II tenimento del Bordò e l'antica Grancia

                                          
                                                                                  L'antica grancia del Virdò (Bordò)

La storia del tenimento del “Virdò” e della sua grancia (dal francese granche, granaio)  è una storia antichissima.  Le storpiature e trasformazioni del toponimo  nel corso dei secoli ci aiutano a ricostruire i passaggi di proprietà del piccolo feudo  del quale faceva parte quest’amena località a est della cittadina di Caccuri, a circa un chilometro in linea d’aria dell’antica cinta muraria,  finita poi nei vasti possedimenti dei Florensi di  Gioacchino da Fiore (anch’essi frutto di donazioni dei potenti del tempo)  grazie all’appoggio degli Svevi, allora padroni del regno meridionale, sempre munifici nei confronti del celebre monaco “imprenditore”.



         Busto dell'abate Gioacchino da Fiore


     La storia ci racconta che il Tenimento del Virdò, con annessa la grancia e la chiesetta intitolata ai santi Filippo e Giacomo fu concessa al monastero florense dalla regina Costanza d’Aragona, moglie di Federico II di Svevia nel mese di gennaio del 1215. In quell’anno, infatti la fortuna si incaricò di dare una mano a Gioacchino, che, probabilmente, non ne aveva nemmeno bisogno, ma si sa, la fortuna aiuta gli audaci e l’abate di Celico, “di spirito profetico dotato”,  citato da Dante e da Obama, proclamato beato dalla Chiesa, come molti uomini di chiesa,  audace lo era certamente, e forse anche qualcosa di più.  Successe, infatti, che Ruggero Saraceno, barone del casale del Verdò, morì senza lasciare eredi per cui il suo piccolo feudo, secondo le leggi del tempo,  sarebbe dovuto tornare al fisco. La sovrana però, non solo non riacquisì il possedimento al regio demanio, ma lo concesse al Monastero Florense in aggiunta alla ricchissima donazione che il suocero,  Enrico VI aveva già fatto all’abate di Celico il 24 ottobre del 1195, in aggiunta a un’altra del marzo dello stesso anno (1195).

La moglie di Federico II non si limitò solo a regalare al monaco ex cistercense, poi fondatore dell’ordine Florense,  il Virdò e la sua grancia, ma lo rese anche franco da ogni servizio dovuto alla Corte e, per sovrapprezzo, aggiunse che anche i terreni eventualmente acquistati in futuro dai monaci Florensi, se confinanti col feudo del Virdò, sarebbero stati anch’essi franchi da ogni servizio. [1]  Insomma una serie di privilegi da fare impallidire quelli di cui gode la Chiesa ai nostri giorni e senza bisogno di alcun concordato. 


             
Federico II di Svevia

Da allora,  probabilmente, la località che i caccuresi continuarono e continuano a chiamare Virdò, diventò, nell’idioma sangiovannese, il “Vuldoj” per trasformarsi in Bordò (forse per assonanza con Bordeaux) quando i nuovi padroni francesi, agli inizi del XIX secolo, dopo essersi impossessati del regno borbonico, lo regalarono al generale Charles Antoine Manhès. Poiché  l’ufficiale napoleonico, per ovvi motivi non poteva occuparsi direttamente del fondo, diede incarico al capitano sangiovannese e filo francese Pier Maria Scigliano di curare le sue vigne e i suoi orti.


                
                     
Il generale Manhès

Pier Maria Scigliano, dopo la conquista napoleonica del Regno era passato al servizio degli invasori e si era distinto nell’opera di repressione della resistenza anti francese. Per questo motivo si era fatto molti nemici anche nel suo paese natale. Tra questi figurava un certo Pietro Maria Alessio che il 29 aprile del 1812 riuscì a evadere dalle carceri assieme a Francesco De Simone detto Piruneo. Il 13 ottobre dello stesso anno, in località Cimitella, una contrada dell’agro di Caccuri a ridosso del Virdò, l’ufficiale sangiovannese rimase vittima di un agguato e morì dopo avere ricevuto un colpo di fucile in testa. Del delitto fu accusato il De Simone che venne processato e fucilato nella piazza di San Giovanni in Fiore il 25 giugno del 1814.[2]  


                 
Chiesetta di S. Filippo e S. Giacomo

In seguito il Virdò, che da allora  nella toponomastica ufficiale fu sempre indicato come “Bordò”,  divenne proprietà dei signori Lopez di San Giovanni in Fiore. Nel 1844 vi sostarono i fratelli Bandiera e gli altri patrioti  che, sotto la guida del brigante Giuseppe Meluso, cercavano di raggiungere Cosenza per alimentare una rivolta sediziosa di cui avevano avuto notizia a Corfù, ma che in realtà era già stata domata. Proprio dal Bordò partì alla volta della cittadina silana un ragazzo latore di un messaggio per il capo urbano che lo informava della presenza al Virdò dei  rivoluzionari e delle loro intenzioni consentendo al comandante Domenico Pizzi di predisporre l’agguato fatale che qualche ora dopo il località Stragola  portò alla cattura del gruppo eversivo.

Parte dell’antico tenimento divenne anche proprietà del signor Peppino Lopez, parente dei Lopez sangiovannesi padroni della grancia. Peppino Lopez  aveva sposato la caccurese donna Fortunata Ambrosio, figlia del cav. Raffaele Ambrosio, geometra, sindaco e podestà di Caccuri per molti anni.

In tempi antichi, come testimoniano le grotte scavate a poche decine di metri dalla grancia  prima che questa fosse edificata,  la zona fu abitata da monaci basiliani che avevano altri insediamenti anche a Timpa dei Santi, in agro di Caccuri sulla sponda sinistra del Neto e in altre località della zona. 

 

     
                                                                   Interno delle grotte basiliane di Bordò

 

Attualmente la masseria del Virdò, dopo un restauro molto rispettoso della storia del luogo, è stata trasformata in una rinomata struttura agrituristica.



[1] Catasto onciario di Caccuri Fascio 6965, vedi P. Maone, Caccuri monastica e feudale, Mercurio ed., Portici 1969, pag. 50, nota 22

 

[2] G. Marino, Cronache di poveri briganti, Pubblisfera, Sa Giovanni in Fiore 2003, pag. 27