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Cutro
9 marzo 2013 – Scuola Primaria F. Di Bona
- Corso di storia locale – Il terremoto del 1832 nel Crotonese.
Prima
di iniziare questo mio intervento voglio ringraziare caldamente
l’Università popolare del Mediterraneo,
il suo presidente Maurizio Mesoraca, il rettore Vittorio Emanuele
Esposito, il professor Francesco Spinelli, l’amico Gino Camposani e
gli altri amici di Cutro che hanno voluto darmi l’opportunità, grazie
a questa lezione, di parlarvi anche un po’ del mio libro sui tragici
eventi dell’8 marzo 1832 che tanti lutti e danni materiali arrecarono
alla vostra città e a tutti i paesi dell’antico Marchesato di
Crotone, proprio nel 181°
anniversario del catastrofico sisma.
A
scanso di eventuali equivoci vi dico subito che non sono un esperto di
terremoti, né uno storico professionista, ma solo un topo di archivi
storici appassionato della storia locale, convinto, come Brecht (scusate
l’ardire) che la storia di Tebe dalle sette porte non la scrissero i
re, ma gli operai che trascinarono i blocchi di pietra e che Cesare, per
conquistare la Gallia, avrà avuto certamente con sé almeno un cuoco.
La storia, infatti, anche la grande Storia, non è altro che la somma
dei tanti piccoli episodi che videro protagonista, nell’ordinario
quotidiano, come nel corso dei grandi, memorabili avvenimenti, tanta
povera gente che lavorò duramente, spesso nell’anonimato, per
edificare città, costruire strade, progredire individualmente,
contribuendo così al progresso della società e, che purtroppo, non
figura nei libri di storia. E
questa la storia dei nostri borghi e della loro gente che
mi interessa e che, da anni, cerco pazientemente di ricostruire.
Molte
persone mi hanno chiesto il motivo che mi ha spinto a scrivere questo
breve saggio. Se fossi stato più furbo avrei risposto che l’ho fatto
perché quello dei terremoti è un tema di stretta attualità, ma il
libro è nato per caso, così come per caso sono nate alcune delle mie
opere come Cronache di poveri
briganti, un saggio sul brigantaggio anti francese dell’inizio del
XIX secolo, su quello criminale e su quello anti unitario o il romanzo
storico In viaggio per una vita
migliore. Bazzicando l’Archivio di Stato o qualche biblioteca mi
capita a volte di imbattermi in qualche documento che stimola la mia
curiosità e da quel momento mi coglie una specie di febbre che mi
spinge ad approfondire la ricerca e quando accumulo un po’ di notizie,
anche di scarso interesse, mi sembra comunque un peccato non divulgarle
e le pubblico a mie spese. Anche “Il
terremoto del 1832 nel Marchesato di Crotone – I danni e la
ricostruzione di Caccuri” è nato in questo modo. Devo precisare che questo evento mi era del tutto sconosciuto, nonostante in passato abbia cercato di documentarmi sulle varie calamità naturali che nei secoli afflissero le nostre martoriate popolazioni. Conoscevo la storia del catastrofico terremoto del 1638, quella dei terremoti del 1783 e del 1835 per averne letto la storia nel bellissimo “Viaggio in Calabria” di Alessandro Dumas, ma non avevo mai sentito parlare di quello del marzo del 1832. Poi, un giorno, mi capitò fra le mani, per caso, la copia di una lettera del 7 aprile 1833 scritta da alcuni miei vecchi compaesani all’Intendente della Calabria Ulteriore seconda che mi permetto di leggervi sperando di non annoiarvi e della cui prosa mi innamorai: “
Signore,
con dolore le rappresentiamo che il terribile tremuoto si è fatto
sentire con le sue scosse ieri sera ad un’ora circa di giorno e la
scorsa notte. Le case de’ danneggiati anteriori son rese inabitabili;
le non danneggiate son ora lesionate. Fra le prime quella di Saverio
Gigliotti e Maria Amoroso caddero per terra interamente restando vittima
nella prima un suo figlio e gravemente feriti la moglie e una figlia.
