nei loro trip cosmici, adesso che la loro musica si fa più concreta puntano bellicosamente verso il regno degli inferi, verso quel (dope)trono che gli appartiene, oggi più che mai.

 

THE HIDDEN HAND
Mother Teacher Destroyer
(Exile On Mainstream, 2004)

Oltre 25 anni di carriera alle spalle evidentemente non sono bastati per fiaccare la vena creativa di Wino, che torna col nuovo album degli Hidden Hand, “Mother Teacher Destroyer”. Un album spettacolare. Il sodalizio col bravo batterista Dave Hennessy e col bassista/cantante Bruce Falkinburg oggi funziona anche meglio che sul precedente “Divine Propaganda”, tanto che gli Hidden Hand si trovano spesso a navigare seguendo nuove e più avventurose rotte stilistiche. Quindi, non solo doom rock e sonorità hard di stampo Seventies (“Desensitized”, “Half Mast”), ma anche un inedito approccio progressive e tanta voglia di sperimentare sulla struttura dei brani, sui suoni e sugli impasti vocali di Wino e Falkinburg. Si spiegano così le inaspettate digressioni quasi math-rock nel bel mezzo dell’epica “Sons Of Kings” (roba da far concorrenza ai Mastodon) oppure l’eco space (spesso sovrapposta a chitarre o ritmiche ossessive e ipnotiche) in “Currents”, “The Deprogramming Of Tom Delay” e “Draco Vibration”. Com’è ovvio, Wino parla anche attraverso la sua chitarra, che nella languida ballata di “Black Ribbon” produce un flusso rumoroso di sottofondo straniante e a suo modo psichedelico, mentre in “Magdalene” torna a macinare quei riff robusti e pieni di groove che hanno fatto la storia del doom. Gli Hidden Hand evitano però di adagiarsi sugli stereotipi del genere, anzi ne ridefiniscono i contorni in modo convincente. Ma abbiamo detto abbastanza, quando con tutta probabilità sarebbe bastato scrivere che “Mother Teacher Destroyer” è il nuovo capolavoro di Wino.

 

LUNAR AURORA
Elixir Of Sorrow
(The Oath, 2004)

Ignorati dalla maggior parte dei consumatori di black, i Lunar Aurora continuano nel loro personale percorso artistico all'insegna della qualità.
Se l'ultimo "Ars Moriendi" era penalizzato da una produzione che non riusciva ad esaltarne a dovere gli aspetti sinfonici, il nuovo "Elixir Of Sorrow" (registrato all'indomani della pubblicazione del suo predecessore) riesce a creare un bell'amalgama di chitarre e keyboards che finalmente suonano in modo organico, come un tutt'uno. Il songwriting della band si fa in questa occasione più semplice e lineare, più propenso alla melodia ("Kerkerseele"), sebbene anche in questo episodio i Lunar Aurora riversino in ogni brano una tale quantità di idee ed intuizioni melodiche che ad un qualsiasi altro gruppo basterebbero per confezionare una mezza dozzina di dischi. Inoltre, il menù di "Elixir Of Sorrow" è arricchito da intermezzi dark-ambient che fungono da valvole di sfogo tra un'impennata dark-psichedelica e l'altra. L'aggettivo psichedelico non è affatto fuori luogo: l'imponente uso delle keyboards non fa altro che sottolineare l'afflato cosmico di brani come "Zorn Aus Aonen", "Augenblick" e "Hier Und Jetzt", in cui i sensi dell'ascoltatore vengono sopraffatti come accadeva solo durante la mistica contemplazione dell'Infinito ad opera degli Emperor di "The Majesty Of The Nightsky", ad esempio. Istanti in cui l'Uomo trova la sua giusta collocazione nell'Universo per sentirsi finalmente a casa, tra quelle stelle da cui proviene e a cui un giorno ritornerà.

 

NOCTE OBDUCTA
Nektar - Teil 1: Zwolf Monde, Eine Hand Voll Traume 
(Supreme Chaos, 2004)

Quest'anno siamo stati fortunati: oltre all'ennesimo bel disco dei Lunar Aurora, ci è toccato di ascoltare anche il nuovo album dei Nocte Obducta. Si tratta di una sorta di concept sulle quattro stagioni su cui i tedeschi lavoravano da lungo tempo. Almeno dal 1994, stando alle date a cui risalgono alcune delle composizioni. Facile immaginare che l'approccio della band è sicuramente più in linea con le produzioni di quel periodo ("Lenkte Einsam Meinen Schritt"), ma di certo non manca quel piglio vagamente prog che caratterizzava l'ultimo mini "Stille" e che qui è solo più attenuato. Black-death melodico con frequenti passaggi acustici e belle armonie di chitarra, quindi. Notturno e poetico, ma anche violento e potente quando occorre, "Nectar 1" mostra più di un punto di contatto con quanto proposto ad esempio da certi Opeth, con l'evidente differenza di dare maggiore spazio ad una più decisa vena black. Non mancano quindi le partiture complesse e i cambi di tempo mozzafiato a cui i Nocte Obducta ci hanno abituato, così come le belle altalene emozionali suggerite anche dal contrasto tra screaming vocals e growl. In più, questa volta ci sono percussioni tribali nel bel mezzo di "Des Schawarzen Flieders Wiegelied", a contribuire al clima sognante del disco. Un "sogno di una notte di mezza estate"... ma anche di notti invernali, autunnali e primaverili, ovviamente. Detto questo, "Nectar 1" non è il disco più bello dei Nostri. Aggiunge poco ad uno stile che ormai ben conosciamo e che in parte toglie il gusto della sorpresa durante l'ascolto. Non di meno siamo di fronte ad un ottimo album di black metal elegante, maestoso ed epico, che miracolosamente riesce a non risultare stucchevole o sopra le righe. Solo i grandi ci riescono.

 

SECRETS OF THE MOON
CARVED IN STIGMATA WOUNDS
(Lupus Lounge, 2004)

I tedeschi Secrets Of The Moon tornano in pista con un album ambizioso e complesso, che segna un ulteriore passo in avanti nell'ambito della loro ricerca artistica. Grosso lo sforzo profuso nella composizione delle 10 tracce qui raccolte, troppo cariche di suoni, idee e spunti per permettere una fruizione immediata del disco. Ma nessuno ha detto che l'Arte debba limitare se stessa, soprattutto quando il risultato finale riesce lì dove gli ultimi Satyricon hanno fallito: ossia nel tentativo di rinnovare e modernizzare il linguaggio black, ma senza snaturarsi e senza rinnegare certi stilemi che è giusto rispettare. Ed è proprio ai Satyricon che i Secrets Of The Moon sembrano guardare maggiormente, tanto che brani come "Hail Miasma" e "Psychoccult Hymn" sembrano out-takes di un immaginario capitolo discografico del duo norvegese posto tra "Nemesis Divina" e "Rebel Extravaganza". Ottimi i giochi ritmici avanguardistici che il gruppo s'inventa in molte occasioni ("Epoch"), così come le innumerevoli parentesi atmosferiche che caricano d'intensità quasi tutti i brani. Soprattutto "Carved In Stigmata Wounds", in cui la band torna con insistenza su un bel tema melodico (presente anche nello strumentale conclusivo "Dust") gravido d'oscurità e presagi apocalittici. Proprio come le liriche occulto-simboliche di Daevas. E' anche vero che ogni tanto i Secrets Of The Moon sembrano perdere il bandolo della matassa e restano imprigionati in costruzioni troppo dispersive ("Evolution Valour Admission" necessiterebbe di una sfrangiata, ad esempio). Ma si tratta di difetti di poco conto, per un disco che - come cantano essi stessi nella title-track - propone con intelligenza "una nuova definizione di tradizione".

 

SPITE EXTREME WING
Non Ducor, Duco
(Behemoth, 2004)

"Non Ducor, Duco", secondo lavoro degli Spite Extreme Wing, affonda in un contesto politico, culturale e letterario che il leader Argento illustra compiutamente nel booklet, facendo ricorso - tra gli altri - agli scritti e ai pensieri di Julius Evola e Gabriele D'Annunzio. Non un disco black usa e getta, quindi, ma un'opera pensata e curata in ogni minimo dettaglio, un vero e proprio manifesto ideologico e di intenti. Persino la registrazione grezza ma "organica", realizzata all'interno di un forte e totalmente diversa da quella potente e bombastica del precedente "Magnificat", assume un significato ben preciso nell'economia del disco. Così come la struttura dei brani, che stavolta giocano sulla reiterazione di pochi, splendidi riff per lasciare respiro ai testi (in Italiano) di Argento, evitando con intelligenza di appesantire un'opera di per sé già carica di contenuti e di distogliere da essi l'attenzione dell'ascoltatore. In "Non Ducor, Duco", infatti, il black metal è trasformato in una sorta di strumento di propaganda, asservito al volere degli Spite Extreme Wing e giusto complemento a parole che schiaffeggiano la mente, come per svegliarla da un atavico torpore, da un ottundimento dei sensi e delle coscienze. Parole che stimolano insieme azione e pensiero, che infiammano gli animi (la title-track) o che li trascinano in alto verso la conoscenza (la metafora neanche troppo velata di "In Su La Vetta"). Parole che continuano ad echeggiare persino quando di loro non v'è traccia, come nello strumentale "Decadenza", in cui "...i morti chiamano i vivi che ancora hanno orecchie per udire". Le nostre sono ben tese.

