La letteratura italiana ha/a più voci

Davide Bregola - Leggendo recensioni ai libri usciti ad opera di scrittori stranieri che scrivono in italiano, mi è capitato di incontrare pareri discordi tra i critici. C'è chi vede la questione in senso positivo, valutando l'opera con aggettivi incoraggianti e chi, più cauto, parla di grossi difetti di costruzione e di scrittura, di scrittori che poi non sempre scrivono capolavori. Tu come la vedi?

Dario Voltolini - Io penso che l'atteggiamento migliore dovrebbe essere quello di considerare il testo a prescindere dalla provenienza dell'autore o dell'autrice. Ma so anche che questo non è possibile. Non si fa così nemmeno per gli autori italiani. Allora, come modo di fare pragmaticamente inteso e non teoricamente fondato, io dico che sarebbe una buona cosa avere un occhio orientato più sui meriti che sui difetti. Non fosse altro che per un senso extraletterario di ospitalità. Bisogna dare a chi sceglie per esprimersi la nostra lingua qualcosa di simile a un benvenuto. Sono tutte voci che ci faranno – se già non ci fanno – un gran bene.

Ron Kubati - Come ogni letteratura o corrente letteraria ha anche questa scrittori bravi o meno bravi. Non mi considero un esperto di questa corrente letteraria di cui farei parte. Ho potuto però leggere cose che mi sono piaciute molto. Tu mi hai già rivolto una domanda sui libri “ben fatti”. I presunti “difetti di costruzione” sembra ricalchino la stessa questione e qui tiriamo in ballo il percorso formativo degli scrittori non nati in Italia. La costruzione di un testo potrebbe essere agevolata dalle sovrastrutture letterarie insegnate in tutte le scuole e università occidentali. Ma potrebbe essere anche un impedimento. La libertà da simili sovrastrutture potrebbe avere invece un doppio risvolto. In mezzo ai tanti che sperimentano è assai probabile che salti fuori una costruzione del tutto originale, più vicina all’accadere concreto del mondo. I capolavori, proprio perché migliori di tanti altri, sono rarità, eccezioni.

 Candelaria Romero - La questione della qualità e dei difetti della scrittura di chi è straniero ma scrive in italiano è un problema che va discusso a monte. Rispondo alla domanda con altre domande: perché uno scrittore straniero decide di scrivere in italiano? Perché decide di abbandonare, anche solo per l’attimo creativo della scrittura,  la sua madrelingua? Lo fa per essere più accettato? Accettato da chi? Perché riceve più visibilità in questo modo? Che tipo di visibilità? Forse aumentano in questo modo le possibilità di pubblicazioni? Che tipo di pubblicazioni e con quali riscontri da parte dei critici? A questo punto nascono altri dubbi; ma lo scrittore straniero, si sente veramente rispecchiato nella sua integrità socioculturale scrivendo nella lingua di Dante? Se la risposta a quest’ultima domanda è si; come è possibile questo processo interiore? Cosa è successo perché uno scrittore arrivi alla decisione di scrivere in una lingua diversa dalla sua madrelingua? Dall’altra parte; quali sono i problemi che si riscontrano se uno scrittore decide di continuare a scrivere in madrelingua, pur trovandosi in un altro paese, pur magari avendo una profonda conoscenza della lingua italiana? Negli anni 80’ i miei genitori, tutti due argentini e già scrittori nel loro paese d’origine, si ritrovarono esiliati politici in Svezia. I problemi con la lingua erano seri. Come fare per continuare a scrivere? Crearono una loro casa editrice che pubblicò solo libri in lingua spagnola. Ricevettero premi e segnalazioni per le loro opere pubblicate, furono riconosciuti nella schiera degli intellettuali svedesi, diventarono anche loro scrittori svedesi, dopo 25 anni d’esilio, ma scrissero sempre nella loro madrelingua. Dicevano che solo cosi, nella loro lingua, potevano esprimersi al meglio. Tradussero dallo svedese allo spagnolo poeti svedesi e ricevettero buone critiche da parte del pubblico svedese e di lingua ispanica. Certamente non diventarono mai famosi e conosciuti per il vasto pubblico, ma forse questo non era nei loro traguardi. La mia storia è diversa; non ho una madrelingua che conosco in profondità, o meglio, dire che né ho tre che pratico ad un buon livello. Ma questo è il risultato dei troppi viaggi e la guerra quotidiana nel cercare di mantenere questi tre mondi dentro di me è dura e magari persino impossibile. C’è un pizzico d’invidia nel vedere chi è profondo conoscitore della sua madrelingua, residente nel suo paese d’origine, pure scrittore ma non creatore di grande opere letterarie…I dubbi sono tanti quante le possibile risposte e magari la via verso la diffusione e la conoscenza delle opere degli migrant writers  va attraverso altri sentieri, non ancora calpestati, non ancora scoperti e nemmeno tanto considerati dalla nostra società.