Questo funesto accidente avvenne nell’atto che una forte pioggia fece
cadere in grande abbondanza acqua sulla terra in modo che obbligò tutti
ad abbandonare gli abituri provvisori. Oltre a ciò, la
morte stentata avvenuta giorni addietro di Maria Salerno, moglie di
Francesco Peronace per il disagio e il freddo sofferto a causa di non
avere potuto abitare la propria casa e di non vedere nessun soccorso per
ripristinare i fabbricati cadenti, non falla più sentire le continue
nostre insistenze di non abitare nel pericolo, giudicando
meno penosa la morte sollecita che la stentata, quasi per atto di
disperazione. Noi ci facciamo il doveroso incarico di raccomandare di
nuovo alla di lei clemenza le sventure di questi poveri danneggiati e
per i soccorsi e segnatamente la posizione funesta di questa chiesa
matrice ridotta nello stato di mettere paura al più intrepido uomo.”
La
prosa aulicheggiante, il contenuto, ma soprattutto le firme in calce
attirarono la mia attenzione e costituirono la molla per l’inizio
delle mie ricerche. La missiva era infatti firmata da alcuni personaggi
caccuresi nei quali mi ero già imbattuto nel corso delle mie ricerche
sul brigantaggio; dal sindaco Gennaro Facciuoli, all’arciprete Antonio
Gabriele, uno dei testimoni in un processo al brigante Giuseppe Meluso,
alias il Nivaro, il “Battistino Belcastro” che fece da guida ai
Bandiera e da Pasquale Montemurro, il futuro sindaco di Caccuri che nel
1844 tentò inutilmente di catturare
i cospiratori veneziani e i loro compagni e che, essendogli
sfuggiti, mise in allarme gli Urbani di San Giovanni in Fiore che poi
riuscirono nell’impresa. La lettera portava anche la firma di Vincenzo
De Franco, capo della Guardia Urbana che condusse molte operazioni che
portarono alla cattura
di pericolosi briganti locali tra le quali la cattura della famigerata
banda Pellegrino. Cominciai così a fare la spola, tra Caccuri e
l’Archivio di Stato di Catanzaro raccogliendo e ordinando un po’ di
materiali per il libro di cui sto per parlarvi.
Ho già accennato a due terremoti catastrofici che
sconvolsero la Calabria prima di quello di cui ci occuperemo
questa sera. Il primo, quello del 1638,
fu uno di più catastrofici, anche se di intensità leggermente
inferiore a quello del 1783. A leggere quanto scrisse in proposito lo
storico belcastrese Lucio d’Orsi si rimane davvero impressionati: “d’horribile
e fiero terremoto fu scossa la terra in questa regione della Calabria
per lo spatio di 150 miglia e al medesimo punto si videro le città
distrutte, le terre sommerse, diroccati i castelli, abbattuti palagi,
abbassate le torri, sprofondati monti, sollevati valli, conturbate
l’acque” e
ancora: “verso le 5 in 6 ore ,
dappiù terribile terremoto furono abbattute alcune città, terre et
castelli, intraperta la terra; molti luoghi furono offesi da profonde
voragini la parte verso il fiume Nafari
e Neto che fino a quel giorno era stata spettatrice delle miserie
altrui, divenne spettacolo lacrimoso delle sue lacere membra e da quella
parte del fiume Neto, Rocca
di Neto, Santa Severina, Altilia, Belvedere, Gerenzia, Zinga, Casabona,
Caccuri, San Giovanni in Fiore.”
L’epicentro fu localizzato nel territorio compreso tra Casabona e
Petilia e i centri più colpiti furono Zinga, Verzino, Caccuri, Mesoraca
e Roccabernarda, anche se a Cutro , Crotone, Santa Severina, Rocca di
Neto e San Giovanni in Fiore si registrarono danni consistenti.
L’evento provocò la distruzione di circa 100 centri abitati e un
numero di morti mai accertato con esattezza Tra la scossa del 27 marzo,
vigilia delle Palme, che
colpì il bacino del Savuto distruggendo
i centri abitati di Martirano, Rogliano, Santo Stefano, Motta Santa
Lucia, Marzi e Carpanzano, quella del 28 che interessò Nicastro a la
Piana di Lametia e quella dell’8 giugno nella nostra zona, i morti
furono più di 10.000. Alcuni si spingono a ipotizzare fino a circa
30.000 vittime. Davvero drammatica la vicenda di Nicastro che contò
3.000 vittime, 600 delle quali nel solo crollo della chiesa dei
francescani nella quale si stava celebrando il rito delle Palme. E veniamo agli
eventi del 1832.