AASKEREIA Mit Raben Und Wolfen (Aaskereia/Westwall, 2003)
Inarrestabile come un carro armato, la Germania continua a sfornare ottimo black metal delle origini, grezzo e senza compromessi. Fanno parzialmente eccezione questi Aaskereia, al debutto sulla lunga distanza con un album auto-prodotto, "Mit Raben Und Wolfen", che gli ha subito valso la firma di un contratto con la tedesca Christhunt Productions. Il disco si compone di 9 brani, tutti generalmente concisi e impregnati di atmosfere pagane che la band impasta sapientemente con un folk d'altri tempi, fatto di ariose melodie e cristalline chitarre acustiche. L'integrazione con furiose e deflagranti partiture black è totale, tanto che viene facile accostarli agli Ulver di "Bergtatt". Ma la cifra stilistica del sestetto è tutt'altro che derivativa. Grossa parte del merito va riconosciuta all'abilissimo singer Grim, in grado di alternare con disinvoltura evocative clean vocals e un impressionante screaming burzumiano, sottolineando così la duplice anima di un disco perfettamente in bilico tra malinconica contemplazione della Natura e rabbia sferzante. Album rivelazione.

ARCKANUM/SVARTSYN Kaos Svarta Mar/Skinning The Lamb (Carnal, 2004)
Il ritorno sulle scene di Arckanum è uno degli avvenimenti black dell'anno, almeno per chi scrive. Avremmo preferito l'ascolto di un album sulla lunga distanza, ma anche in "Kaos Svarta Mar" c'è abbastanza da saziarci fino al prossimo appuntamento con questo Pan svedese. Che per l'occasione si presenta con un sound molto più pulito, netto e deciso che in passato, come a volere evidenziare meglio una scrittura sapiente nel confezionare riff e melodie nere (belle quelle di "Frana" e "Aetergap", i brani migliori del lotto). Forse lo preferivamo ai tempi di "Kostogher", certamente più sinistro, ma in ogni caso Shamataee si conferma ad ottimi livelli. Quanto agli Svartsyn, la band di Ornias sembra avere finalmente trovato la sua dimensione, forte di una produzione che ne esalta gli spunti melodici. Soprattutto in "Skinning The Lamb", che corre veloce nella notte sulla spinta propulsiva di basso e batteria e chitarre come fiammelle. Il resto è classico black metal svedese un po' meno esaltante, ma saprà accontentare gli appassionati di sonorità black d'antan.

AD HOMINEM ...For A New World (Undercover, 2004)
L'anima nera degli Ad Hominem, Kaiser Wodhanaz, si era fatto notare l'anno scorso sulla scorta di un primo album, "Planet Zog - The End", davvero intrigante, seppure non esente da difetti. Poi è stata la volta del debut di The Call, side-project attraverso cui sfogare la propria voglia di grim black metal d'antan (con annessa cover di "Transilvanian Hunger"), tanto prevedibile e didascalico quanto affascinante. Tutto lasciava presagire che nel frattempo gli Ad Hominem stessero delineando un suono ancor più intransigente di quello di "Planet Zog", in grado di unire il passo marziale che avevano i brani passati con una maggiore cura del songwriting. Ed invece così non è stato: "A New Race For A New World" è un album assolutamente competitivo in seno all'attuale scena black internazionale, ma la maggiore pulizia sonora e l'apporto di un batterista in carne ed ossa al posto della fredda e squadrata drum-machine dell'esordio hanno mortificato quelle che erano le caratteristiche di uno stile proprio e personale, che aspettava solo di essere messo a punto. Un album nella norma, dunque, tanto nei suoni quanto nei contenuti musicali, e che lascia ai soli testi il compito di testimoniare al mondo la sua intransigenza artistica e ideologica ("Slay The Pope", "Nuclear Black Metal Kampf"). In futuro pretenderemo di più. 

ANCIENT WISDOM Cometh Doom, Cometh Death (Avantgarde, 2004)
A volte ritornano. Marcus E. Norman, che con lo pseudonimo di Vargher persegue i propri disegni di distruzione in seno ai black-trashers Bewitched, mette mano dopo quattro lunghi anni al suo progetto solista, Ancient Wisdom, coi quali ha già prodotto tre full-length per Avantgarde Music. Dietro un'immagine da duro che gli è valso l'ingresso nei blasonati Naglfar in occasione dell'ultimo "Sheol", Norman nasconde un animo romantico e malinconico. Lo dicono gli 8 brani di "Cometh Doom, Cometh Death", che musicalmente consistono in una splendida rielaborazione in chiave doom degli stilemi black svedesi, tanto che in più di un'occasione sembra di ascoltare i Dissection che suonano "The Silent Enigma" degli Anathema. Il tutto condito da una drum-machine programmata in modo lineare per non distrarre dagli splendidi intrecci sinfonici che danno vita all'album e da liriche (ingenue ma efficaci) che mischiano satanismo, depressione e ansie da fine del mondo. Esemplificativa in tal senso è la conclusiva "Universal Annihilation", 15 minuti che passano via in un soffio, tra melodie decadenti e bellissime note di piano ripetute ad libitum. Lungi dall'essere un disco epocale o particolarmente innovativo, "Cometh Doom, Cometh Death" resta un album riuscito, a dimostrazione della bravura di un artista completo che meriterebbe più attenzione di quanta non ne riceva già. 

BLODULV II (Total Holocaust, 2004)
Morto un Papa, se ne fa un altro. Che ci frega se i Gorgoroth degli ultimi album sono imbolsiti e lontanamente parenti di quelli del passato? Ci consoliamo coi Blodulv, un branco di lupi svedesi che ne sembrano i figli bastardi. Anzi, sembrano il risultato di un incrocio pericoloso tra Gorgoroth e Darkthrone, per dirla tutta. Poco è cambiato rispetto ai contenuti del debut omonimo, eccetto che nei nuovi brani spicca una maggiore attenzione per la melodia e una maggiore cura verso le dinamiche interne ai pezzi. "Tyrant" è quello in cui più di ogni altro la maturazione si fa significativa ed evidente: ondate di riff si susseguono le une alle altre, mentre basso e batteria insistono su un'andatura marziale davvero emozionante. Sporadicamente la musica si libera dai guinzagli che la trattengono per scontrarsi a velocità contro vocals rugginose e apocalittiche; che sanno incutere timore, ma anche disegnare melodie vagamente malinconiche in occasione di chorus azzeccati come quelli di "Desolate" e "Stronghold". Trepidanti, attendiamo i Blodulv al varco col terzo album, di prossima uscita per la neonata Eerie Art Records.

CAMULOS Spiel Des Blutes (Christhunt, 2003)
Si riconfermano su buoni livelli i tedeschi Camulos, autori di un opera prima, "Der Untermensch", assolutamente superlativa. "Spiel Des Blutes" ne segue la direzione stilistica, in bilico tra black metal melodico e frequenti puntate nel death; ma ne cambia la scelta dei suoni, ora più spigolosi e aspri, molto meno rifiniti e rotondi che sul debut-album. Peccato solo che così facendo si perda parte dell'oscura atmosfera epica che animava i brani di "Der Untermensch", li riempiva di poesia decadente e ne esaltava le splendide melodie, velate di sottile malinconia. I Camulos non avevano affatto bisogno di cambiare produzione per dimostrare la loro attitudine da "duri e puri". E non avevano affatto bisogno di ricorrere con insistenza alla pornografia di bassa lega (a base di suore cadute in tentazione) che troverete nell'artwork interno, e che a loro modo di vedere esplicita il tema dell'album (dedicato alle streghe). Ma a conti fatti "Spiel Des Blutes" è un disco più che discreto, perciò li perdoniamo volentieri. 

DARKESTRAH Sary Oy (Curse Of KvN Sadistic/No Colours, 2004)
Ascoltando "Sary Oy" non possiamo fare a meno di maledire la nostra ignoranza in fatto di geografia. Dove si trova esattamente il Kirgistan, patria dei fantastici Darkestrah? L'enciclopedia è dall'altro lato della casa; troppo lontana dagli speaker del nostro hi-fi. Soddisferemo la nostra curiosità più tardi, perché al momento la nostra attenzione è tutta per queste tre suite monumentali (la conclusiva "Kyzil Oy" oltrepassa i 25 minuti di durata!) intrise di atmosfere folk-orchestrali e dal sapore mediorientale, inframmezzate da potenti sfuriate più propriamente black. Pagan black metal, ovviamente; che si serve di strumenti acustici tipici dei luoghi da cui viene la band per disegnare melodie non distanti da quelle che Nargaroth confezionò per certe tracce di "Herbstleyd". Alla voce si alternano lo screaming di Kriegtalith (che per la cronaca è una donna) e il growl di Oldhon, mentre alla batteria siede il drummer che affianca Nargaroth nelle sue comparsate dal vivo. Le composizioni dei Darkestrah si costruiscono poco alla volta, incastrando tra loro partiture orchestrali a base di keyboards e synth, e registrazioni di venti desertici che soffiano forte, mistici e impetuosi. Un disco affascinante, capace di farci visitare con la mente paesaggi lontani che difficilmente avremo modo di vedere. 