Tahar Lamri - Cominciamo dai pessimisti: è vero, bisogna ammetterlo, gli scrittori stranieri che scrivono in italiano, per il momento non scrivono capolavori, anche se è vero che, al momento, neppure gli scrittori italiani scrivono capolavori. Ma è vero che nella prosa prodotta dagli scrittori immigrati ci sono grossi difetti di costruzione e di scrittura, ma come può essere altrimenti se quasi tutti scrittori soltanto pochi anni fa, balbettavano le loro prime parole in italiano. Per paradosso direi che questi difetti fanno la forza di questa letteratura, in quanto liberano la letteratura italiana, degli ultimi anni dai manierismi, dai compiacimenti, dai barricchismi e dai tamarismi. Finalmente! Era ora. Anche il Manzoni parlava e scriveva male in italiano (toscano). Dopo dieci anni di fatiche immane, ha partorito la prima stesura – settentrionale - dei “promessi sposi”, l’ha dovuta riscrivere in toscano per poterla pubblicare. Eppure …
In quanto agli ottimisti, ho avuto modo di frequentarli e ho visto che tanti non sono sinceri nel loro ottimismo, ed alcuni tendono addirittura a presentare la letteratura dell’immigrazione come la nuova era della letteratura italiana, come se i due modi di far letteratura fossero antagoniste o in competizione. In realtà questi nuovi scrittori vengono ad affiancare gli scrittori “italiani”  ed insieme si fa la lingua italiana.
Ho notato una cosa curiosa: c’è più interesse all’estero (specie negli Stati Uniti ed in Inghilterra) per queste nuove forme letterarie che in Italia. E’ un segno?

Alberto Masala - Trovo che chi rivolge lo sguardo alle imperfezioni dello stile o della sintassi non abbia una visione estesa della letteratura contemporanea, italiana o mondiale.
L’inglese è stato riscritto da indiani, pakistani e giamaicani… l’americano da nuyoricans, italiani e neri di tutte le provenienze… il francese da gente del maghreb e dei caraibi… il portoghese da brasiliani, angolani, mozambicani… lo spagnolo da tutti, compresi gli indios… E l’italiano? Esiste l’italiano? Quale? Quello di Verga o quello di Manzoni? Quello dei milanesi o quello dei siciliani… se dovessi basarmi sulla ricchezza lessicale dei nostri media, direi che l’italiano lo stanno riscrivendo Bush e i giornalisti della CNN: i sammit, i vari finali in éscion, i giorni che si chiamano dèi … (scrivo in italiano, cioè come si pronuncia)
Trovo che la paranoia generalizzata che investe tutti gli ambiti del nostro quotidiano non stia risparmiando neanche la cultura, che diventa piccola piccola, sempre più nevroticamente autoreferenziale e sempre più piena di sensi di inferiorità, di frustrazioni. L’italiano medio oggi vive felicemente un senso di impotenza espressiva.
Senza nemmeno riuscire a vedersi riprodotto nell’impietoso specchio delle sue brame.
In quanto a me… non mi riguarda. Ho una lingua madre molto bella e ricca, il sardo dell’interno, che ha anch’essa i suoi problemi. Ho, come Ben Jelloun, Adonis, Linton Qwesi Johnson, Kavafis, Ngugi wa Thiong'o…, una cultura linguistica indotta che  ho acquisito agilmente e volentieri e di cui riconosco la grandissima matrice. Questo mi fa rimanere tranquillo davanti al “pericolo” di contaminazioni e, anzi, me ne fa auspicare l’avvento: ogni cultura ed ogni lingua che incontro costituisce una enorme ricchezza e mi fornisce nuovi elementi ritmici, musicali, espressivi.
Inoltre, da osservatore di frontiera, vedo con relativo distacco la paura di questo occidente inespressivo, che, salvo poche eccezioni, non sa più narrare, non ha rapporti con l’etimo di ciò che pronuncia…. Ciò che viene di nuovo in letteratura oggi arriva dai margini dell’impero, dagli “altri”… quelli in cui mi riconosco naturalmente.