Il
Regno delle due Sicilie attraversa un momento particolarmente felice: da
qualche anno erano stati archiviati i momenti più drammatici della sua
esistenza. Con la cattura e la fucilazione di Gioacchino Murat si era
definitivamente chiusa la vicenda napoleonica che aveva portato
all’occupazione del Regno con tutti gli sconvolgimenti che ne erano
conseguiti; archiviati anche moti del 1820 e la repressione imposta
dall’Austria, sul trono di Ferdinando I era salito per qualche anno
Francesco I e, sei anni dopo Ferdinando II.
Grazie a una politica economica che si ispirava alle teorie di
jean Baptiste Colbert, si cominciava a realizzare qualche importante
infrastruttura e ad avviare una timida industrializzazione che fece,
dopo qualche anno, del Regno duosiciliano lo stato economicamente più
forte della Penisola italiana, anche se non mancavano gli squilibri e le
ataviche ingiustizie sociali che gravavano sulle classi meno abbienti e
sulla povera gente provocate anche dall’avidità dei baroni. Il
modello di sviluppo, forse un po’ lento, ma sicuro e solido, nel
mentre consentiva di raggiungere importanti traguardi, suscitava
l’invidia di nazioni come l’Inghilterra e la Francia che vedevano
minacciata la loro supremazia economica in Europa. Fu forse questa
invidia che spinse le due potenze a favorire, qualche decennio dopo, la
conquista e la successiva colonizzazione del regno meridionale a opera
dei Piemontesi. Comunque la notte dell’ 8 marzo 1832, quando all’1 e
35 minuti si verificò la prima violenta scossa che fece tremare la
Calabria e il Marchesato di Crotone, la spedizione garibaldina e
l’invasione piemontese erano ancora lontane.
Quella
notte la terra tremò per 11 lunghissimi secondi. In
pochi istanti decine e decine di abitazioni di Cutro, Crotone, Petilia
Policastro, Mesoraca, Zinga, Santa Severina, Scandale, Caccuri, Castelle
e altri centri della zona crollarono al suolo seppellendo sotto le
macerie centinaia di morti. Stessa sorte per altri centri come Catanzaro
e paesi ancora più lontani. La gente, terrorizzata, si precipitò nelle
stradine rischiarate appena da un primo pallido quarto di luna. Poi,
all’alba, cominciò disperatamente a scavare nelle macerie alla
ricerca dei propri cari. La conta dei morti è impressionante: a Cutro
si contano ben 60 vittime; a Rocca Bernarda i morti sono 34, a Petilia 29, a
Mesoraca 17, a Marcedusa 13, a Rocca di Neto 10, a Scandale 8, a Isola
1. A Caccuri, dove pure si verificano 15 crolli di abitazioni, non ci
sono morti; uno lo si avrà un anno dopo, quando il 6 aprile del 1833 si
registrò una ennesima scossa accompagnata da un nubifragio. Tra i
morti di Cutro figurano non solo braccianti, contadini, povera gente, ma
anche professionisti, medici, possidenti. Particolarmente sfortunata la
famiglia dell’ex sindaco, il medico chirurgo don Carmine Rossi di 60
anni. Sotto le macerie troveranno la morte, oltre a lui, la moglie,
donna Vittoria Ascoli, anch’ella di 60 anni, la figlia, donna Luisa
Ascoli di 13 anni e l’arciprete, parroco della collegiata
dell’Annunziata, don Giuseppe Ascoli di an 66, fratello di donna
Vittoria, che morirà qualche giorno dopo a causa delle ferite riportate
nel crollo della canonica. Vittoria e don Giuseppe Ascoili erano
figli di don Luigi Ascoli, un capo giacobino che si era distinto durante
'ìoccupazione naoleonica del Regno. Altra vittima appartenente al ceto abbiente
cutrese fu una bambina di 4 anni, Teresa Gentile, figlia del cancelliere
comunale don Pietro gentile e di Rosa Falese. Alla
fine, anche a causa del maremoto conseguente che allagò una vasta zona
tra Steccato di Cutro e Catanzaro Lido, si contarono complessivamente