DEMONCY Empire Of The Fallen Angel (Blood Fire Death, 2004)
Prendiamo atto che i Demoncy non hanno più nulla da dire. "Empire Of The Fallen Angel" è un disco irritante per più di un motivo. Intanto perché è il parto di una band che in passato aveva fatto cose egregie, e da cui era dunque lecito aspettarsi una proposta quanto meno discreta (cosa che "Empire Of The Fallen Angel" non è). E poi perché si ripete sempre uguale a se stesso, canzone dopo canzone, in modo irritante. Stessa struttura in ogni brano, melodie prevedibili e banali non perfettamente sviluppate, e testi satanici generalisti e decisamente superficiali. Roba insulsa, che fa concorrenza a gruppi ormai bolliti come Dark Funeral o Marduk, e comunque senza riuscire almeno a replicarne il tiro micidiale. Risultato? Una noia mortale, un disco da dimenticare e che certamente non fa onore né alla scena USA, né alla Blood Fire Death, che in passato ci aveva deliziato con bei dischi a firma Xasthur, Debauchery e Pest. 

EIKENSKADEN 665,999 (Tumult, 2004)
Un nuovo album degli Eikenskaden è un evento da festeggiare. Soprattutto se il precedente "The Last Dance" raggiungeva vertici di poesia come poche volte è capitato di sentire. In "665,999" il buon Stefan Koglek continua a spargere sale sulle ferite del suo cuore infranto, tanto che il disco suona come la colonna sonora di un amor perduto, portato via dalla Morte. I testi di Koglek sembrano schizzi, abbozzi di poesie mal riuscite o mai terminate, mentre la musica e le vocals distorte si intrecciano per dar vita a suggestioni ora romantiche ora decadenti. Emo-black metal, diremmo a gran voce, se non temessimo le critiche di certi ottusi coi paraocchi. Ma che gli Eikenskaden preferiscano questo tipo di approccio poetico ed emozionale sembra molto più che evidente. Peccato solo che non riescano a ripetersi ai livelli del bellissimo predecessore, più che altro per avere limitato gli interventi del pianoforte, che lì costituiva l'ossatura di gran parte del disco. "665,999" resta comunque un ascolto consigliato. 

FAUSTCOVEN The Halo Of Burning Wings (Barbarian Wrath, 2003)
Gunnar Hansen è l'uomo dietro al progetto Faustcoven, che esordisce col bel "The Halo Of Burning Wings" per la minuscola Barbarian Wrath, label solitamente dedita al recupero delle sonorità black anni '80. I Faustcoven rientrano in un'operazione del genere, benché gli anni '80 che qui vengono riesumati sono quelli del primo doom metal e di gruppi come Saint Vitus, Obsessed e Pentagram. Ovviamente nei solchi del disco è distinguibile tanto il proto-black di Hellhammer e Celtic Frost quanto quello dei seminali Samael. Ma non si tratta di calligrafismo. Piuttosto, la commistione di black e doom partorisce una bestia elettrica mai vista prima, un mostro di Frankenstein fatto coi resti di due sotto-generi metal "minori" arrivati al successo solo attraverso forme edulcorate e lontane da quelle originarie. Solo i Countess avevano osato tanto, quando su "Ad Maiorem Sathanae Gloriam" rifecero "Born Too Late" dei Saint Vitus... I riff di "Black Riders" (con l'accelerazione finale in puro Black Sabbath style!), "Annointed In Flames" o "Under The Pagan Hammer" sembrano tratti di peso dai dischi degli Obsessed o dei Pentagram, ma i vuoti che nel doom si alternano ai pieni qui vengono riempiti dai suoni distorti di chitarre marce e da una voce al vetriolo. E poi i testi, ispirati a b-movie dell'orrore su streghe e affini, gli stessi che piacevano a Pentagram, Witchfinder General e in tempi più recenti ai Warhammer. Insomma, "The Halo Of Burning Wings" sembra tracciare una linea di congiunzione chiarissima che attraversa trent'anni di metal oscuro e di nicchia, partendo dai Sabbath e passando attraverso Motorhead, Venom, Celtic Frost e Darkthrone. 

FROZEN SHADOWS Hantises (Holy, 2004)
Il nuovo album dei Frozen Shadows non riesce a bissare la qualità dei due precedenti lavori, e soprattutto del primo "Empires De Glace" (accluso sotto forma di bonus CD nella edizione speciale di "Hantises", limitata a 2000 copie). I canadesi sono mostruosamente bravi, e la loro tecnica è fuori discussione, così come la capacità di scrivere brani solidi, violenti e distruttivi come l'iniziale "As Old As Time Itself"; oppure avvolti in atmosfere sulfuree e tormentate come "A L'Ombre Du Mal" e "Towards The Chambers Of Nihil". Manca però ad "Hantises" la profondità dei dischi precedenti, quel sentimento di oscura sopraffazione che un tempo era la loro bandiera e che oggi è solo un lontano ricordo. Affiora qui è lì, ma senza la convinzione e la profondità di un tempo. "Hantises" resta un disco di gran lunga superiore alla media del mercato black; un esercizio di stile compiuto con grande perizia, ma poco trasporto interiore. In altre parole, bello e senz'anima. 

GALGERAS Reliekrover (Pestilence, 2003)
"Reliekrover" è la seconda uscita intitolata ai Galgeras e contiene due registrazioni demo del combo olandese. Molti dei brani qui raccolti figuravano già sul disco di debutto, per cui questo lavoro sembra destinato all'attenzione di quanti ancora non li conoscessero. La registrazione di buona parte dei brani presenti è poco nitida, ma abbastanza da permetterci di individuare nei Galgeras una band interessante e che probabilmente potrà assurgere ad un ruolo di primo piano in un futuro non troppo distante. Il loro stile è sicuramente accostabile a quello dei primi Manes e dei Thy Repentance, gruppo unici nel panorama black mondiale. L'impasto di chitarre elettriche dissonanti e synth melodici è la loro caratteristica: a volte sono le chitarre a prendere il sopravvento, mentre in altre sono le keyboards a dettare legge ("Kwaed Blod"). Ancora immaturi, i Galgeras sembrano avere parecchie frecce da scoccare, anche se per il momento non sono riusciti a centrare in pieno il bersaglio. Il tempo è dalla loro.

GOATSNAKE Trampled Under Hoof (Southern Lord, 2004)
Sembrava che il loro scioglimento fosse definitivo, e che Greg Anderson si fosse ormai perso dietro le sperimentazioni dei Sunn0))), dimenticandosi di quanto fosse bello suonare sentendo alle spalle gli “splash” e i “boom” di una batteria. Così non è stato, e 4 anni dopo possiamo riascoltare il doom metal dei Goatsnake, della cui line-up oggi fanno parte Scott Reeder (Kyuss, Unida, The Obsessed) al basso, JR (Cave In) dietro alle pelli e il solito Pete Stahl (earhtlings?) al microfono. I brani nuovi sono tre: “Portraits Of Pain”, che si snoda lenta e potente fino ad un break melodico in cui Stahl esercita la sua bella voce soul; “Black Cat Bone”, uno spacca-timpani che tramortisce grazie ad un’ottima combinazione di riff e groove ritmici; e “Juniors Jam”, che riassume le caratteristiche dei pezzi precedenti aggiungendo il suono di un’armonica. Completano il tutto due cover, l’insignificante rendition di “Hot Rod” (Black Oak Arkansas) già ascoltata su una compilation stoner della Rise Above e il monolite di “Burial At Sea” (Saint Vitus), semplicemente soffocante. I Goatsnake hanno sempre avuto classe da vendere... e allora che ce la vendano presto sotto forma di un full-length! 

GRAND MAGUS Monument (Rise Above, 2003)
Gli svedesi Grand Magus avevano conquistato molti cuori grazie al debutto omonimo del 2001, nonostante una produzione non proprio esaltante ad opera del pur bravo Fred Estby, che al sound del gruppo aveva aggiunto le keyboards. Non ne era convinto lo stesso JB, leader/cantante della band (ma anche singer degli Spiritual Beggars), che nelle interviste prometteva un secondo album più monolitico, qualcosa che evidenziasse maggiormente l'appartenenza dei Grand Magus al metal, oltre che all'heavy rock. "Monument" è quel disco. In esso la band dà corpo ad un suono massiccio come pochi, dove grande spazio viene concesso al basso di Fox e al drumming robusto, quadrato e primitivo di Trisse. La star è però JB, a suo agio tanto con performance vocali in cui è richiesto un timbro roco e potente, quanto in quelle in cui è chiamato a tonalità più soul. Esemplari in tal senso sono brani come "Brotherhood Of Sleep" e "Baptized In Fire", in cui il nostro rivaleggia (pur senza eguagliarlo) nientemeno che con Chris Cornell dei Soundgarden. In "Monument" i Grand Magus riscoprono peraltro un certo "orgoglio nordico", che si traduce non solo nella scelta di un artwork di copertina a base di montagne e alberi innevati o nel ricorso alla madrelingua per intitolare un paio di brani, ma anche nel recupero di stilemi tipici del metal epico e battagliero dei Bathory di "Blood Fire Death" e "Hammerheart". La band di Quorton è sicura fonte d'ispirazione per tracce solenni come la già citata "Baptized In Fire" o "Chooser Of The Slain", arricchita da rintocchi di campane e cori in lontananza, ma comunque i Magus non rinunciano a quel feeling stoner-doom che caratterizzava il disco precedente, e che spesso viene sfogato negli inebrianti assolo di JB, ammiratore dei grandi acts dei '70, Mountain su tutti. Ottima è la doppietta conclusiva di "Food Of The Gods" (veloce e trascinante) e "He Who Seeks... Shall Find" (lenta e chiaramente ispirata a certe cose dei Cathedral), con cui la band si congeda alla grande, promettendo di fare ancora meglio in futuro. Non ci stupirebbe affatto se presto facessero mangiare la polvere anche agli amici Beggars.