Piersandro Pallavicini - Credo che si dovrebbe semplicemente giudicare un libro per quello che è. Che bisognerebbe leggere un libro con l’occhio del critico ma prescindendo dal nome e cognome e dalla biografia che si porta dietro l’autore. Poi se il libro risulterà un bel libro se ne dirà bene, se risulterà un’opera mediocre se ne dirà male. Indipendentemente dal fatto che l’autore sia nato in Italia o altrove o abbia scritto in italiano o sia stato tradotto.
Poi, certo, capisco bene come ci possa essere una sorta di trasporto, di empatia nei confronti dell’autore (e dunque della sua opera) conoscendone invece la biografia, riconoscendo in lui/lei la figura dell’immigrato, e magari proiettandoci sopra i nostri sensi di colpa (o anche la nostra sincera solidarietà) di occidentali. E capisco dunque come si possa essere portati a “dir bene” di un libro che contenga testimonianze, denunce di razzismi, auspici (se non “ricette”) per un mondo migliore… Però non basta. Il romanzo, il racconto, devono avere un surplus tanto indefinibile quanto riconoscibile. E lo scrittore deve essere un individuo davvero un po’ speciale. Per fare uno scrittore ci vuole talento, estro, ci vogliono cose da dire, ci vuole il bisogno di dirle, ci vuole la tecnica per saperle dire. Ci vuole la somma anche un po’ magica di questi fattori a dare il risultato corrispondente a un “buon libro”. E questo, per quanto ovvio, indipendentemente dalle origini e dalla lingua dell’autore. Non basta essere pieni di storie impressionanti, non basta un vissuto – appunto – “da romanzo”… occorre, per fare un buon libro, tutto il resto. Magari prescindendo dalle proprie impressionanti storie e romanzesco vissuto.
Poi, tornando agli scrittori nati altrove e scriventi in italiano, è chiaro che esistono nicchie protette, percorsi preferenziali, editori schierati e così via. E questo va benissimo: col disastro politico/governativo che stiamo vivendo negli ultimi anni, sono le benvenute tutte le iniziative contro razzismi striscianti o espliciti, contro egoismi, contro La Destra tout court… Ma è chiaro anche che lo scrittore straniero che scrive in italiano è ancora una novità, una curiosità, e che esiste tutta una fascia di lettori affamati di interculturalità, o anche sinceramente desiderosi di apprendere, capire, informarsi, compenetrarsi, attraverso quello strumento privilegiato e adorabile che è la narrativa. Per cui, arrivo al punto, sono stati senz’altro pubblicati anche libri di narrativa scritti in italiano da stranieri che, se invece fossero stati scritti da un autore italiano con genealogia tutta italiana, beh: probabilmente non sarebbero passati. Non sarebbero semplicemente usciti. Libri certamente ricchi di un valore testimoniale, ma meno di un valore letterario. Però, va detto che esistono anche autori con una biografia che li qualifica come “migranti” (o in buona misura connessi all’immigrazione) che invece sono scrittori tout court e di grande talento, su cui si possono spendere aggettivi ben più che “incoraggianti”. E faccio almeno due nomi: Viola Chandra e Jadelin Mabiala Gangbo.

