Il maiale ( 'u porcu)

                                                        

    Nel secolo scorso, fino agli inizi degli anni '80, vigeva ancora la consuetudine  di crescersi il maiale "in casa". Quasi tutte le famiglie avevano la loro bella "zimma" (dal tedesco zimmer, camera) ovvero il porcile nel quale si allevava uno, due o anche tre maialetti, a seconda delle possibilità e della consistenza del nucleo familiare.  Le zimme erano ubicate in gran parte a Filezzi, nelle grotte nelle quali, fino alla fine del XIX secolo vivevano ancora molti caccuresi, sotto la "Rupa", la roccia  a picco sulla quale sorge il rione Pizzetto, sotto la chiesa di San Rocco o dietro il convento, sulla strada per Laruso.


                                         
Zimme oramai abbandonate

    Di solito i "
rivoti" si compravano alla Fiera zootecnica di San Giovanni in Fiore o a settembre, in quella di Mulerà (Roccabernarda), ma molti  contadini che vivevano nelle campagne nelle vicinanze del paese avevano anche verri e scrofe che fornivano loro i maialetti. Il nome "rivotu" pare derivasse dal fatto che si trattava di animali nati verso la fine dell'anno precedente e non macellati, quindi "rivotati", cioè lasciati in vita per l'anno successivo.
    Portata a casa la bestiola, il primo pensiero del padrone era quello di farla "grastàre" (evivare) sia per farla crescere tranquilla e senza "grilli per la testa", sia per evitare che, all'atto dell'uccisione, si potesse trovare in calore col risultato di rovinare la carne. La castrazione del maiale, purtroppo, a differenza di quella del becco (zimmaru) era molto dolorosa e, naturalmente, veniva eseguita senza anestesia dal veterinario, ma molto più spesso da uno di quei misteriosi e venerati personaggi che Carlo Levi, riprendendo un  sostantivo della lingua lucana, chiamava "sanaporcelle"
  Castrare un porco maschio era relativamente più facile e richiedeva molto meno tempo di quanto ce ne voleva per la femmina. 

    A quei tempi il mangime per i porci non si comprava al consorzio o nei negozi, anche perché non esisteva ancora il mangime e non c'erano nemmeno i consorzi, almeno a Caccuri, per cui i rivotelli venivano alimentati con favette (
favarelli), ceci (ciciari), ghianda (glianna), castagne e, soprattutto, con la jotta, un pastone fatto con la sciacquatura dei piatti e una o due "junte 'e caniglia" (la quantità di crusca che poteva essere contenuta nell'incavo formato da due mani unite a coppa). Ceci, ghiande, castagne, favette venivano definiti "civu 'n terra", ovvero cibo solido che si poteva spandere per terra per distinguerlo dalla "jotta" che, essendo liquida, doveva per forza essere versata nel truogolo (scifu).  Alimentati con questo ben di Dio, i maiali crescevano sani e robusti e, soprattutto, la loro carne era più soda di quella dei maiali che si mangiano adesso. L'espressione "civu 'nterra" divenne sinonimo di cibo solido, sano e nutriente e veniva usata scherzosamente per dire che, soprattutto se si era giovanissimi o malati, bisognava mangiare "cibo sostanzioso e non brodini  per crescere bene o mettersi in forze. Ancora oggi si pensa che i maiali di una volta fossero più saporiti di quelli di oggi proprio perché alimentati con questi cibi. In realtà questo sarà sicuramente vero, ma a rendere più saporita la carne di un tempo concorrevano più fattori. 
    Uno di questi era sicuramente la fame generalizzata di quei tempi che, come ebbe a dire qualche acuto filosofo, è sempre il miglior condimento; poi la macellazione di animali di  razze autoctone come il maiale nero calabrese che non si trova quasi più e, soprattutto, i tempi di allevamento che erano più dilatati rispetto a quelli attuali per cui l'ingrasso richiedeva più tempo e la carne si rassodava meglio.