HERETIC'S FORK S/T (Heretic's Fork, 2004)
Buon esordio autoprodotto, questo degli Heretic's Fork. Stupisce che non l'abbiano pubblicato per una qualunque etichetta tra quelle che affollano il panorama doom attuale, perché "Heretic's Fork" non è soltanto un prodotto concorrenziale rispetto a quelli che sono gli standard del doom di oggi; è anche un album che coraggiosamente traccia nuove traiettorie stilistiche all'interno di un tipo di musica del destino a cui piace solitamente mantenersi saldo al suo passato ottantiano. La band di Chicago non stravolge quelle che sono le regole non scritte del genere (di riff tonanti e drumming massicci ce ne sono a volontà), ma aggiunge ingredienti psichedelici inediti, pescandoli direttamente dal progressive di Pink Floyd, King Crimson e dei loro più moderni figliocci, i Tool. Così, se "Undefined" è monolitca e asfittica, "Seed" si adagia su arpeggi oscuri su cui fluttuano vocals intrise di effetti eco. Gli Heretic's Fork creano un'atmosfera straniante che ha pochi precedenti nel genere e che permetterà loro di emergere dalla massa nel momento in cui limeranno le ultime, poche incertezze nel songwriting.

IBEX THRONE S/T (Elegy, 2003)
E' un disco dello scorso anno, ma continuiamo ad ascoltarlo con piacere nonostante la sempre più copiosa mole di uscite black. Loro si chiamano Ibex Throne e sono dello Utah, che non è esattamente sulle mappe americane del metallo nero. Forse anche per questo il loro debutto omonimo per Elegy è disco di una violenza a tratti quasi insostenibile, come se i cinque sfogassero in esso tutte le frustrazioni accumulate in anni di attività lontano dai riflettori. L'album non concede soste se non nella conclusiva "Obscurity Our Majesty", in cui i ritmi si fanno più cadenzati e viene fuori anche un'indole doom a cui il chitarrista Lord Dying dà spazio in altri progetti paralleli. Il resto è black metal guerrafondaio, nichilista e anti-cristiano, tutto giocato sulla combinazione di riff taglienti e ritmi veloci, con pochissime concessioni alla melodia e sostenuto da una produzione potente e incisiva. Nulla di nuovo sotto il sole, ma fa sempre piacere ascoltare gruppi di perdenti spacca-tutto come gli Ibex Throne, che suonano con testa, passione e la giusta dose di "ignoranza". A volte basta anche questo.

INCHIUVATU Piccatu (Inch, 2004)
Dietro una bella copertina legata a doppio filo coi contenuti del disco, si cela l'ennesima grande produzione degli Inchiuvatu, da tempo la one-man band di Agghiastru. Il musicista di Sciacca (Agrigento, Sicilia) è stato tra i primi a tradurre il black metal norvegese in un linguaggio autoctono che esprimesse la cultura della propria terra natia, e ancora oggi gli Inchiuvatu restano un esempio insuperato di originalità e passione. Più nel dettaglio: black/death sinfonico e dai forti accenti folk, cantato in dialetto siculo e pregno di quella drammaticità e quel pathos tipicamente isolani. Ecco allora che le crude storie di "Piccatu" - a base di Eve puttane, incesti, innocenza perduta e bambini come frutti del peccato su cui ricadono le colpe dei padri - finiscono per assomigliare alle storie di un teatrino di marionette, di quei pupi siciliani di cui si vedono i fili, ma non la mano che ne comanda le azioni. Dal punto di vista musicale il nuovo lavoro suona più diretto e crudo, sebbene non manchino momenti di grande atmosfera, come nelle pause melodiche di "Animacula" o in "Curù", sonata per sola voce e piano. Disco bello e profondo, come sempre.

INQUISITION Unholy Inquisition Rites EP (No Colours, 2004)
In attesa del rilascio di "Magnificent Glorification Of Lucifer", terzo album dei grandissimi Inquisition, la No Colours stuzzica l'appetito dei fan con questo EP, contenente registrazioni provvisorie di brani tratti dal nuovo disco. Il tutto limitato a 500 copie numerate a mano. Un'operazione commerciale bella e buona, ci viene da pensare. Ma che importa, se basta a tamponare la nostra fame di Inquisition? Il gruppo colombiano (ormai di stanza negli USA) è assente dalle scene da troppo tempo, perciò di "Unholy Inquisition Rites" abbiamo fatto un sol boccone. Brani come "Crush The Jewish Prophet" e soprattutto "Impaled By The Cryptic Horns Of Baphomet" testimoniano dell'ottimo stato di salute dei Nostri, che qui puntano su composizioni più brevi e dirette. Non sembra esserci spazio per quelle aperture strumentali che aumentavano il pathos dark dei lavori precedenti, e non possiamo negare che un po' ci manchino. Ma siamo sicuri che il cambiamento di rotta non è definitivo, e in ogni caso l'EP in esame è di sicuro un buon ritorno.

INTERNAL VOID Matricide (Dogstreet, 2004)
All’inizio dei ’90 erano tra i gruppi della scena doom del Maryland che la Hellhound Records accolse sotto le sue ali. Il successo non arrivò (figuriamoci: non era arrivato neppure per Saint Vitus e Obsessed!), e dovettero passare anni prima che la Southern Lord li riportasse in superficie pubblicando “Unearthed”. Quel disco portava i segni di una evoluzione stilistica che aveva traghettato la band sulle sponde dei Seventies; e là li ritroviamo ancora oggi. Quindi, “Matricide” non è soltanto doom in senso stretto, come d’altronde non lo erano i Black Sabbath. Della musica del destino non manca ovviamente l’impronta (molte tracce farebbero invidia persino a Wino), ma gli Internal Void del 2004 lasciano anche spazio all’improvvisazione (“Family Under”), alle schitarrate acide di Kelly Carmichael (“World Of Doubt”) e alle evoluzioni del ottimo drummer Ronnie Kalimon, risultando freschi e interessanti in ogni occasione. Il tutto suona classico e sincero come più non si potrebbe, un perfetto equilibrio di potenza e melodia che consigliamo innanzitutto ai fan di Obsessed e Spirit Caravan. Ma anche a chi avesse apprezzato l’ultimo lavoro dei Pentagram, in cui gli Internal Void suonano al gran completo. 

KATHARSIS Kruzifixxion (Norma Evangelium Diaboli, 2004)
Il ritorno dei Katharsis è targato Norma Evangelium Diaboli, già label di Funeral Mist e Deathspell Omega ed un tempo conosciuta come End All Life Records. "Kruzifixxion" è il disco che ne avrebbe dovuto inaugurare la discografia, poi bruciato sul tempo dal full-length dei Funeral Mist. Si tratta in ogni caso di uno dei dischi più attesi degli ultimi tempi, stante il successo underground del suo esauritissimo predecessore vinilico, "666". Se stentate a capire l'entusiasmo intorno alla musica dei Katharsis, provate a dare un ascolto al brano d'apertura, "The Last Wound": chitarre che in scoppi elettrici bruciano l'ossigeno nell'aria; una voce rugginosa avvolta nell'eco, come se fuoriuscisse dalle caverne dell'inconscio; una sezione ritmica tempestosa e inarrestabile; melodie oscure suonate su primitivi monocordi e che accendono un finale in crescendo, su parole blasfeme che inneggiano all'ennesima crocifissione di Cristo. La "catarsi" è compiuta prima ancora di arrivare a metà del disco, e forse è anche per questo che gli altri brani (soprattutto gli ultimi) non sembrano raggiungere le stesse vette espressive delle prime tracce. Forse da una band così osannata ero lecito pretendere qualcosa in più. 

MYRK Icons Of The Dark (Ketzer, 2003)
I Myrk vengono dall'Islanda... e lì possono tornare, per quel che ci riguarda. Il loro "Icons Of The Dark" è disco black metal mediocre e di maniera, tanto musicalmente quanto dal punto di vista di testi che macinano concetti triti e ritriti senza la benché minima scintilla di originalità. Durante l'ascolto si perde concentrazione quasi subito, e solo in occasione di un paio di brani (il conclusivo "The Spell" e la discreta "Our Age Has Just Begun") la band pare riscattarsi, facendo leva su melodie quanto meno comunicative. Ma è troppo poco per consigliarne anche solo un ascolto distratto; troppo poco per salvare "Icons Of The Dark" da un destino infame: quello di accumulare polvere, dimenticato in fondo ad uno scaffale. Ci dispiace per questi cinque sbarbatelli che sognavano di essere gli Immortal islandesi, ma purtroppo di immortale per adesso c'è solo la noia. 