 

 



Davide Bregola
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So che tra vari scrittori (Italiani e migrant writers) c'è motivo d'incontro, ci sono momenti di dialogo eccetera, però i casi sono limitati e sporadici. Partendo da questo presupposto, come si potrebbe fare per rendere possibile un dialogo propizio tra scrittori la cui prima lingua non è l'italiano ma vogliono usare la lingua di Dante e gli scrittori italiani che hanno già pubblicato per grandi case editrici, hanno l'opportunità di rendere visibile il proprio lavoro su riviste importanti (Paragone, Nuovi argomenti, Il caffé illustrato di W.Pedullà) e riescono ad avere più visibilità e interscambio coi lettori?

Dario Voltolini - I casi d'incontro sono limitati e sporadici perché il fenomeno dell'immigrazione, anche letteraria, in Italia è ridotto rispetto ad altri paesi, più recente. Sono però certo che il confronto e l'amalgama saranno processi naturali. Io la vedo così: alcuni scrittori italiani per scelta e temperamento saranno molto attenti agli scrittori immigrati e lavoreranno per farli conoscere al nostro pubblico. Questo è il lavoro più importante. Poi forse – dico forse per essere ottimista – la critica si accorgerà del fenomeno e cercherà di dargli una sistemata. O anche: enti o associazioni cercheranno di dare risalto al fenomeno della scirttura immigrata. E infine: i media fiuteranno che c'è qualcosa di nuovo e lo useranno per una vampata di qualche mese al massimo. La mia convinzione è che di questi quattro atteggiamenti il primo sarà quello decisivo. Ed è una cosa che è già in atto.

Ron Kubati - L’incontro, senza girarci intorno con varianti e sfumature, dipende un po’ dalla disponibilità degli “scrittori visibili”. Sono loro, allorquando apprezzano artisticamente i lavori dei colleghi, a dover rendersi disponibili. Tuttavia l’incontro dovrebbe essere fisiologico. Condividiamo lo stesso contesto, lo analizziamo, ci ispiriamo ad esso, lo critichiamo. Il confronto è inevitabile, ma non come due categorie distanti. Quando alcuni di noi, col tempo, avranno un più ampio consenso e maggiore visibilità si parlerà soltanto di scrittori, con nomi e cognomi, senza ricorrere a categorizzazioni. Anche noi cerchiamo spesso binari di promozione più comuni. Ma è così difficile quando non si è targati Feltrinelli, Einaudi, Rizzoli ecc..Diventa un circolo vizioso. Le catene delle librerie, i giornali, le televisioni, i promotori confluiscono tutti in uno di questi giganti dell’editoria. È questo il problema. È insufficiente e ingiusto attendere l’atto singolo di un “visibile” per guadagnarsi la scena. Queste difficoltà però non riguardano esclusivamente gli scrittori migranti. Ad essere sincero, sono parecchi anche i talenti italiani che faticano non poco per farsi conoscere.

Candelaria Romero  Quale è l’obiettivo nel rendere più propizio il dialogo tra scrittori italiani e non? Forse quello dello scambio di esperienze? Quello di apprendere, da chi è più esperto linguisticamente, per ovvie ragioni? Se questo è l’obiettivo allora propongo che gli scrittori italiani facciano agli scrittori stranieri corsi di scrittura. Sperando che la visibilità sia sinonimo di qualità.

Tahar Lamri - Pubblicare con grandi case editrici o piccole non significa niente in sé. Grandi autori del passato hanno pubblicato con case editrici piccolissime e immani schifezze vengono tutti i giorni pubblicate da grandi case editrici. Sconosciuti poeti, sperduti nelle isole caraibiche accedono al Nobel e molti cosiddetti poeti che fanno tendenza vengono dimenticati appena passato lo stupore “tendenzioso” che suscitano le loro poesie.
Il dialogo si imporrà prima o poi da solo, per il momento la circospezione con la quale si guarda a questa letteratura impedisce il dialogo, ed è forse un bene, poiché lo scrittore immigrato ha delle responsabilità verso la propria gente. Scrivere, quando uno viene da un paese dove l’analfabetismo raggiunge cifre paurose, non è una cosa facile. Il piacere di parlare di sé e dei propri tormenti introspettivi è un piacere quasi negato a chi viene dai pesi detti del “terzo mondo”.
Le spiagge del dialogo sono talmente ampie e già aperte a chi vuole dialogare, che non me la sento di dire che non c’è dialogo fra gli scrittori italiani-italiani e quelli che sono italiani solo di recente, perché già dialogano attraverso i loro scritti.

