Pontelandolfo: la strage dei liberatori
 

                    

   Devo all'amica Vittoria Longo che ringrazio pubblicamente,  le bellissime immagini di questa pagina che  ci mostrano Pontelandolfo, uno dei tanti paesi meridionali martiri della ferocia bestiale dei soldati piemontesi e dei loro comandanti nel corso della conquista del Regno delle Due Sicilie: dal generale Cialdini che ordinò la distruzione del paese e della vicina Casalduni,  al colonnello Pallavicini (quello che sull'Aspromonte con quattro schioppettate mostrò per la prima volta a Garibaldi che "il re era nudo" e che non sempre i piemontesi o gli inglesi erano disposti a spianargli la via), al famigerato maggiore Fumel, autore di questa perla di bando pubblicato a Cirò nel 1862: "« Io sottoscritto, avendo avuto la missione di distruggere il brigantaggio, prometto una ricompensa di cento lire per ogni brigante, vivo o morto, che mi sarà portato. Questa ricompensa sarà data ad ogni brigante che ucciderà un suo camerata; gli sarà inoltre risparmiata la vita. Coloro che in onta degli ordini, dessero rifugio o qualunque altro mezzo di sussistenza o di aiuto ai briganti, o vedendoli o conoscendo il luogo ove si trovano nascosti, non ne informassero le truppe e la civile e militare autorità, verranno immediatamente fucilati. Tutte le capanne di campagna che non sono abitate dovranno essere, nello spazio di tre giorni, scoperchiate e i loro ingressi murati. È proibito di trasportare pane o altra specie di provvigione oltre le abitazioni dei Comuni, e chiunque disubbidirà a questo ordine sarà considerato come complice dei briganti."  Di un bando simile,  emanato a Celico sempre dal Fumel, un parlamentare inglese, lord Baillie Cochrane, durante una seduta della Camera dei comuni di Londra, ebbe a dire: "Un proclama più infame non aveva mai disonorato i più peggiori giorni del Terrore in Francia.!" A lui si attribuisce anche la responsabilità di aver fatto fucilare cento contadini inermi a Fagnano Castello. Eppure di questi soldati, dei loro sovrani, dei loro politici, molti dei quali non conoscevano nemmeno il resto della Penisola e si esprimevano quasi sempre in francese,  si parla come di liberatori del popolo meridionale dall'oppressione  o come di patrioti italiani preoccupati del destino dei fratelli del Sud sotto il giogo straniero dei Borboni, nati questi, quasi tutti a Napoli e che, oltre all'italiano, parlavano da sempre correntemente il napoletano. E meno male, che come canta sarcasticamente Mimmo Cavallo, che erano"fratelli a noi!"

  La strage di Pontelandolfo e di Casalduni ricorda moltissimo quella perpetrata dai nazisti alle Fosse Ardeatine, anzi, nel caso dei due paesi del Beneventano, a parte il maggior numero di vittime rispetto alla strage nazista, i piemontesi sfogarono la loro rabbia bestiale anche sulle cose distruggendo e incendiando il paese, comprese le chiese. Un po' quello che capitò ad altri paesi, anche qui in Calabria,  come fu per le vicine Cotronei, messa a ferro e a fuoco nel 1862, e Belvedere di Spinello
(1) .  Nonostante Cialdini avesse impartito l'ordine di fucilare tutti gli abitanti del paese "meno i figli, le donne e gli inermi", i soldati violentarono  le donne davanti ai loro figli sottoponendole anche a ulteriori sevizie. La truppa si presentò a Pontelandolfo all'alba sorprendendo nel sonno gli abitanti e, dopo aver compiuto la strage, saccheggiò e incendiò il paese. Andò un po' meglio agli abitanti di Casalduni molti dei quali fuggirono prima dell'arrivo della truppa.  Ecco come Carlo Margolfo, uno dei soldati incaricati della carneficina descrive la turpe impresa:

« Al mattino del giorno 14 (agosto) riceviamo l'ordine superiore di entrare a Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno le donne e gli infermi (ma molte donne perirono) ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava; indi il soldato saccheggiava, ed infine ne abbiamo dato l'incendio al paese. Non si poteva stare d'intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli cui la sorte era di morire abbrustoliti o sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava…Casalduni fu l'obiettivo del maggiore Melegari. I pochi che erano rimasti si chiusero in casa, ed i bersaglieri corsero per vie e vicoli, sfondarono le porte. Chi usciva di casa veniva colpito con le baionette, chi scappava veniva preso a fucilate. Furono tre ore di fuoco, dalle case venivano portate fuori le cose migliori, i bersaglieri ne riempivano gli zaini, il fuoco crepitava. »
    


 
Ed ecco come la ricostruisce, in modo romanzato, ma molto veritiero ed efficace, e, soprattutto, dalla parte delle donne,  dei vinti e degli oppressi,  Vittoria Longo, insegnante e ricercatrice, discendente di quegli antichi "briganti" e originaria di Pontelandolfo, nel suo interessante libro "Stragi ed eccidi dei Savoia durante il risorgimento", scritto assieme al marito Domenico Offi e al meridionalista Antonio Ciano, autore di importanti volumi sulla storia della conquista del Sud.

