Il maiale ( 'u porcu) |
Nel secolo scorso, fino agli inizi degli anni '80, vigeva ancora la consuetudine di crescersi il maiale "in casa". Quasi tutte le famiglie avevano la loro bella "zimma" (dal tedesco zimmer, camera) ovvero il porcile nel quale si allevava uno, due o anche tre maialetti, a seconda delle possibilità e della consistenza del nucleo familiare. Le zimme erano ubicate in gran parte a Filezzi, nelle grotte nelle quali, fino alla fine del XIX secolo vivevano ancora molti caccuresi, sotto la "Rupa", la roccia a picco sulla quale sorge il rione Pizzetto, sotto la chiesa di San Rocco o dietro il convento, sulla strada per Laruso.
Quando il maiale superava il quintale, generalmente nel mese di dicembre, tutta la famiglia si preparava alla grande festa dell'uccisione della bestia, anche perché il freddo intenso dell'inverno era l' ìdeale per la conservazione della carne e per la stagionatura dei salumi. Già una settimana prima della data stabilita si cominciava ad "ammolare i curtella" (affilare i coltelli), a preparare la madia (mailla) e i vasi per conservare la cane salata, i ciccioli (frisuli) e lo strutto. La mattina dell'uccisione ci si alzava verso le tre di notte per "parare 'a quarara", cioè mettere sul fuoco un grande pentolone nel quale si faceva bollire una grande quantità d'acqua che sarebbe servita poi per pelare l'animale. Verso le 5 o le 6 del mattino gli uomini raggiungevano la zimma per prelevare il maiale preceduti da una donna con un secchio vuoto col quale trarre in inganno la povera ed affamata bestia per farsi seguire docilmente fino al luogo della mattanza. La bestia, infatti, era molto affamata perché non le era stato dato cibo da un paio di giorni per favorire lo svuotamento dell'intestino in modo da poterlo poi lavare facilmente ed accuratamente per adoperarlo come budello per il salume. A volte il maiale seguiva la donna senza problemi, a volte si intestardiva a cambiare strada e allora bisognava ricorrere a metodi più persuasivi, ma, alla fine, raggiungeva il posto dove avrebbe esalato l'ultimo respiro.
I bambini della famiglia la mattina si svegliavano molto presto e molto
eccitati per la novità e se ne stavano con qualcuno della famiglia che
badava che non combinassero qualche guaio, nel locale dove c'era la
"quarara", o fuori dalla porta, incuranti del fumo acre che non mancava mai e che
li faceva lacrimare come fontane o del freddo intenso. L'eccitazione e la voglia di
partecipare all'evento era tale che non c'era verso di farli
allontanare.
Dopo
un'agonia di una decina di minuti il povero animale esalava l'ultimo
respiro ed allora ci si preparava a pelarlo. Dopo
averlo adagiato a pancia sotto sul "maillune", uno degli
uomini armato di una pentola con una lunga impugnatura, cominciava a fare
la spola tra la "quarara" e il "maillune" versando
l'acqua bollente sul dorso dell'animale, mentre gli altri, muniti
di coltelli affilati, toglievano il pelame lasciando la cotica
perfettamente liscia e pulita. Quando anche questa operazione era terminata, il "macellaio" incideva la pelle delle zampe posteriori facendone fuoruscire i tendini nei quali veniva infilato " 'u gammellu", quindi, con l'aiuto di una carrucola o più semplicemente a forza di braccia, l'animale veniva issato ed appeso ad un gancio che fuoriusciva dal soffitto per essere squartato.
A
questo punto aveva inizio un'operazione complessa e delicata nella quale
emergeva tutta la bravura del "macellaio" per evitare
spiacevoli inconvenienti e danni irreparabili. Per prima cosa
estraeva l'apparato genitale dell'animale, " 'vurpile" (dal
latino verpa, prepuzio) che veniva usato poi dai falegnami per ungere le
seghe, quindi tagliava la testa. Poi passava, delicatamente ad aprire il
ventre ed estraeva la vesciga (
vissica)
che veniva subito affidata ad uno degli
aiutanti perche la lavasse accuratamente dopo averla svuotate e, con
l'aiuto di una cannuccia, la gonfiasse. La vesciga, nei giorni
successivi, veniva riempita con lo strutto ancora caldo e liquido che,
dopo qualche giorno, solidificava. Estratta la vesciga, procedeva, con
molta attenzione onde evitare di forare le budella, ad estrarre tutto
l'apparato digerente, il colon e l' intestino tenue. Il tutto finiva in
una bacinella e per le donne aveva inizio un lavoro lungo, fastidioso e
delicato per lavare accuratamente, più volte, decine e decine di metri
di intestini che venivano anche rivoltati e, infine, collocati in una
grande pentola piena di acqua fredda assieme a qualche buccia di arancia
e rami di finocchietto selvatico.