Alberto Masala - Non possiedo una formula strategica. Nel personale faccio di tutto perché avvenga l’incontro, ma non sono neanche disponibile a cedere nell’eccesso contrario: il “buonismo” che mi farebbe appassionare anche a ciò che non mi coinvolge. Lo faccio immediatamente appena ho un’occasione interessante (dal punto di vista letterario).
In Italia siamo agli albori del fenomeno e bisogna fare di tutto perché il processo venga accelerato. Dare coraggio. Se fossi francese sarebbe più facile e, come succede, gli scrittori migranti non avrebbero neanche bisogno della mia mediazione. Qui siamo ancora alla prima generazione… bisogna aspettare e intanto creare belle occasioni per accelerare il processo.
Chiedo all’intellettuale italiano di essere sostenuto dall’etica, di aprire ogni spazio. Dall’altro lato chiedo in cambio allo scrittore migrante di non smettere di arricchirmi, cioè di non abbandonare la meravigliosa tipologia narrativa che ha trasportato fin qui, quella della sua cultura. Ho paura che, come spesso è già accaduto, il migrante voglia mimetizzarsi a tal punto nella lingua ospitante da perdere in efficacia ed essere così più accettabile dalla media. L’appiattimento verso il basso.
Ma, riflettendo su questo, mi chiedo anche: ci sono mai stati e ci sono oggi spazi aperti nella cultura italiana? La risposta è sconfortante.

Piersandro Pallavicini - Mah! Il metodo più semplice che mi viene in mente è quello di considerare gli scrittori “migranti” come scrittori-e-basta. E prendere a invitarli a convegni sulla scrittura-e-basta (e non solo su quella migrante), e chiamarli a collaborare a riviste, antologie, trasmissioni televisive e radiofoniche non in virtù della loro biografia (che tanto li promuove quanto li ghettizza), ma delle loro qualità di scrittori. Ecco, questo è un impegno che dovremmo prenderci noi scrittori italiani, che spesso abbiamo una rete di conoscenze vasta e strutturata: promuovere, aprire la strada, far muovere le cose anche a questi certi scrittori che fino ad ora sono rimasti in una specie di recinto. Recinto che, beninteso, ha fatto loro del bene. Nel senso che – al di là di una valenza politica di questi “recinti” che certamente apprezzo e condivido – il trovare riscontro, il sentire intorno a sé attenzione, attesa, stimola l’attività creativa di chi scrive. Quindi non accuso nessuno di aver fatto niente di male, sia ben chiaro. Dico solo che probabilmente è arrivato il momento di guardare più in là.

 

 



Davide Bregola
- Ammettendo di avere doti profetiche, come vedi il futuro editoriale italiano? Quale spazio avranno nei cataloghi delle case editrici gli scrittori allofoni e gli autoctoni? Saremo invasi sempre più da traduzioni di best sellers o potenziali tali oppure i migrant writers che adesso pubblicano per case editrici pressoché inesistenti verranno pagati a peso d'oro dall'editoria mainstream?