                   
                               Vittoria Longo
                       

"Donne umiliate e torturate da un branco di bestie, davanti ai propri figli, mariti, genitori, subendo lo sguardo soddisfatto di chi le possedeva, senza riuscire a divincolarsi dalle loro luride mani, che ne toccavano, scrutavano, con veemenza,  il  corpo,  non una volta, ma due , tre, fino a dieci volte. Da donna lo so, lo capisco, vorresti che la lucidità della mente ti abbandonasse per non provare più l’umiliazione, il dolore, la vergogna che ti mettono addosso, mentre continui a sentire le loro risate, il loro piacere; mentre ti sussurrano all’ orecchio qualcosa di lercio. Vorresti morire, subito, anzi, avresti preferito la morte, a tutta quella violenza, e chiedi al Signore il perché di quell’affronto, anziché un colpo di fucile alla testa. Mentre gli occhi di un bambino fissano l’orrore, il tuo sguardo sembra incitarlo a voltarsi dall’altra parte; e la pena è di entrambi. Poi, all’improvviso una fredda lama squarcia il tuo ventre, la “ desiderata” baionetta sta per  mettere fine all’orrore; e tu sei li, con gli occhi al cielo d’agosto e ti senti finalmente libera. La fine è vicina, ma altre mani sfiorano il tuo ventre, lacerato e sanguinante, e quel tocco lo riconosci, non ti fa paura, tutt’altro. Allora, chini il capo, e l’ultimo sorriso è per tuo figlio, che piange disperato mentre ti abbraccia, il volto sporco del tuo sangue come quando lo desti al mondo, ma ora parla, sussurra e dice: “mamma”. Le forze ti abbandonano, ma con voce flebile lo rincuori e prima dell’ultimo respiro gli dici: “un giorno saremo vendicati, ritorneranno i briganti, e ciò che è stato mai più sarà"
                  
Vittoria Longo

                          
    Il monumento alle vittime della strage                                                   Lapide che ricorda una donna massacrata

   Alla fine dell' "eroica impresa"  centinaia di cadaveri giacevano tra le macerie in fiamme dei due sfortunati paesi. Ancora oggi il numero delle vittime è assai incerto; alcune fonti parlano di 100 civili trucidati, altri di 400, altri ancora di 900 e più, ma, indipendentemente dalla cifra esatta che probabilmente non si conoscerà mai, anche perchè nessuno si preoccupò di registrare i morti allo stato civile, resta il fatto che si trattò di un efferato massacro indegno di un paese e di un esercito civile, perpetrato ai danni di un popolo che aveva il solo torto di voler reagire e difendersi dall'aggressione di una potenza straniera che aveva occupato e conquistato il suo paese senza nemmeno uno straccio di dichiarazione di guerra, con una spedizione corsara  preparata dalla massoneria, appoggiata e finanziata dal Regno di Sardegna e dall'Inghilterra prima, e con il proditorio attacco dell'esercito piemontese poi.
  Il pretesto per scatenare la bestiale rappresaglia fu l'uccisione di 40 soldati piemontesi per mano di un gruppo di quelli che venivano spregiativamente chiamati briganti e accomunati ai criminali comuni che da sempre infestavano il Meridione  (ma anche altre zone d'Italia, vedi il Passator cortese, re della strada e re della foresta), ma che, in realtà, erano soldati del disciolto esercito borbonico, braccianti e contadini che, già in pochisismo tempo, avevano sperimentato sulla loro pelle le delizie della  "libertà" portata loro dai fratelli del Nord e solo qualche mese dopo rispetto ai contadini e ai braccianti di Bronte.



   Quando si parla di queste cose è facile incorrere nelle ire di politici, di storici ufficiali, quelli che si preoccupano di non lasciare in mano agli storici locali la ricostruzione dei fatti  perché questi ultimi sarebbero accecati dalle passioni, di esaltati infarciti di retorica patriottarda o di chi pensa che si voglia rimettere in discussione l'unità della Nazione. A volte si è costretti anche a subire la loro beffarda ironia o le loro saccenti lezioni, ma poi ci si consola pensando di essere in compagnia di gente come Gramsci, Indro Montanelli, Giustino Fortunato, perfino di Luigi Settembrini e di tanti altri  intellettuali non certo sospettabili di tentazioni secessioniste, che criticarono il modo col quale fu realizzata l'Unità d'Italia;  perfino dello stesso Garibali che scrisse: “
Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato odio”.
  
(Da una lettera del 1868 ad Adelaide Cairoli) 

A chi ci accusa di voler minare l'unità della Nazione rispondiamo che abbiamo combattuto da sempre le idee secessioniste della Lega nord e che oggi combattiamo l'anti europeismo di nuovi, patetici o furbastri personaggi che pensano di risolvere i problemi tornando alla lira, alle barriere doganali, al protezionismo, agli staterelli come la famigerata Padania, poco più grandi di una provincia e che spesso, al Sud come al Nord (vedi le posizioni politiche della Lega e, recentemente, quelle del grillismo, ma anche di certi movimenti meriodionalisti sospetti)  utilizzano pulsioni e sentimenti per fini più o meno reconditi, figuriamo se ci mettiamo a riproporre secessioni, anche perché staccare il Sud dal resto dell'Italia dopo averlo depredato dei suoi beni, dopo averne distrutto l'economia, dopo averlo lasciato per 150 anni con infrastrutture da quarto mondo, dopo averlo spremuto come un limone sottraendogli perfino le braccia e i cervelli,  staccarlo dal resto del paese e buttarlo nel secchio dell'umido sarebbe davvero una canagliata intollerabile.  Ma questo non significa che non si debba studiare, ricercare e divulgare la vera storia dell'Unità d'Italia cercando, quanto più possibile, di essere obiettivi e senza enfatizzare o sottacere  eventuali colpe o, anche,  eventuali meriti, sia degli oppressori e che degli oppressi. 
                                                                                                                     Peppino Marino
1)1    
   
1)  G. Marino, Cronache di poveri briganti - IL brigantaggio nel secolo XIX a Caccuri e dintorni, Edizioni
        Pubblisfera, luglio 2003, p. 83