234 morti. I danni sono ingentissimi. Cutro, il paese che conta più vittime, appare anche il più disastrato. Quasi tutto l’abitato è distrutto o gravemente danneggiato; sono crollati la Torre dell’orologio, la Chiesa collegiata dell’Annunziata, quasi tutte le altre chiese e numerosi monumenti. A Crotone gli edifici danneggiati sono ben 677. Tra questi molti edifici pubblici come quello del Giudicato d’Istruzione, l’ufficio del Giudice Regio, della Gendarmeria, della Cancelleria comunale. Analoga situazione a Catanzaro dove crolla il Regio Liceo e subiscono gravi danni anche l’Intendenza e l’Ospedale civile. A Santa Severina crolli e lesioni interessano 56 fabbricati, ma la situazione è grave in tutti i paesi. L’entità dei danni e le ingenti perdite umane fanno scattare subito la macchina dei soccorsi e della solidarietà nel tanto bistratto regno borbonico che attiva, in tempi tutto sommato brevi, una sorta di “protezione civile”. Già il 14 marzo, sei giorni dopo la scossa, il governo dispone un primo stanziamento di 2.000 ducati e, poco dopo, un secondo di 8.000 ducati destinati ai primi soccorsi e affidati all’Intendenza per l’acquisto di viveri, medicinali e per il fitto di locali per il ricovero dei senza tetto. Quindi si procede alla nomina di una Commissione centrale per la restaurazione de’ danni causati dal tremuoto che ha sede a Catanzaro. La presiede l’Intendente Giuseppe De Liguoro e ne fanno parte, il vescovo della città, il sindaco Salvatore Ferrari e un possidente; commissioni analoghe vengono formate in tutti i comuni colpiti. A presiederle è sempre il sindaco coadiuvato dall’arciprete, dal capo della Guardia urbana e da un paio di decurioni. I decurioni in epoca borbonica erano un qualcosa di simile a degli odierni consiglieri comunali che venivano designati tra le persone più agiate del paese tra i quali, ogni due anni, veniva scelto dall’Intendente il sindaco. Su tutti vigliava il Ministro dell’Interno Nicola Santangelo. Fu lui a lanciare anche una “Sottoscrizione volontaria a favore de’ poveri danneggiati da’ tremuoti nelle Calabrie” le cui offerte, che si aggiungevano agli stanziamenti della Corona, furono gestite da una Commissione presieduta dal Segretario di Stato Giuseppe Onorato Gaetani e della quale facevano parte il cappellano maggiore mons. Gravina, il principe di Satriano Carlo Filangieri, il marchese Taccone, don Enrico Gagliardi e il barone Alfonso Barracco.
Gli
interventi urgenti e la ricostruzione furono, nonostante inghippi,
intoppi, piccole meschine gelosie, impuntature di sacerdoti e di
sindaci, sempre possibili in situazioni del genere, tutto sommato,
abbastanza celeri, soprattutto alla luce delle non edificanti prove che
diedero nei decenni successivi il Regno d’Italia e la Repubblica
italiana, fino alle ultime vergognose vicende del terremoto
dell’Abbruzzo. Ciò fu possibile anche grazie all’opera infaticabile
e alla determinazione dell’Intendente De Liguoro.
Uno dei primi, impellenti problemi oltre a quello di dare
ricovero ai senza tetto fu quello di trovare una sede per allocarvi i
numerosi uffici pubblici i cui locali erano stati distrutti del sisma e
il cui funzionamento era vitale anche per far partire la ricostruzione.
Abbiamo già visto come perfino i locali dell’Intendenza avessero
subito danni. Per dare ricetto immediato a cittadini e uffici si pensò
quindi di autorizzare la costruzione provvisoria di baracche. Furono
realizzate perciò baracche per ospitare luoghi di culto, uffici
pubblici, sfollati e senza tetto e si provvide perfino a varare un
regolamento per la loro costruzione che prevedeva anche la demolizione a
cura dei proprietari una volta cessato lo stato di emergenza, decretato
con successiva ordinanza. Purtroppo, come spesso avviene in questi casi,
non mancarono gli abusi e le furbizie, soprattutto in alcuni centri,
dove qualcuno pensò bene di costruire baracche da affittare, non ai
senza tetto, ma ad altri cittadini per attività commerciali o
speculative. E’ il caso di Catanzaro dove il cavaliere Marìncola
protesta vivacemente presso l’Intendente chiedendo la demolizione di
una baracca costruita dall’uscire Cesare Suriano per fittarla come
magazzino a un signore che in precedenza aveva in fitto un locale dello
stesso Marìncola.