Dario Voltolini - Pagati a peso d'oro dall'editoria? Gli auguro di essere dei ciccioni. L'editoria sta commettendo gli stessi errori dei massmedia, forse perché è un massmedium. Immagina che il suo pubblico sia più scemo di quello che è. Non vorrei però salvare ideologicamente e acriticamente il pubblico. Temo che corra seriamente il rischio di diventare più scemo di quello che è. Non so come andrà a finire. Io temo che chi si ribella alla corsa al ribasso venga identificato come snob ed elitario, mentre invece non è così, o almeno non del tutto. Esiste un malessere popolare nei confronti della corsa al ribasso dei media. Bisognerebbe che si facesse sentire. Invece le voci più sonore sento che chiedono e pretendono, con decisione e maturità ancora pochi anni fa inimmaginabili, Buoni Prodotti Medi. O anche Ottimi Prodotti Medi. O persino Magnifici Prodotti Medi. La questione è molto complicata. Lo scrittore indiano Olaf, che ha pubblicato un buon libro da Fazi (La viglilia dell'eternità) però non scrivendo direttamente in italiano, ma pubblicando come esordiente in Italia, mi diceva recentemente che le cose che non capisce del nostro paese, anche letterariamente, sono decisamente tante e forse troppe. Se dovessimo perderlo come autore (e uno che scrive direttamente in inglese cosa dovrebbe fare secondo voi?) sarebbe un passo falso. Passi falsi ne faremo, naturalmente, ma dovremmo essere tutti orientati ad evitarli. Quando vedremo spendere le origini di uno scrittore o di una scrittrice immigrati al fine di costruire un best seller, sarà comunque un giorno da segnarsi sul diario, perché vorrà dire che un cambiamento sarà stato registrato. Però non sono e non saranno i best sellers - Meravigliosi Prodotti Medi – al centro di un processo profondo di scambio e di arricchimento. Il movimento di scambio e di arricchimento ci sarà, sarà importante ma non sarà così facile vederlo, leggerlo e interpretarlo. Si tenga presente che per settori importanti della critica e del giornalismo culturale la letteratura italiana è morta da tempo. Dubito che questi settori saranno i primi ad accorgersi di qualche novità (reale, intendo, non volatile). Forse è tempo di aprire le porte anche alla critica immigrata. Magari si accorgerebbe che la letteratura italiana è viva.

Ron Kubati - Qualsiasi previsione è azzardata. Bisogna vedere soprattutto le possibilità che la comunità dei migranti in Italia ha di crescere i propri figli come specialisti in scienze umanistiche. Quest’ultime, si sa, generalmente rendono poco dal punto di vista economico. Attualmente, è evidente, viene incoraggiato un altro tipo di immigrazione. Nulla piove dal cielo. A volte però basta un numero esiguo di individualità particolarmente dotate in grado di incidere in modo determinante. Quindi, ripeto, è azzardato fare previsioni.

Candelaria Romero - Vedo il futuro sempre più difficile; librerie sempre più seguaci dei fenomeni di scrittura (es. i comici di Zelig che pubblicano le loro barzellette…). Spero solo in un’indomani dove la poesia avrà la sua giusta visibilità nelle vetrine delle librerie del centro.

Tahar Lamri - Io non so se è l’editoria italiana che non vuole scommettere su nuovi scrittori detti “migrant writers” oppure sono questi ultimi che hanno timore di avvicinare le grandi case editrici, o semplicemente, per il momento, gli scrittori immigrati non hanno ancora molto da offrire al lettore italiano. I best sellers, lo dice la parola stessa, ci saranno sempre, anche perché una casa editrice è un’impresa come un’altra ed ha l’obbligo di realizzare profitti e quindi deve vendere e deve cercare di vendere bene. Secondo il mio modestissimo parere, nel futuro ci sarà quel che c’è adesso, più qualche scrittore immigrato che scrive in italiano, forse giusto per appianare la strada ad una seconda generazione (figli degli immigrati e delle coppie miste).

Alberto Masala - L’editoria, tranne rare eccezioni, è completamente compresa nel mercato. Basta pensare che la più grande concentrazione di etichette è in mano a uno che non sospetta neanche che esista il congiuntivo.
Non vedo un grande futuro nelle ipotesi editoriali tradizionali. Al contrario lo vedo in quelle forme di editoria che si indirizzano verso altri supporti, con o senza quello cartaceo. Vedo libri stampati e diffusi con altri canali, un grande sviluppo della produzione no-copyright, un ritorno di ciò che valorizza i supporti visivi, orali, la narrazione…
Le case editoriali, tranne pochi nobili e coraggiosi, continueranno a stampare classici e best sellers che tutti compreranno e solo qualcuno leggerà. I migranti pubblicheranno solo se producono danaro o prestigio editoriale. Come gli scrittori italiani: solo se procurano profitto.