   Quando il maiale superava il quintale, generalmente nel mese di dicembre, tutta la famiglia si preparava alla grande festa dell'uccisione della bestia, anche perché il freddo intenso dell'inverno era l' ìdeale per la conservazione della carne e per la stagionatura dei salumi. Già una settimana prima della data stabilita si cominciava ad "ammolare i curtella" (affilare i coltelli), a preparare la madia (mailla) e i vasi per conservare la cane salata, i ciccioli (frisuli) e lo strutto. La mattina dell'uccisione ci si alzava verso le tre di notte per "parare 'a quarara", cioè mettere sul fuoco un grande pentolone nel quale si faceva bollire una grande quantità d'acqua che sarebbe servita poi per pelare l'animale. Verso le 5 o le 6 del mattino gli uomini raggiungevano la zimma per prelevare il maiale  preceduti da una donna con un secchio vuoto col quale trarre in inganno la povera ed affamata bestia per farsi seguire docilmente fino al luogo della mattanza. La bestia, infatti, era molto affamata perché non le era stato dato cibo da un paio di giorni per favorire lo svuotamento dell'intestino in modo da poterlo poi lavare facilmente ed accuratamente per adoperarlo come budello per il salume. A volte il maiale seguiva la donna senza problemi, a volte si intestardiva a cambiare strada e allora bisognava ricorrere a metodi più persuasivi, ma, alla fine, raggiungeva il posto dove avrebbe esalato l'ultimo respiro.

   I bambini della famiglia la mattina si svegliavano molto presto e molto eccitati per la novità e se ne stavano con qualcuno della famiglia che badava che non combinassero qualche guaio, nel locale dove c'era la "quarara", o fuori dalla porta,  incuranti del fumo acre che non mancava mai e che li faceva lacrimare come fontane o del freddo intenso. L'eccitazione e la voglia di partecipare all'evento era tale che non c'era verso di farli allontanare.

Quando l'acqua della quarara bolliva era oramai giunto il fatidico momento. L'uomo che avrebbe poi scannato la bestia preparava un nodo scorsoio con una cordicella, quindi si avvicinava all'animale cercando di non spaventarlo e, con molta pazienza ed abilità agganciava l'incisivo (
'u scagliune) del maiale e, dopo aver stretto rapidamente il nodo scorsoio, faceva due o tre giri di corda attorno al muso del suino per impedirgli di mordere. Intanto gli altri uomini lo afferravano e lo scaraventavano su di una grossa madia rovesciata ( 'u maillune) tenendolo saldamente. Allora l'uomo che doveva scannarlo afferrava un coltellaccio lungo ed affilato, " 'u scannaturu" e, dopo aver tracciato con lo stesso un beneaugurante segno di croce sulla gola del malcapitato animale ed aver pronunciato le parole " Ccu salute!", vi piantava lentamente il coltello  facendo zampillare il sangue che colava in una pentola che una massaia reggeva sotto il collo della bestia rigirandolo continuamente con un mestolo di legno per evitare che coagulasse. Il sangue, infatti, sarebbe stato poi l'ingrediente principale del sanguinaccio, una dolcissima crema da spalmare sul pane, celebrata dal poeta Lafortuna in una sua bellissima lirica, cento volte più buono della marmellata e di cui i bimbi di un tempo erano ghiottissimi.


                                      L'uccisione del maiale

Dopo un'agonia di una decina di minuti il povero animale esalava l'ultimo respiro ed allora ci si preparava a pelarlo. Dopo averlo adagiato a pancia sotto sul "maillune",  uno degli uomini armato di una pentola con una lunga impugnatura, cominciava a fare la spola tra la "quarara" e il "maillune" versando l'acqua bollente  sul dorso dell'animale, mentre gli altri, muniti di coltelli affilati, toglievano il pelame lasciando la cotica perfettamente liscia e pulita.

                  
                        Il maiale pelato                                                                       'U gammellu

Quando anche questa operazione era terminata, il "macellaio" incideva la pelle delle zampe posteriori facendone fuoruscire i tendini nei quali veniva infilato " 'u gammellu", quindi, con l'aiuto di una carrucola o più semplicemente a forza di braccia, l'animale veniva issato ed appeso ad un gancio che fuoriusciva dal soffitto per essere squartato.