A sovraintendere tecnicamente alla ricostruzione dei paesi nel
rispetto dei dettami della scienza e delle norme antisismiche del tempo
fu nominato, come abbiamo già visto, un ingegnere del Corpo di acque e
strade, il napoletano
Federico Bausan, una vera
autorità in materia che aveva preso parte alla costruzione del porto di
Napoli e del Lazzaretto di Nisida. Alle sue dipendenze lavorarono alcuni
ingegneri alunni tra i quali Vincenzo Sassone di Mesoraca.
L’ingegnere
Bausan era un tipo molto scrupoloso, un tecnico che si preoccupava di
ricostruire i paesi nel rispetto delle regole urbanistiche e delle
conoscenze anti sismiche del tempo, onde evitare futuri disastri. L’entità
dei crolli provocati dal sisma apparve, infatti, davvero eccessiva in un
territorio che nei due secoli precedenti aveva conosciuto altri due
terremoti catastrofici per cui riteneva che si dovesse fare a tutti i
costi tesoro di questa esperienza per costruire finalmente con criterio.
Per questi motivi il solerte tecnico non la prese davvero bene quando il
suo subordinato ing. Sassone gli inviò una relazione nella quale gli
descriveva lo stato dei lavori della nuova Cutro i cui cittadini pareva
continuassero a ignorare le disposizioni degli ingegneri. Un
giorno, perciò, prese carta
e penna e scrisse sdegnato all’Intendente di avere ricevuto una
relazione dell’ingegnere Sassone del 19 ottobre 1832 (a solo sette
mesi dalla scossa) nella quale il suo subordinato comunicava di essersi
recato a Cutro e di avere “trovato molte case terminate di
rustico, altre quasi in fine ed altre appena sorgono dalle fondamenta in
modo che nell’insieme il novello Cutro incomincia ad ergere la sua
fronte. Con mio sconcerto,
aggiungeva il Sassone,
però ho marcato alcuni scontenti
relativi alla disposizione de’ vani delle case matte, nel mentre che a
viva voce e con disegni all’uopo e con uffici diretti a questa
Commissione, avevo fin da molto tempo dietro il tutto stabilito.
Avendone tenuto anche a Lei informata, ho cercato col massimo rigore
rimettere tali inconvenienti.”
Quindi, dopo aver espresso nuove lamentele, l’ingegnere Bausan
concludeva: “Da
esso rileverà che a nulla valgono le istruzioni e i dettami dell’arte
per evitare i sconcerti nel novello fabbricato. I pregiudizi e
l’ostinata consuetudine la vincono sopra tutto, senza il rigore”
per concludere sdegnato la sua requisitoria contro i cutresi: “Se ciò è per Ella ugualmente che per me importante, La prego a
compiacersi al più presto dare i suoi venerandi ordini all’oggetto,
altrimenti, riconoscendo nulla l’assistenza e la cura dell’uomo
dell’arte, io e il signor Sassone cesseremo da ulteriormente occuparci
di simili cose.”
L’intendente
e il nuovo sindaco Marcello Venturi tentarono allora ripetutamene di
convincere la gente a rispettare le indicazioni dei tecnici senza
riuscirci, tanto che il Bausan propose di sospendere l’erogazione dei
sussidi a coloro i quali non volevano ubbidire. Il sindaco Venturi era
anch’egli un medico forestiero che aveva sposato una cutrese e che
prese molto a cuore i problemi della sventurata cittadina.