Piersandro Pallavicini - Che strana domanda… No, credo che non ci si troverà né nell’una né nell’altra delle due situazioni estreme. Ci sarà la solita via di mezzo. I buoni scrittori con dei buoni libri troveranno una loro strada. Se pensiamo – ecco – a una vendibilità di ciò che ora come ora ci aspettiamo scrivano gli scrittori allofoni (e dunque mettiamoci – sia pur sforando il luogo comune – l’esotismo, i frammenti di culture a noi sconosciute, le esperienze di vita “diverse ed estreme “), allora può darsi che so, che questo tipo di temi, di materiali affascinino una non piccola fetta del parco lettori… Ma poi, obiettivamente, il che cosa faccia di un libro un best-seller non è chiaro a nessuno (se non, tutti noi scrittori, saremmo almeno discretamente benestanti), non esistono ricette, non esistono temi che funzionano di sicuro e altri no…

 

4)      

 

 

Davide Bregola - Quali autori italiani hai letto e hai avuto modo di apprezzare negli ultimi tempi? Quali autori stranieri che scrivono in italiano senza bisogno di un traduttore hai letto e ti hanno interessato in modo particolare?

Posso permettermi di fare il nome di un amico? Muin Masri. Scrive direttamente in italiano, lo pubblica Portofranco ed è di nascita palestinese (Nablus).

Ron Kubati - La lettura spesso non segue cronologie temporali. Si può leggere indifferentemente  una novità o un cosiddetto classico. I contemporanei della letteratura italiana che m’interessano di più sono Svevo, Calvino ed Eco. Le mie ultimissime letture riguardano però altre categorie di scrittori come Rushdie, Borges, Grass ecc… Va detto che i libri venduti dai quotidiani ci stanno allontanando un po’ dalle librerie. Letture di autori italiani, invece, non nati qui ne ho fatte diverse. Con tanti di loro mi sono conosciuto personalmente e quindi eviterei di stilare classifiche di merito. Una preferenza però c’è l’ho. Apprezzo la forza espressiva della poesia di Hajdari. È piena di un dolore che allarga oltremodo la sensibilità del poeta, fornendoci l’esempio più concreto di come l’esperienza migratoria diventi fonte di un indiscutibile plusvalore letterario. 

Candelaria Romero - Leggo sempre più spesso opere scritti da amici scrittori, quindi opere per ora sconosciute. Gli ultimi libri letti, scritti da italiani sono le poesie scritte dai grandi poeti del dopoguerra. Per quanto riguardano le poesie di scrittori stranieri ho letto due anni fa, e me ne sono innamorata, le poesie di J.E. Eielson, scrittore latinoamericano vissuto per tanti anni a Roma. Non so altro di lui.

 

Tahar Lamri - Personalmente sono molto legato a Italo Calvino, il più internazionale degli autori italiani a mio avviso, che leggo e rileggo, altri classici li ho letti ma devo dire che non sono proprio trascinanti.
Per quanto riguarda quelli più vicini nel tempo, ho avuto modo di leggere Barrico, De Carlo, Tamara, ma quella che più mi ha interessato è stata la Ballestra, altri non ne vedo.
Ora gli stranieri che scrivono in italiano, non è ancora il momento di fare apprezzamenti definitivi. Ci sono alcuni che scrivono meglio di altri, due nomi per tutti: Wakkas per la prosa e Gezim Hajdari per la poesia, ma la produzione è ancora limitata.

 

Alberto Masala - Negli ultimi tempi ho letto solo autori stranieri.
Rispondo solo per gli stranieri: l’iraqeno Yousif Latif Jaralla.

Piersandro Pallavicini - Italiani: Montanari, Moresco, Pincio… ho un po’quest’aspettativa, nei confronti degli italiani, del libro “grande” e multimaterico… ma non dimentico “nuovi classici”come Piersanti e Severini… per la seconda categoria l’ho scritto più sopra e lo riscrivo qui: Jadelin Gangbo è un grande scrittore, Viola Chandra è un’ottima scrittrice. Mi sono piaciuti – ma più per la forza della testimonianza, che non per il valore letterario – anche Smari Abdel Malek e il primo romanzo (il secondo proprio molto meno!) di Younis Tawfik


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