  
                          Maiale pronto per essere squartato

A questo punto aveva inizio un'operazione complessa e delicata nella quale emergeva tutta la bravura del "macellaio" per evitare spiacevoli inconvenienti e danni irreparabili.  Per prima cosa estraeva l'apparato genitale dell'animale, " 'vurpile" (dal latino verpa, prepuzio) che veniva usato poi dai falegnami per ungere le seghe, quindi tagliava la testa. Poi passava, delicatamente ad aprire il ventre ed estraeva la vesciga ( vissica) che veniva subito affidata ad uno degli aiutanti perche la lavasse accuratamente dopo averla svuotate e, con l'aiuto di una cannuccia, la  gonfiasse. La vesciga, nei giorni successivi, veniva riempita con lo strutto ancora caldo e liquido che, dopo qualche giorno, solidificava. Estratta la vesciga, procedeva, con molta attenzione onde evitare di forare le budella, ad estrarre tutto l'apparato digerente, il colon e l' intestino tenue. Il tutto finiva in una bacinella e per le donne aveva inizio un lavoro lungo, fastidioso e delicato per lavare accuratamente, più volte, decine e decine di metri di intestini che venivano anche rivoltati e, infine, collocati in una grande pentola piena di acqua fredda assieme a qualche buccia di arancia e rami di finocchietto selvatico.
Era quindi la volta di polmoni, fegato e cuore, quindi, svuotata completamente delle interiora,  la carcassa veniva tagliata in due ("
menzine") nel senso della lunghezza. Allora, mentre due uomini si caricavano sulle spalle le due parti, un altro provvedeva a sganciare i tendini dal "gammellu" e le due parti del maiale venivano depositate su un tavolo sul quale era stato in precedenza steso un telo di lino pulito.
   Ora, finalmente, gli uomini potevano riposarsi un po', mentre per le donne aveva inizio un vero e proprio tour de force.  Per prima cosa affettavano un pezzo di fegato e lo avvolgevano nel peritoneo (
picchjiu)  che, con qualche pezzo di carne tagliato dal collo (scannatura)  della bestia finiva sulla griglia per servire da colazione agli uomini che avevano lavorato così duramente e che ora non disdegnavano un po' di arrosto ed un paio di bicchieri di vino, quindi si mettevano a preparare un sontuoso pasto a base di maccheroni al sugo, ovviamente di maiale, ed una montagna di polpette che venivano mangiate accompagnandole con sottaceti o verza lessa condita con olio e aceto.
  Finito il pranzo che spesso era seguito da canti e balli, si lasciava raffreddare la carne per tutto il resto del giorno e la notte, ma al mattino l'uomo che aveva ucciso il maiale era chiamato a "
spazzunare", un'altra delicata operazione che consisteva nello sfasciare la carcassa,


 Sfasciare il maiale non era facile e richiedeva mani esperte per evitare di rovinare prosciutti, capicolli, lardi, pancetta o guanciale, e l'addetto lavorava con attenzione almeno per un'oretta. Nel corso di questa operazione, oltre a selezionare le parti già citate, veniva anche selezionata e divisa la carne per le salsicce da quella per le soppressate. Le soppressate, infatti, si ottenevano dalla spalla e dal filettuccio, mentre per le salsicce si adoperava tutto il resto. Le salsicce poi si sarebbero fatte impastando la carne con peperone rosso piccante e semi di finocchietto, mentre quella della soppressata  veniva aromatizzata con semi di finocchietto e pepe nero a grani.

                                                                      
                                                     Salsiccia                                               soppressata

Nella prima metà del secolo, almeno a Caccuri, non erano ancora diffuse le macchinette trita carne per cui la carne per salsicce e soppressate veniva tagliuzzata a mano con affilati coltelli fino a ridurla a dadini. Si trattava, ovviamente, di un lavoro massacrante che impegnava le donne per un paio di giorni poi, una volta preparata la pasta col sale e le spezie, iniziava un'altra fastidiosa e lunga operazione: quella dell'insaccaggio.