L’opposizione dei cutresi alla riedificazione della chiesa in
una altro sito è, purtroppo, una reazione che si verifica spesso in
occasioni di drammi del genere ogni volta che i tecnici propongono di
spostare l’ubicazione di un centro abitato in un luogo geologicamente
più stabile e che si spiega con l’attaccamento di una comunità alle
proprie radici e alla propria terra. D’altra parte il problema di
ricostruire gli immobili in altri siti più idonei si presentò anche
per gran parte dell’abitato di Mesoraca. Qui, infatti, molte case
furono ricostruite in altre zone del territorio per cui sorsero nuovi
rioni come la frazione Filippa. Quello
della ricostruzione in altri siti e l’opposizione degli abitanti a
tali decisioni non fu l’unico problema che ostacolò in qualche modo
la ricostruzione; a volte gli ostacoli nascevano da motivazioni meno
nobili. E’ il caso, ad esempio, di San Mauro Marchesato, paese tra i
più martoriati, dove l’arciprete ostacola la ricostruzione della
chiesa probabilmente perché non vuole cacciare di tasca sua 10 ducati
da aggiungere ai 20 stanziati dal governo.
Sarà necessario un intervento energico dell’Intendente con la
minaccia di inviargli “tre
piantoni a suo carico” (fare intervenire le guardie) per ridurre
il religioso a più miti consigli. Ostacoli e ritardi nascevano anche da
difficolta oggettive come ad esempio quella di approvvigionarsi
di legname in una Sila coperta da eccezionali nevicate o da
quella di reperire la manodopera. Spesso si faceva leva su questi
ritardi, anche se modesti, per piccole vendette o per mettere in cattiva
luce qualcuno che si aveva in antipatia, come nel caso del sindaco di
Caccuri Gennaro Facciuoli contro il quale, sia il capo della Guardia
Urbana Vincenzo De Franco, sia anonimi cittadini, scrissero lettere
denigratorie all’Intendente accusandolo perfino di peculato. In realtà,
seppur un po’ accentratore e forse anche arrogante, il Facciuoli non
aveva altro intento che ricostruire il paese risparmiando sul costo
della manodopera e ricorrendo esclusivamente alle maestranze del luogo
che si accontentavano di una paga più bassa, anche se non sempre
immediatamente disponibili. Per far ciò si era appropriato delle chiavi
della cassa comune nella quale era custodito il finanziamento
rifiutandosi di fornire una copia agli altri membri della commissione.
Generalmente i funzionari borbonici si mostrarono assai sensibili
ai bisogni delle martoriate popolazioni e solerti nell’assolvimento
del loro dovere, anche se non mancarono alcuni esempi poco edificanti.
E’ il caso del giudice regio di Umbriatico che, incaricato dal sotto
intendente di Crotone di valutare i danni e la veridicità dei dati
contenuti nel secondo stato dei danni redatto dalla Commissione locale
di Caccuri, se la prende con comodo, non si premura di assolvere il
compito affidatogli effettuando il sopralluogo, ma si limita a farlo,
con molto ritardo e sulla base di notizie che gli sono state riferite
per poi giustificarsi scrivendo che “io non posso dirle l’effettivo quantitativo de’ danni giacchè non
sono stato di presenza e non mi trovo autorizzato a far viaggio a mie
spese.”
Evidentemente
un viaggio di una quarantina di chilometri tra l’andata e il ritorno,
a cavallo o a dorso di mulo, da Umbriatico a Caccuri gli avrebbe
rovinato le finanze. Tra gli altri piccoli peccatucci da addebitare ai
funzionari borbonici, peraltro venali, c’è quello di mostrarsi
a volte piagnucolosi, come nel caso del sotto intendente
Brancaccio che scrive all’Intendente lamentandosi del fatto che “è veramente cosa crudele che il sottointendente, il
quale ha pensato per tutti e ha fornito il proprio legname alla truppa,
debba rimanere in tali pericoli, senza sicuro ricovero e deve fare
traslocare la sua officina in una stalla e ora in un basso ristretto e
oscuro facendo rimanere le carte nella confusione senza antecedente e
senza potervisi dare il necessario ordine”
o ossessionati da alcuni problemi da loro forse ritenuti a
torto prioritari. Un Segretario di Stato, ad esempio, è ossessionato
dalla necessità di ripristinare i luoghi di culto ancor prima dei
tuguri di tanta povera gente costretta a vivere all’addiaccio , tanto
da affermare che “questo essere il pietoso, comune
desiderio di coteste buone popolazioni al pari e forse anche al di sopra
di quello che hanno per la costruzione delle proprie abitazioni.”