Nella prima metà del secolo, almeno a Caccuri, non erano ancora diffuse le macchinette trita carne per cui la carne per salsicce e soppressate veniva tagliuzzata a mano con affilati coltelli fino a ridurla a dadini. Si trattava, ovviamente, di un lavoro massacrante che impegnava le donne per un paio di giorni poi, una volta preparata la pasta col sale e le spezie, iniziava un'altra fastidiosa e lunga operazione: quella dell'insaccaggio. Anche per quest'operazione non c'erano macchine bisognava farla a mano servendosi di uno speciale imbuto ( 'mmutillu) con la parte stretta, cioè quella che di solito si infila nella bottiglia, più larga del normale, quanto un pollice. Infatti, questa parte era quella che veniva infilata nel budello e la massaia, dopo aver riempito la parte larga di pasta di salsiccia o di soppressata, la spingeva all'interno del budello (stentinu) col pollice, mentre un'altra donna, con un ago, bucherellava di continuo il budello per farle uscire l'aria contenuta all' interno. Quando le donne ritenevano che il budello fosse pieno a sufficienza. legavano strettamente la parte superiore con lo spago badando a lasciare un bel po' di spago libero che sarebbe servito, in seguito, per appendere l il salame alla "pertica", una canna che pendeva dal soffitto. Le salsicce potevano avere due forme: 'a corda o 'a voccula ". 'A corda era una salciccia lunga una quarantina di centimetri ed era divisa in "passetti", ovvero strozzature ottenute stringendo la salciccia con lo spago a distanza di una quindicina di centimetri da strozzatura a strozzatura. "Passettiare" la salsiccia aveva il duplice scopo di dividere la "corda" in più parti, in modo che poi, quando la si consumava, si sarebbero potuti adoperare due - tre passetti per volta senza rovinare l' intera "corda", ma anche quello di favorire la fuoruscita dell'aria contenuta all'interno del budello in modo che il salame non si guastasse. 'A voccula, invece, era una salsiccia della lunghezza di una trentina di centimetri a forma di anello. Se la salsiccia fresca da arrostire dopo qualche giorno o anche stagionata da mangiare cruda era squisita, le soppressate erano eccellenti, soprattutto quelle del "cularino", cioè fatte col budello dell'ultimo tratto del retto, molto ricercate soprattutto dai ricchi signori del paese. La soppressata, però, si mangiava a primavera, quando era perfettamente stagionata accompagnandola, a pasqua, col "muccellato", il pane azzimo locale. Finito il lavoro degli insaccati e messi i salumi ad asciugare in attesa di essere " 'mpicati alla pertiva", cioè appesi ad una pertica che pendeva dal soffitto dei bassi (vasci) nei quali, generalmente, ardeva il camino il cui fumo contribuiva all'essiccazione ed alla conservazione si salsicce e soppressate, oppure un locali freschi, asciutti ed areati, era la volta " 'e re frittule". Le massaie raccoglievano tutte gli ossi scarnificati, pezzi inutilizzati di cotenna e residui grassi e li mettevano a bollire in un grosso pentolone fino a quando la poca carne rimasta attaccata agli ossi era cotta ed il grasso si era trasformato in una specie di siero appiccicaticcio, quindi servivano in tavola ossi e cotenne ( frittule) ancora caldi per essere spolpati accompagnandosi con sottaceti e vino, mentre il pentolone sul fuoco continuava a bollire mantenendo liquido lo strutto. Finita la cena, lo strutto ancora caldo veniva travasato nella vesciga ed in altri contenitori, mentre gli altri residui grassi solidi (ciccioli), cioè i "frisuli", venivano trasferiti in vasi di terracotta smaltata per essere poi consumati spalmati sul pane o all'interno di una bella pitta cu' frisuli calda, una vera e propria leccornia. " ' E frittule", ovvero la cena descritta, era, ovviamente, un'altra occasione per far festa in famiglia e con gli amici più intimi. Archiviata anche questa "cerimonia", le massaie iniziavano il lungo processo di conservazione di prosciutti (prisutti), lardi (salati), pancetta (panzarella) e guanciale (vusjiulu), tutta roba che si cominciava a consumare a primavera inoltrata. "Quannu canta lu cuculu 'u salatu se mancia cruru", recitava un vecchio adagio a significare che a maggio, quando il cuculo faceva sentire il suo canto, il lardo era oramai stagionato e pronto da mangiare anche crudo con cipolletta fresca e pane casareccio.
Proverbi
sul maiale E'
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