NACHTMYSTIUM Demise (Autopsy Kitchen, 2004)
"Demise" è l'ultima prova degli americani Nachtmystium, che alle spalle vantano una discografia di tutto rispetto. Questo è però l'album della svolta, quello in cui i Nostri dimostrano di avere assimilato per bene la lezione di Judas Iscariot e di saperla mettere in pratica con gusto e personalità. L'impronta stilistica della band di Akhenaten è tuttora riconoscibile, soprattutto in un brano come "The Glorious Moment"; ma altrove - e segnatamente in "Scorpio Incarnate", "Ashes To Ashes" e "Solitary Voyage" - Azentrius e compagni riescono a metterci del loro. In tutti i brani si compie una sorta di percorso catartico, che nel finale di ciascuno di essi raggiunge il suo climax melodico e drammatico. E in tutti i brani i Nachtmystium abbondano in chitarre effettate e intrise d'eco, che sanno di stelle lontane e notti infinite, e che suggeriscono stati d'animo velatamente tristi, come nei grandi capolavori dei '90. Un disco che annulla lo scorrere del tempo e ci riporta indietro di 10 anni come se nulla fosse.

NARGAROTH Rasluka Part I (No Colours, 2004)
Dedicata alla memoria di un amico morto suicida, la serie di "Rasluka" a firma Nargaroth procede a ritroso, offrendo il suo primo capitolo dopo la pubblicazione del secondo. Che gli è di gran lunga superiore. Nargaroth continua ad essere uno degli artisti più sensibili e interessanti del black metal dei nostri tempi, e l'ultimo full-lenght "Geliebte Des Regens", intriso di poesia notturna e melodie malinconiche, sta lì a dimostrarlo. In "Rasluka Part I", però, il Nostro non si impegna più di tanto, e confeziona dei riff decisamente poco incisivi. Grossa problema, considerato che l'artista tedesco ultimamente preferisce composizioni mantriche che si sviluppano su pochi passaggi chitarristici. Solo il brano iniziale, "Trauermarsch" (una marcia funebre doomeggiante e drammatica), riesce a bucare. Il resto annoia non poco, e a nulla vale la specificazione di Kanwulf che i brani di "Rasluka" siano soltanto dei bozzetti, per natura incompiuti. Un passo falso, dunque; ma siamo sicuri che in futuro Nargaroth saprà riscattarsi facilmente.

NATTEFROST Blood And Vomit (Season Of Mist, 2004)
Doveva uscire per l'ottima Selbstmord (già label di Ondskapt, Craft, Leviathan, Bloodline e Shining), ed invece è toccato alla Season Of Mist pubblicare l'atteso disco solista di Nattefrost, mentore dei Carpathian Forest. Nelle intenzioni dell'autore l'album avrebbe dovuto segnare una svolta nel suo percorso artistico, nel segno di un riconquistato primitivismo. Macché! "Blood And Vomit" è sì più primitivo rispetto alle ultime fatiche della band madre (invero eccessivamente barocche a livello di arrangiamenti e scelte di produzione), ma certo è lontano anni luce dalla spontaneità del vero black metal underground. Non basta una produzione un po' meno leccata del solito, un paio di riff per brano (peraltro poco incisivi) e la registrazione di una sua pisciata a conferire al disco l'aura maledetta che vi abbiamo cercato invano... A meno che l'intento di Nattefrost, da bravo satiro quale è sempre stato, non fosse quello di prenderci per i fondelli con un album che nel retro-copertina lui stesso definisce "il migliore del mondo". Capiamo l'attitudine dissacratoria e sporcacciona, ma faccia attenzione a non trasformarsi in una macchietta. 

NEGATIVE REACTION Everything You Need For... (PsycheDOOMelic, 2003)
"Everything You Need For Galactic Battle Adventures": il nuovo album dei Negative Reaction porta un titolo che ben illustra la passione del gruppo newyorchese per la mitica saga di Star Wars; fatto piuttosto curioso, considerando che solitamente i doomsters fanno ricorso a tutt'altro tipo di fonti ispirative. Per il resto, d'altronde, i Negative Reaction rientrano perfettamente nei canoni di uno sludge-doom che non lascia scampo grazie a torbidi gorghi chitarristici, vocals violentissime e schizoidi, e melodie luttuose che la band ogni tanto vivacizza ricorrendo a provvidenziali accelerazioni. Nulla di sconvolgente, ma decisamente ben suonato e congegnato; soprattutto quando il gruppo riesce a rievocare la grandeur heavy-psych di Warhorse e Sleep; oppure il tiro dei Black Flag, in omaggio al suo passato hardcore. Non manca qualche passaggio più quieto (e qualche momento di noia), ma si tratta comunque di eccezioni ad una regola che propende per la celebrazione del nero verbo sabbathiano in chiave estrema. Per pochi coraggiosi.

NEHEMAH Requiem Tenebrae (Oaken Shield, 2003)
Ci siamo avvicinati al terzo capitolo della saga Nehemah con un po' di timore. A fronte di un debutto coi fiocchi ("Light Of A Dead Star") era immediatamente seguito un album interlocutorio come "Shadows From The Past", che spegneva l'entusiasmo di molti. In esso i francesi sembravano aver fatto tutto troppo in fretta, tirando fuori dal cassetto canzoni con svariati anni sul groppone e non impegnandosi più di tanto a dare forma e colore ai nuovi pezzi. "Requiem Tenebrae" è invece l'album della maturità, e probabilmente della definitiva consacrazione della band. In esso fioriscono molti degli spunti contenuti nel debutto, a partire dalla propensione per suggestive divagazioni cosmiche (complice l'uso abbondante di keyboards e testi lovecraftiani) che qui sono nettamente più marcate ("In The Mist Of Orion's Word" e "Through The Dark Nebula", con tanto di clean vocals). E c'è anche una leggera patina depressive, come nella struggente e maestosa "Taken Away By The Torn Black Shroud", cartina di tornasole dell'intero lavoro e tra i pezzi black più belli dell'anno. Da ascoltare ad occhi chiusi.

NOCTERNITY Onyx (Solistitium, 2003)
Lo diciamo subito e senza tema di smentita: "Onyx" dei greci Nocternity è un disco bellissimo, uno dei migliori album black metal degli ultimi mesi. Tutto concorre alla sua riuscita: un artwork zeppo di suggestive foto in bianco e nero che ritraggono i due membri della band in mezzo ai boschi, coperti di armature che loro stessi hanno provveduto a costruirsi. E poi una produzione decisamente azzeccata, che impasta i suoni di chitarra, batteria (suonata da Giona Potenti di Handful Of Hate) e tastiere in modo sublime, esaltando le atmosfere notturne e mistiche di ogni singolo brano. La cifra stilistica dei Nocternity è la stessa del mini-album "Crucify Him", ma stavolta è messa a fuoco meglio; tanto che ogni singolo brano può dirsi perfettamente riuscito e necessario nell'economia interna del disco. Visioni oniriche di draghi sputafuoco grossi come pianeti si alternano a momenti di profondissima quiete, come accadeva in Emperor, Enslaved o Isvind. Ruminazioni cosmiche e bellezza estatica e crudele: ecco cosa troverete nei magnifici solchi di "Onyx", l'opera finora più riuscita di un gruppo destinato a grandi cose.

ORODRUIN Claw Tower And Other Tales Of Horror (PsycheDOOMelic, 2004)
Mossa da sincera passione, la Psychedoomelic Records continua caparbiamente a pubblicare dischi doom uno dietro l’altro, totalmente incurante dei responsi commerciali. Il suo nuovo parto si intitola “Claw Tower And Other Tales Of Terror”, disco ibrido che allinea svariati demo degli americani Orodruin insieme a materiale inedito. Il gruppo si rifà apertamente alla lezione doom di Saint Vitus, Trouble e Candlemass, senza dimenticarsi di doomsters della seconda ondata (quella dei ’90) come Internal Void, Count Raven e i Cathedral più groovy (“Epicurean Mass”). Il loro è però un approccio decisamente più epico e maestoso, ricco di spunti interessanti, belle melodie accattivanti e ottimi arrangiamenti di chitarra (“Creation Through Death”). Gli appassionati (e solo loro) non potranno farne a meno. 

PENTAGRAM Show 'em How (Black Widow, 2004)
Se non conoscete i Pentagram, non conoscete uno dei padri fondatori del genere doom, genere che il gruppo continua a suonare con classe e signorilità. Questa volta a prevalere sono le ascendenza hard rock della musica del destino, piuttosto che le profondità catacombali di certi lavori precedenti. Il recupero del Pentagram-style tipicamente Seventies è stato propiziato dall'ingresso in formazione di due membri degli Internal Void - Kelly Carmichael (chitarra) e Adam S. Heinzman (basso) - e del batterista Mike Smail, già in Cathedral e Penance. Non c'è Joe Hasselvander, ma la sostanza non cambia, e riascoltare a distanza di trent'anni le nuove versioni di "Starlady" e "Last Days Here" (che ha le melodie sognanti di Hendrix e i modi rabbiosi del rock duro dopo di lui) fanno venire le lacrime agli occhi. Ade esse si accompagnano i brividi che procura la voce stregonesca di Liebling, che canta l'acid blues dei Blue Cheer in "Elektra Glide", esorcizza demoni interiori nell'heavy rock belluino di "Wheel Of Fortune" e si abbandona alle note dolenti di "If The Winds Would Change" e soprattutto "Prayer For An Exit Before The Dead End", che alla fine s'impenna su un assolo miagolante del bravo Carmichael. Per il futuro, cari Pentagram, mostrateci ancora come fare, ché ne avremo sempre voglia. 