Anche per quest'operazione non c'erano macchine bisognava farla a mano servendosi di uno speciale imbuto ( 'mmutillu) con la parte stretta, cioè quella che di solito si infila nella bottiglia, più larga del normale, quanto un pollice. Infatti, questa parte era quella che veniva infilata nel budello e la massaia, dopo aver riempito la parte larga di pasta di salsiccia o di soppressata, la spingeva all'interno del  budello (stentinu) col pollice, mentre un'altra donna, con un ago, bucherellava di continuo il budello per farle uscire l'aria contenuta all' interno. Quando le donne ritenevano che il budello fosse pieno a sufficienza. legavano strettamente la parte superiore con lo spago badando a lasciare un bel po' di spago libero che sarebbe servito, in seguito, per appendere l il salame alla "pertica", una canna che pendeva dal soffitto.

   Le salsicce potevano avere due forme: 'a corda o 'a voccula ". 'A corda era una salciccia lunga una quarantina di centimetri ed era divisa in "passetti", ovvero strozzature ottenute stringendo la salciccia con lo spago a distanza di una quindicina di centimetri da strozzatura a strozzatura. "Passettiare" la salsiccia aveva il duplice scopo di dividere la "corda" in più parti, in modo che poi, quando la si consumava, si sarebbero potuti adoperare due - tre passetti per volta senza rovinare l' intera "corda", ma anche quello di favorire la fuoruscita dell'aria contenuta  all'interno del budello in modo che il salame non si guastasse. 'A voccula, invece, era una salsiccia della lunghezza di una trentina di centimetri a forma di anello.

Se la salsiccia fresca da arrostire dopo qualche giorno o anche stagionata da mangiare cruda era squisita, le soppressate erano eccellenti, soprattutto quelle del "cularino", cioè fatte col budello dell'ultimo tratto del retto, molto ricercate soprattutto dai ricchi signori del paese. La soppressata, però, si mangiava a primavera, quando era perfettamente stagionata accompagnandola, a pasqua, col "muccellato", il pane azzimo locale.

   Finito il lavoro degli insaccati e messi i salumi ad asciugare in attesa di essere " 'mpicati alla pertiva", cioè appesi ad una pertica che pendeva dal soffitto dei bassi (vasci) nei quali, generalmente, ardeva il camino il cui fumo contribuiva all'essiccazione ed alla conservazione si salsicce e soppressate, oppure un locali freschi, asciutti ed areati,  era la volta " 'e re frittule". Le massaie raccoglievano tutte gli ossi scarnificati, pezzi inutilizzati di cotenna e residui grassi e li mettevano a bollire in un grosso pentolone fino a quando la poca carne rimasta attaccata agli ossi era cotta ed il grasso si era trasformato in una specie di siero appiccicaticcio,  quindi servivano in tavola ossi e cotenne ( frittule)  ancora caldi per essere spolpati accompagnandosi con sottaceti e vino, mentre il pentolone sul fuoco continuava a bollire mantenendo liquido lo strutto. Finita la cena, lo strutto ancora caldo veniva travasato nella vesciga ed in altri contenitori, mentre gli altri residui grassi solidi (ciccioli), cioè i "frisuli", venivano trasferiti in vasi di terracotta smaltata per essere poi consumati spalmati sul pane o all'interno di una bella pitta cu' frisuli calda, una vera e propria leccornia.

   " ' E frittule", ovvero la cena descritta, era, ovviamente, un'altra occasione per far festa in famiglia e con gli amici più intimi.

Archiviata anche questa  "cerimonia",  le massaie iniziavano il lungo processo di conservazione di prosciutti (prisutti), lardi (salati), pancetta (panzarella) e guanciale (vusjiulu), tutta roba che si cominciava a consumare a primavera inoltrata. "Quannu canta lu cuculu 'u salatu se mancia cruru", recitava un vecchio adagio a significare che a maggio, quando il cuculo faceva sentire il suo canto, il lardo era oramai stagionato e pronto da mangiare anche crudo con cipolletta fresca e pane casareccio.

                     
           Prosciutto                                                                          Guanciale

Proverbi sul maiale

T'ammazzasti 'u porcu e te chjiuristi e de l'amici tui ti nne scordasti!

E' megliu criscere porci ca figli!

Quannu accatti 'u porcu guarda 'a razza!

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