A proposito di "rrine" e di strenne
                                                                 

                                                                        
                                                                                    La strenia

   In questo periodo dell'anno torniamo inevitabilmente a parlare di "Rrina" ovvero di un canto augurale eseguito di porta in porta da tempi immemorabili. Spesso, per fortuna,  diamo vita ad iniziative tendenti a rinverdire questa tradizione  che, comunque  finiscono, nonostante le migliori intenzioni, per snaturarla in parte. 'A rrina, oggi, infatti, non  viene più cantata di porta in porta (se non molto raramente) per guadagnarsi il dono ossia la strenna,   dalla quale deriva il sostantivo dialettale, ma viene eseguita spesso in corteo per le strade del paese, nuova usanza comunque lodevole. Ma da dove ha origine il sostantivo italiano strenna?
   Secondo molte leggende strenna deriverebbe dalla divinità romana Strenia o Strenua, dea della potenza,  della prosperità e della fortuna il cui culto avrebbe avuto origini sabine. Narra infatti una antica leggenda che ai tempi di Romolo la strenna  era che un fascio di rami di una pianta propizia che cresceva rigogliosa in un bosco sulla via Sacra consacrato a questa divinità.
   L'usanza di offrire in dono le strenne pare nacque proprio durante i Saturnali che venivano celebrati nel periodo compreso tra il 17 e il 24 dicembre,  riti arcaici per festeggiare la morte del Vecchio Sole e la nascita del Nuovo Sole dopo il solstizio d'inverno. Successivamente l'uso di scambiarsi vicendevolmente rami della pianta sacra, fichi e mele si spostò alle calende di gennaio, ovvero ovvero al primo gennaio. Con la  strenna ci si voleva augurare un anno dolce come i frutti che venivano scambiati. Col tempo i rami di Strenia, i fichi e le mele vennero sostituiti da altri doni a seconda dei gusti e delle tasche di chi li offriva.

  L'usanza di cantare 'a rrina per le case del paese potrebbe invece avere avuto origine da uno scopo "meno nobile e più pragmatico" ovvero dal desiderio di guadagnarsi qualcosa  da mangiare in cambio dell'augurio e della serenata. Quella di guadagnarsi la pagnotta attraverso il canto, nonostante si dica comunemente che "carmina non dant panem" è, infatti, un'arte antica. C'è sempre stato qualcuno nella storia, ancor prima che venisse inventato il diritto d'autore, che ha sempre cercato di sbarcare il lunario cantando, ora le lodi sperticate del potente o del tiranno di turno, ora facendo appello al sentimento, ora usando il canto come formidabile arma di ricatto (vedi il grande Velociu). 
   Che la rrina servisse a "scroccare" qualcosa lo si intuisce dagli stessi bellissimi versi, alcuni ruffiani (Allu perale 'na fonte c'avia, ce stava frisca tu, donna galante - Alla curina tu, gioiuzza mia, Stella re Pararisu alluminante), altri espliciti ( 'A rrina m 'a faciti ccu dinari, cussì cummena a vue, cari signori -  Au, au, au, e famme la rrina fai,   fàmme la rrina chi me soli fare. Nu gallu, na gallina o puramente ‘nu fiascu ‘e vinu).  Gli  "rrinari"  però si rendevano conto del sacrificio che chiedevano al povero padrone di casa tant'è che cercavano di rassicurarlo e rabbonirlo (‘Un ve spagnati ca nun simu assai, ca simu trentatrii e lu cantature) e di scaricare la responsabilità sull'ignaro Padreterno (Nun simu nue chi circamu a rrina, ma l’ha lassàta lu nosrru Supranu.
   Scherzi a parte, la tradizione della rrina cantata casa per casa era e rimane una tradizione bellissima, un canto che portava la gioia e la felicità nelle famiglie che si ritenevano onorate di ospitare questi artisti di strada e che, quando la loro casa, per un motivo o per un altro veniva saltata, si sentivano offese.