PLACE OF SKULLS With Vision (Southern Lord, 2003)
Il secondo album dei Place Of Skulls concretizza il sogno di molti appassionati di doom rock: quello di ammirare all'opera su uno stesso disco due pesi massimi del genere, vale a dire Scott "Wino" Weinrich (The Obsessed, Spirit Caravan, Saint Vitus) e Victor Griffin (Pentagram). Che non si sono limitati ad incrociare le asce nei solchi di "With Vision" (e potete immaginare i loro botta-e-risposta), ma hanno confezionato brani all'altezza della loro fama semi-leggendaria, andando persino oltre. Si resta infatti stupiti di imbattersi in tracce come "Long Lost Grave", che mostra un lato del songwriting di Wino - quello più melodico e vicino alla forma canzone - che non sempre è emerso con altrettanta chiarezza in occasioni passate; tanto più che nel resto del disco il suo apporto è decisamente più oscuro e tormentato ("Wilfully Blind", "The Watchers"). E si prende inoltre atto dei miglioramenti incredibili a cui è andato incontro Victor Griffin, sia in veste di scrittore (notevolissime le sue "Silver Cord Breaks" e "Nothing Changes") che in veste di cantante. "With Vision": l'ennesima grande lezione doom da chi il doom lo ha inventato. 

RAMESSES/NEGATIVE REACTION S/T - Split EP (PsycheDOOMelic, 2004)
Ancora un’uscita intitolata ai Negative Reaction, che dividono questi solchi digitali coi debuttanti Ramesses, band formata dalla ex-sezione ritmica degli Electric Wizard. Ovvio che tutti gli occhi (e le orecchie) siano puntati su questi ultimi. Le due nuove composizioni dei Negative Reaction sono scritte con grande inventiva e contengono splendide svisate acide (“Nod”), sulla linea di quanto proposto dagli ultimi Sleep o – ancora meglio – dai Cavity di “Supercollider”. I Ramesses contribuiscono invece con le due composizioni originariamente contenute su un 7” in edizione limitata, stampato dalla stessa Psychedoomelic. La discendenza “wizardiana” si avverte sin dalle prime note di “Master (Your Demons)”, che ci ripiomba nel clima oscuro e violento di “Dopethrone”, addirittura aggiungendo accelerazioni devastanti che danno un tocco black metal al tutto e che seppelliscono sotto una coltre di feedback un’indole psichedelica che pure è presente. “Ramesses II” conferma l’impressione iniziale, complice la brutale performance vocale di Adam Richardson. 

REVEREND BIZARRE Harbinger Of Metal (Spinefarm, 2004)
"Harbinger Of Metal" è un EP... lungo 74 minuti. Se conoscete già i Reverend Bizarre c'è poco di che essere stupiti: la band finlandese ha alle spalle un debutto altrettanto lungo ("In The Rectory Of Reverend Bizarre"), e questa nuova fatica non viene considerata un'emissione sulla lunga distanza per il solo fatto che contiene tre canzoni vere e proprie accompagnate da altrettanti brevi strumentali che fungono da collante tra una traccia e l'altra, creando la giusta atmosfera e permettendo a chi ascolta di tirare il fiato. Che vi verrà a mancare mentre cercherete di arrivare in fondo a "From The Void" (20 minuti), "The Wandering Jew" (18 minuti) e "Strange Horizon" (circa 14 minuti), in cui il doom di Black Sabbath, Candlemass, Saint Vitus, Revelation e Count Raven viene portato alle estreme conseguenze. La chitarra di Albert Witchfinder agli assolo preferisce riff discretamente articolati e di grande coinvolgimento emotivo, che si ripetono uno dietro l'altro in modo ossessivo. Una voce maestosa e solenne recita sermoni e litanie oscure, mentre la batteria si produce addirittura in torrenziali assolo che riprendono la tradizione di Bonzo (ricordate la "Moby Dick" dei Led Zeppelin?) e dei grandi drummer dei '70. In chiusura, un sentito omaggio a Burzum, di cui viene ripresa la splendida "Dunkelheit", offerta in una versione al rallentatore quasi più gravida di mistero e poesia notturna dell'originale. 

SAINT VITUS V (Southern Lord, 2004)
Saint Vitus: a vent’anni di distanza dalla loro formazione, e a dieci dallo scioglimento, questo nome è ancora sinonimo di grande doom… e di grandi rimpianti. Avrebbero potuto continuare la loro “lenta corsa” come Wino sta tuttora facendo, invece nel 2003 hanno preferito riunirsi col mitico singer del Maryland suonando soltanto un paio di show per dire addio ai fan. La ristampa del quinto lavoro sulla lunga distanza, “V” (originariamente pubblicato da Hellhound/Roadrunner nel 1989) non fa che aumentare la nostalgia, dato che offre un’appendice video contenente il primo show della band con Wino in formazione. Si tratta di 30 minuti girati in modo amatoriale da Larry Lally dei Fatso Jetson, e con una scaletta da cardiopalmo che lasciamo alla vostra scoperta. Diremo solo che è stato commovente vedere Dave Chandler mentre addenta la sua chitarra (neanche fosse Jimi Hendrix!), mentre un Wino sbarbato e vestito di pelle si attacca all’asta del microfono facendo ondeggiare la lunga criniera... Quattro brutti Hell’s Angels drogati fino al midollo: ecco cosa sembravano i Saint Vitus nel 1986. Il disco, invece, è patrimonio storico della musica del destino, pur non raggiungendo i vertici di opere come “Born Too Late”, “Mournful Cries” e “Die Healing”. I capolavori qui si chiamano “Patra”, “Ice Monkey”, “I Bleed Black” e soprattutto “When Emotion Dies”, in cui la band si cimenta con un brano acustico affascinante, diretto discendente di quegli intermezzi strumentali di cui i Black Sabbath infarcivano i primi dischi.

SATANIC WARMASTER/CLANDESTINE BLAZE S/T (Northern Heritage, 2004)
Intrigante l'idea della Northern Heritage di rinchiudere due dei migliori acts del suo roster, Satanic Warmaster e Clandestine Blaze, nello stesso studio per vedere cosa uscisse fuori da una collaborazione del genere. Non lo è altrettanto il risultato finale, che suona come un compromesso tra il black oscuro dei primi e l'inclinazione thrash dei secondi. Di per sé un compromesso non è una gran bella cosa, ma appassionarsi a brani comunque accattivanti come "My Torments" o "Conspiring Winds Of The Abyss" non è poi così difficile, una volta smaltita la delusione per ciò che sulla carta sembrava promettere scintille. Solo "Sacrificial Fires" appare assolutamente inconsistente e arriva alla sua fine prima ancora di decollare, mentre il resto si assesta su livelli appena sufficienti, compresi i due brani suonati in solitudine dalle rispettive bands e posti in coda al disco. 

SHEPHERD The Coldest Day (Exile On Mainstream, 2004)
A quanto pare “The Coldest Day” è il canto del cigno dei tedeschi Shepherd, scioltisi poco prima della pubblicazione del disco ad opera della Exile On Mainstream, label gestita dal cantante Andread Kohl e che si appresta a rilasciare l’opera seconda degli Hidden Hand. Non sottolineamo a caso il legame che intercorre tra il musicista e la band di Wino, dato che gli Shepherd nascono come tributo al doom di Obsessed, Saint Vitus e Spirit Caravan. Lo evidenziano proprio i 3 brani a cui Wino presta chitarra o voce, e a cui ha impresso la sua impronta stilistica. Ma gli Shepherd dimostrano di saperci fare anche senza di lui, nonostante la qualità dei riff non sia sempre all’altezza della situazione. Sopperiscono però con un songwriting sufficientemente variegato, un’impronta epica à la Candlemass e un approccio decisamente moderno. Peccato solo che – con l’esclusione di una manciata di brani – non riescano a coinvolgere più di tanto. Non malvagi, ma un po' noiosi. 

SLEEP Dopesmoker (Tee Pee, 2003)
Nello scorso decennio i californiani Sleep sono assurti al rango di cult-band grazie alla pubblicazione di "Sleep's Holy Mountain" (Earache, 1993), caposaldo immancabile in ogni discografia doom che si rispetti. Il promo venne servito alla stampa con l'aggiunta di una speciale "cartina Sleep" (chiaro invito all'uso di droghe leggere durante l'ascolto), mentre sul retro di copertina il trio si faceva ritrarre nell'atto di consumare un "cannone", immerso in una giungla di foglie di marijuana. Nel disco la band scatenava un maelstrom elettrico zeppo di fughe psichedeliche e riffoni sabbathiani, e i fortunati che hanno potuto assistere ai loro concerti raccontano di set infuocati, pesanti oltremisura, con il drummer Chris Hakius a muoversi come un tarantolato dietro alle pelli, il bassista/cantante Al Cisneros concentrato sul suo sballo e il chitarrista Matt Pike (oggi negli High On Fire) in pose heavy metal. Già nel '94 la band annunciava di aver composto un nuovo album, "Dopesmoker", contenente un'unica lunga traccia. Poi, la notizia che la Island li aveva messi sotto contratto. Ma non c'era da temere un ammorbidimento del sound: gli Sleep non si piegarono ai dettami della major e per registrare l'album - ribattezzato "Jerusalem" - spesero più di quanto avessero a disposizione. Messo alla porta, il trio si sciolse anche per inevitabili contrasti interni, ma prima riuscì ugualmente a stampare il disco in proprio, in formato CD e limitato a sole 500 copie. Le richieste dei fan furono però così pressanti da convincere Music Cartel (negli States) e Rise Aobve (in Europa) a rendere "Jerusalem" disponibile per tutti. Oggi, invece, la Tee Pee dà alle stampe proprio la sua prima versione, "Dopesmoker" (col suono originariamente pensato da Billy Anderson!), che si allunga per ulteriori 11 minuti ed è seguita da una bella traccia dal vivo ("Sonic Titan") che il combo non fece in tempo a registrare in studio... Nonostante la febbre stoner sia scesa sensibilmente, ancora adesso è difficile dare una valutazione oggettiva ad un lavoro così estremo e criptico, ma allo stesso tempo intenso ed affascinante. Comunque la pensiate, è un pezzo di storia da portarsi a casa. 