Al netto di tali piccole manie, piccoli egoismi, fissazioni, la
burocrazia dei Ferdinando II diede complessivamente prova di efficienza
e abnegazione tanto che, nonostante i finanziamenti esigui, la carenza
di manodopera, la testardaggine delle popolazioni, gli strumenti e le
attrezzature del tempo, lo sciame sismico che si protrasse per più di
un anno, la ricostruzione fu
generalmente completata in meno di tre anni. Particolarmente efficace e
puntuale fu il ruolo dell’intendente De Liguoro, uomo energico e
determinato, sempre pronto a soccorrere, stimolare, reprimere, attivarsi
in ogni modo per accelerare la ricostruzione e venire incontro ai
bisogni della popolazione.
Lo
sforzo della Corte e del governo per la ricostruzione fu quantificato in
un dettagliato manifesto rendiconto affisso nei vari paesi quando oramai
gli edifici erano stati quasi completamente ricostruiti, dal quale
apprendiamo che furono spesi 17.000 ducati per ristrutturare 1.222
abitazioni oltre agli edifici pubblici. La cifra potrebbe sembrare
modesta e in effetti lo è, ma va tenuto conto che gran parte dei
materiali utilizzati come pietre, travi, tavole, mattoni furono
riciclati e alla ricostruzione spesso contribuivano gli stessi
proprietari con la loro manodopera.
A questa somma vanno anche aggiunti i 10.000 (8.000 più 2.000)
ducati stanziati sei giorni dopo la prima scossa per l’acquisto di
medicinali e viveri per le popolazioni colpite e per il fitto di locali
di fortuna per accogliere i senza tetto. Anche questa iniziativa di
pubblicare il rendiconto delle spese sostenute affiggendolo a tutte le
cantonate, stride un bel po’ con la mancanza di trasparenza nell’uso
delle risorse pubbliche alla quale siamo purtroppo da decenni abituati.
Per finire leggiamo come gli abitanti di Caccuri accolsero le
provvidenze della Corona a sollievo delle loro pietose condizioni in una
lettera della Commissione all’Intendente: “Signore,
lunedì passato doppio piacere provarono
questi miserabili abitanti e per essere ripartite l’elemosine
di 40 ducati largite dal pietoso monarca, e per essere giunti i mandati
di ducati 443 per i poveri danneggiati dal tremuoto. Lagrime d’amore e
tenerezza sgorgavano dagli occhi di essi poveri i quali benedicevano il
cielo per averli messi sotto il governo di Ferdinando II padre de’
suoi popoli e sotto l’Amministrazione di un commendatore De Liguoro,
sollievo di sventurati.”
Sono
quegli stessi cittadini che undici anni dopo faranno di tutto per
catturare i fratelli Bandiera e i loro compagni che, a detta degli
storici ufficiali, “erano
venuti a liberarci dalla tirannia dei borboni”; quei caccuresi che
nel marzo del 1861, proprio mentre veniva proclamata l’Unità
d’Italia, insorsero contro il Regno d’Italia, cacciarono
i soldati dal paese e proclamarono un governo provvisorio; quei
cittadini che nel luglio dello stesso anno issarono sul campanile della
chiesa di Santa Maria delle Grazie una bandiera bianca borbonica
inneggiando a Francesco II, ma che al Plebiscito per l’annessione
dell’ottobre precedente avevano votato, evidentemente sotto la
minaccia delle armi, stranamente
all’unanimità per il Si.
A
questo punto il mio compito è finito. Spero tanto di non avervi
annoiato e di aver soddisfatto le vostre aspettative.
Penso, comunque, che sia stato importante
rifare un po’ la storia dei terremoti che hanno colpito la
nostra terra perché il compito della storia è proprio quello di
insegnarci a fare tesoro dell’esperienza del passato per aiutarci a
prevenire eventuali errori nell’organizzazione del nostro futuro, a
costruirci un’esistenza migliore e, possibilmente, libera da rischi e
pericoli, almeno di quei rischi o pericoli che, per la nostra stoltezza,
a volte ci procuriamo da
soli. Saper che il nostro territorio è da sempre una zona ad alto
rischio sismico, ma soprattutto conoscere nei dettagli ciò che questo
ha significato nei secoli scorsi, può aiutarci davvero molto e
impedirci di ricadere nei
consueti, tragici errori.
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