SPIRIT CARAVAN The Last Embrace (People Like You, 2004)
A farci rimpiangere lo scioglimento prematuro degli Spirit Caravan contribuisce questa raccolta ricca di materiale interessante. I due album dati alle stampe dalla doom band americana, "Jug Fulla Sun" e "Elusive Truth", sono rappresentati praticamente in toto, sebbene di alcuni episodi si sia giustamente ricorso a versioni alternative tratte da 7" fuori catalogo o da compilation di scarsa reperibilità. "Courage" e "Lost Sun Dance" sono ad esempio tratte dal primo mitico EP vinilico degli Shine (originaria incarnazione dei Caravan), mentre "Powertime" proviene dalla raccolta "Metal Injection". In tutti e tre i casi il suono risulta caldo e corposo, e la resa finale decisamente superiore a quella delle versioni presenti su "Jug Fulla Sun". Due tra i più significativi titoli di "Elusive Truth", "Darkness & Longing" e "The Departure", sono invece tratti rispettivamente da un 7" split con gli amici Sixty Watt Shaman e da una nota compilation stoner di Rise Aobve ("Rise 13"). Ma il pezzo forte di "The Last Embrace" è da ricercare nella presenza di "So Mortal Be" e "Undone Mind" (dall'ultimo EP ufficiale della band) per la prima volta su CD e soprattutto da ben tre inediti di qualità eccelsa. Il primo dà il titolo all'album e apre le danze in modo imprevedibile, grazie ad impasti elettroacustici che Wino e compagni hanno utilizzato in poche altre occasioni (per esempio in "No Hope Goat Farm"), mentre "Dove-Tongued Aggressor" e "Brainwashed" ripetono classici canovacci doom/heavy rock con la solita, impressionante solista di Wino a dettare legge. Indimenticabili. 

SPIRITUS MORTIS S/T (Rage Of Achilles, 2004)
Per il genere doom sembrano riaccendersi le luci dei riflettori. Era già successo nel momento di massimo fulgore dello stoner, complice il ritorno sulle scene di personaggi e gruppi cardine come Wino e Pentagram, che hanno riaperto la strada a giovani formazioni underground. Oggi addirittura spuntano come funghi etichette totalmente dedite alla musica del destino, mentre una ristretta ma inossidabile cerchia di appassionati partecipa a festival a tema, come il recente "Doom Shall Rise" che ha avuto luogo in Germania. Ad esso hanno preso parte anche gli Spiritus Mortis, ora su Rage Of Achilles Records. Il loro album omonimo suona come un tributo a Candlemass e primi Trouble. Inutile stare a descrivere il sound della band, che si esprime secondo i più classici canoni del genere e che non avrete difficoltà ad immaginare. Va però sottolineato un approccio classicamente NWOBHM alla materia, evidente in brani come "Now To The Sun", con una carica epica e melodica (accentuata spesso da keyboards) che non può non riportare alla mente certi capostipiti dimenticati del genere come i Cirith Ungol. Curiosamente, l'atmosfera da heavy metal tipicamente Eighties fa di "Spiritus Mortis" un disco ancor più anacronistico che se fosse stato influenzato dai Sabbath e altri gruppi di una decade prima. Unitamente ad una lunghezza eccessiva (ben 14 i brani in scaletta), è questo il motivo per cui consigliamo il disco ai soli estimatori del genere. 

THORR'S HAMMER Dommedagsnatt (Southern Lord, 2004)
I Thorr’s Hammer nascono a cavallo tra il ’94 e il ’95, quando Steve O’Malley e Greg Anderson – forse affascinati da quanto stava accadendo nella Norvegia black metal – decidono di mischiare il loro doom mortifero ed ultra-estremo coi vocalizzi growl di Runhild Gammelsaeter, nativa di Oslo e temporaneamente ospite americana in un sobborgo di Washington. A dispetto delle belle fattezze, la Gammelsaeter – che cantava in lingua madre – sfoggiava una voce a dir poco impressionante (“Troll”). Ma che comunque alternava a clean vocals di grande effetto (“Norge”), creando atmosfere sinistre intorno al metal sferragliante di O’Malley e Anderson, in grado di toccare profondità subsoniche inaudite. A ben guardare, si trattava di un’anticipazione di quanto poi proposto dal duo in progetti come Burning Witch, Khanate e Teeth Of Lions Rule The Divine. Per questo motivo “Dommedagsnatt” assume oggi importanti connotati storici, oltre a rappresentare un ottimo disco di musica estrema e underground. A causa del ritorno in patria di Runhild, la band si sciolse dopo appena sei settimane e due live show, dei quali resta traccia nel video di oltre mezz’ora presente in questa ristampa. 

THUNDERSTORM Faithless Soul (Dragonheart, 2004)
Il suono di campane distanti che minacciano sventura e lo spirare del vento in sottofondo. Quello che stiamo ascoltando non è il primo album dei Black Sabbath, ma il terzo dei Thunderstorm, che non si vergognano di citare Ozzy e compagni come hanno fatto in centinaia prima di loro. “Faithless Soul” è il loro lavoro migliore. Se “Templars Of Doom” e “Black Light” sono tipici mid-tempo nella migliore tradizione di Candlemass e dei Saint Vitus di “Die Healing”, la cavalcata di “Forbidden Gates” evidenzia aperture più decise verso la NWOBHM degli ’80 (nel cui contesto il doom è venuto alla luce), per poi abbandonarsi ad una coda gotico-psichedelica con vocals epiche tutt’altro che stucchevoli. Roba che non ha nulla da invidiare ai campioni attuali del classico doom metal anni ‘80, i Reverend Bizarre. E se i loro cugini finlandesi coverizzano Burzum, i Thunderstorm rispondono con una potente versione (condensata in 4 minuti) di “In A Gadda Da Vida” degli Iron Butterfly, il prototipo di ogni brano heavy. A provarne una interpretazione doom ci avevano già pensato i Church Of Misery, così i Thunderstorm spingono sull’acceleratone evitando di farne un prevedibile polpettone a base di tempi ultra-lenti. Che tornano nei restanti brani fino al gran finale di “Narrow Is The Road” (oltre 9 minuti), in cui viene raggiunto l’apice grazie ad una melodia oscura e malinconica che è l’essenza del doom metal. Forse ancora un po’ scolastici, ma indubbiamente bravi. 

THY PRIMORDIAL Pestilence Upon Mankind (Blackend, 2004)
Gli svedesi Thy Primordial non sono mai stati dei campioni di originalità. Lo confermano le prove precedenti, devote ad un black-death metal di stampo svedese che trova in Dark Funeral, Setherial, Dissection e Marduk i suoi esponenti più illustri, oltre che le loro fonti di ispirazione più palesi. Eppure i dischi dei Thy Primordial sono sempre stati competitivi e accattivanti, ben scritti e suonati, in grado a volte di dare del filo da torcere ai colleghi di cui sopra. Con "Pestilence Upon Mankind" registriamo però un preoccupante cambiamento di rotta. Complice l'ingresso in formazione di un nuovo singer decisamente più propenso al growl che al tradizionale screaming black, la band ha imbastardito ancora di più la sua proposta, infarcendola di riff death old-school che soffiano sulla fiamma nera come per spegnerla. Li avremmo perdonati - come abbiamo perdonato altri blacksters datisi al death (chi ha detto Behemoth?) proprio perché il genere in discorso è sempre stato parte integrante del loro suono e del loro DNA. Ma "Pestilence Upon Mankind" non è neppure un bel disco death: riesce a piazzare pochi brani degni di nota ed emoziona poco o per nulla. 

UFOMAMMUT Snailking (Music Cartel, 2004)
Atteso per quattro lunghi anni, finalmente arriva “Snailking”, nuovo lavoro degli Ufomammut. Dopo lo straordinario debut “Godlike Snake” su Beard Of Stars Records, la band di Tortona incide adesso per Music Cartel (che in America stampa i prodotti Rise Above) ed è assurta a punto di riferimento dello space-doom al fianco di Sleep ed Electric Wizard. In realtà gli Ufomammut non suonano doom, space rock o stoner in senso stretto, ma costituiscono un pianeta a sé, che orbita attorno a questi generi vivendo però in una dimensione tutta propria. Di “Snailking” colpisce subito la copertina in bianco e nero: si stenta a riconoscerne la paternità al Malleus Studio, che dell’uso di colori rutilanti ha fatto il suo marchio di fabbrica nel mondo... Ma non temete, i colori sono dentro ai brani, e sono quelli bui e allo stesso tempo accecanti dello spazio profondo. Che poi si tratti realmente del cosmo stellato o piuttosto dei più intimi recessi dell’anima (come suggeriscono le melodie malinconiche di “Lacrimosa”, forse una love-song) ha poca importanza, perché gli Ufomammut danno voce ad entrambi, accomunandoli. Una voce che giunge lontana come le vocals di Urlo, affogate nel mostruoso e avvolgente tessuto sonoro a base di gigantesche chitarre distorte e da inquietanti melodie di synth che sembrano i messaggi minacciosi di chissà quale divinità aliena pronta a divorare il nostro mondo (“Blotch”, “Hopscotch”, “God”). Melodicamente più introverso e cupo del suo predecessore, “Snailking” trova il suo apice nei 28 minuti di “Demontain”, che si slabbra a più riprese in atmosfere dark-ambient, per coagularsi infine attorno a belle armonie psichedeliche. È il temibile “serpente divino”, che riavvolge le sue spire dopo averci stritolati e che – come il cosmo – ci guarda indifferente, un occhio su ognuna delle sue scaglie... 

UNEARTHLY TRANCE Season Of Seance, Science Of Silence (Music Cartel, 2003)
Interessante lavoro, questo dei carneadi americani Unearthly Trance, che si rivolgono ad un pubblico di cultori dello sludge-doom più crudo e brutale, che in "Season Of Seance, Science Of Silence" contaminano addirittura con interessanti vocalizzi black metal. Chi nutrisse dubbi dia un'occhiata all'evocativa copertina in bianco e nero (che pare rubata ai Darkthrone) o scorrere i testi dei sei brani qui raccolti, infarciti di misticismo e paganesimo. Ne è un esempio "Raised By The Wolves", traccia iniziale e cartina di tornasole dell'intero lavoro: stordisce dapprima con ritmi ultra-slow e vocals grattugiate, poi esplode in un'accelerazione groove à la Celtic Frost con tanto di assolo deragliante. Il resto del disco si muove sulla medesima falsariga, lasciando trapelare poca luce all'interno di brani massicci e volutamente impenetrabili (provate a sopravvivere all'estenuante lentezza di "Mass Of The Phoenix" o di "Wandering Winter Winds"). In pratica, un gruppo sludge-doom che rifà i Darkthrone di "Panzerfaust", come li ha descritti Steve O'Malley dei Khanate, qui in veste di produttore. Gli amanti del doom estremo non potranno fare a meno di questo disco, ma un ascolto attento è vivamente consigliato anche agli estimatori del metallo nero. 

URFAUST Geist Ist Teufel (Goatowarex/Christcrusher, 2004)
Con in formazione un membro dei Fluisterwould, gli Urfaust suonano un black metal atipico e dalle fosche tinte depressive, sebbene il termine risulti in questo caso non del tutto appropriato. A parte un incedere generalmente lento e funereo, in loro c'è sicuramente la stessa adorazione della notte propria del Burzum del periodo di mezzo, accompagnata ad una produzione ridotta all'osso e ad una poetica ancor più dolente e fatalista. Lo strumento angosciante per eccellenza è la voce, che alterna lo straziante screaming burzumiano a passaggi quasi operistici, insieme drammatici e magniloquenti. Non si tratta però di un "bel canto", quanto di vocalizzi strascicati, come se si trattasse delle invettive insensate di un ubriacone dal cuore infranto, impegnato a smaltire la sua sbornia colossale sotto lo sguardo indifferente della luna. Pura poesia nera, insomma. Altrove gli Urfaust ricorrono a melodie folkeggianti che continuano a suggerire eccessi alcolici di ogni sorta, mentre nel finale ci fanno mandare giù in un sol sorso un lungo strumentale atmosferico senza capo né coda, ma di grande fascino dark. Non un ascolto facile, ma è proprio per questo che ci è piaciuto tanto.

VOODOOSHOCK Voodoom EP (PsycheDOOMelic, 2004)
Ne avevamo già avuto sentore in occasione del debutto omonimo di poco più di un anno fa, e il nuovo EP “Voodoom” ce ne ha dato conferma: Wino è molto più che un idolo per il chitarrista/cantante Uwe Groebel (un tempo nei Naevus, autori di un disco non proprio memorabile per la Rise Above). Così, questa nuova fatica fa perno su rifferama e vocals obliquamente melodiche (“Amazing Fire”, “Living In Paradise”), in un’ovvia rivisitazione degli stilemi tipici di Obsessed, Spirit Caravan e Hidden Hand. I Voodooshock tentano però di mischiare le carte in tavola coverizzando (in modo egregio) “Patra” dei Saint Vitus e strizzando l’occhio ai Cathedral, ma Uwe non riesce a raggiungere le vette espressive che la voce di Wino si può permettere, né possiede il carisma interpretativo di Lee Dorrian. La stoffa c’è, ma dopo un discreto debutto omonimo dai Voodooshock ci aspettavamo qualcosa di più sostanzioso.

VULTURE LORD Profane Prayer (Agonia, 2003)
Sono una delle band storiche del black norvegese, eppure in pochi li conoscono. Il fatto è che i Vulture Lord sono arrivati al debutto molto tardi, e crediamo che a poco servirà questa riesumazione ad opera di Agonia Records, che passerà ancora una volta inosservata in mezzo al marasma di uscite black. Peraltro i Vulture Lord stessi, per bocca del leader Baron Northgrove (ritratto a volto coperto ed armato fino ai denti), aderiscono alla scena in modo trasversale, stante le loro stesse dichiarazioni sul genere suonato: "death metal", ossia metal della morte, nel senso etimologico del termine. In realtà si tratta di un black-thrash maligno e blasfemo, iniettato di formidabili groove ("Emancipate The Dogs Of War") o perniciosi rallentamenti ("Burn Me At The Stake", "Disciple Of Death"), e che in certe tracce come "Riding The Demon" e "Deathfuck" addirittura presagisce certe derive black'n'roll e certe tematiche in odore di sadismo tanto care ai Carpathian Forest. Inutile dire che ci troviamo di fronte ad un disco eccezionale. 

VV.AA. Dreams Of What Life Could Have Been (PsycheDOOMelic, 2004)
“The ultimate sludge compilation”, recita il sottotitolo di questa bella raccolta della PsycheDOOMelic Records. Non è la prima del suo genere, e gli appassionati ricorderanno la splendida comp “South Of Hell” (Berserker Records, 2000), con dentro eccezionali gruppi underground come Dove e Icepick Revival. Ma “Dreams Of What Life Could Have Been” è sicuramente un ottimo compendio per capire (e temere) lo sludge-doom dei nostri giorni, qui interpretato da una manciata di campioni del genere. A partire dai seminali Grief di “Ostrich” e “Bored”, tra gli “inventori” del genere. E dunque influenza determinante per i nuovi adepti qui presenti, ossia Soulpreacher (svelati al mondo dalla Man’s Ruin), Moss, Fistula e Thee Plague Of Gentlemen, tutti all'altezza della situazione. Non potevano mancare i Negative Reaction e ovviamente i nuovi signori dello sludge, i Ramesses, che offrono all’ascolto un oscuro monolite doom-psych di 10 minuti intitolato “Black Domina” e che finora è il migliore brano pubblicato dal trio inglese. Da solo vale senza dubbio il prezzo della raccolta.

WITCHCRAFT S/T (Rise Above, 2004) 
Sull''omonimo debutto i Witchcraft compiono il miracolo di far incontrare - senza scontrarsi - mondi apparentemente inconciliabili come quelli dei primi Pentagram e dei 13th Floor Elevators. Ossia il gloom sound della band di Bobby Liebling e la timbrica allucinata di Roky Erickson... roba da pazzi! Eppure ai quattro svedesi il gioco riesce perfettamente in una manciata di episodi, a partire da quella "No Angel Or Demon" già uscita sotto forma di 7" sulla piccolissima Primitiva Art Records e che valse loro il contratto con la Rise Above di Lee Dorrian. Il resto è pressoché alla stessa altezza: la title-track, "I Want You To Know" e "It's So Easy" battono medesime strade, tanto che sembra di immaginare i Black Sabbath del disco omonimo fare un passo indietro e tornare nei Sixties, per sempre convertiti alle melodie ombrose e acide di "Easter Everywhere" (capolavoro degli Elevators). Ma in "Please Don't Forget Me" (cover di Stone Bunny, formazione pre-Pentagram) e "Her Sisters They Were Weak" emergono anche echi lontani di Black Widow, della teatralità prog del loro immenso "Sacrifice" e in genere del "dark sound" progressivo dei '70. L'unico neo del disco è rappresentato da una produzione povera che, se da un lato gli conferisce il fascino dei grandi heavy rock album di trent'anni fa, dall'altro penalizza quantomeno la voce del singer, che non è certo dotato. Poco importa: "Witchcraft" è un ottimo disco, il perfetto biglietto da visita per una band che - ci giureremmo - diventerà presto grande. O si trasformerà in un piccolo culto underground, destinato a durare nel tempo come la musica da cui trae ispirazione.

Nota per il lettore: i dischi recensiti in queste pagine sono stati acquistati, mentre solo una piccola parte consiste in materiale promozionale, che è e resterà in nostro esclusivo possesso. "I, Voidhanger Magazine" è contrario a qualunque forma di sfruttamento e di pirateria che possa danneggiare i gruppi e/o le etichette discografiche underground.

torna al sommario