Un
libro di Armando Iapella sulla storia della conquista del Regno delle due Sicilie |
Ho appena finito di leggere un libro molto interessante del
mio amico Armando Iapella, professore in pensione originario di
Belvedere di Spinello, ma da anni residente nel Napoletano, dal
titolo “Il Regno delle due Sicilie prima dell’Unità d’Italia
– Note critiche sul Risorgimento e sull’Unità d’Italia.
Attingendo agli scritti e alle ricerche di autorevoli
meridionalisti come Ciano, Alianello, Topa e altri ancora, ci
ripropone i dati macro economici inoppugnabili che dimostrano come
il regno borbonico, pur con le sue numerose contradizioni, i suoi
squilibri, le precarie condizioni di vita dei braccianti e dei
contadini angariati dai baroni (e anche dei ricchi proprietari
terrieri inglesi che vivevano in Sicilia) contro i quali si
infransero tutti i tentativi di Ferdinando II di ridurne in nefasto
potere, le sacche di povertà e di sottosviluppo delle zone rurali,
peraltro presenti anche in tutti gli altri staterelli italiani (in
alcuni fino agli anni ’60 del Novecento), Piemonte compreso, e
perfino nella Francia de “I miserabili” e nella boriosa
Inghilterra di Palmerston, fosse di gran lunga lo stato più ricco,
più evoluto, più industrializzato e tecnologicamente avanzato d’Italia
e tra i primi in Europa e nel mondo.
L’industria tessile, quella serica, le Reali ferriere di
Mongiana che occupavano 2.500 lavoratori, le Officine di Pietrarsa,
i cantieri navali di Castellammare, la poderosa flotta mercantile
(seconda in Europa) e la fitta rete di porti, le cartiere, le
fabbriche di cordame, di vetri, cristalli, porcellane, macchine di
precisione e tanti altri stabilimenti supportati da una fitta rete
di banche e di monti frumentari testimoniavano l’esistenza di una
economia forte, vitale e in continua espansione.
Perfino la legislazione sociale, quella scolastica, l’organizzazione
burocratica (qualche funzionario piemontese consigliò invano al suo
governo di copiarla), il funzionamento della giustizia, molto più
efficiente, equa e clemente di quella piemontese,
rappresentavano primati oggettivi
(oggi, finalmente, rivalutati da una storiografia meno
succube), nonostante la massiccia campagna denigratoria dei massoni
inglesi e francesi prima e dei piemontesi poi.
Questo regno, questa economia, questa civiltà furono
cancellati con un’aggressione vigliacca e proditoria dei
piemontesi, una losca operazione massicciamente sostenuta dall’Inghilterra
e dalla Francia con risorse finanziarie notevoli raccolte dalla
massoneria, che non si fecero scrupolo nemmeno di servirsi della
mafia e della camorra (il giochino fu ripetuto con successo anche
nel 1943 dagli americani) per invadere la Sicilia e il Regno. Questa
truce operazione provocò un vero e proprio genocidio di massa da
fare impallidire l’Olocausto quando le popolazioni meridionali
insorsero contro l’oppressore piemontese che, fasciato nella
divisa militare sabauda, uccideva, squartava, infilzava con la
baionetta chiunque cercava di difendere la propria patria, i propri
averi, la propria dignità. Fu cosi che centinaia di migliaia di
meridionali vennero massacrati, altre decine di migliaia, compresi i
soldati borbonici che per giuramento e per compito istituzionale
difendevano il loro stato attaccato e occupato senza uno straccio di
dichiarazione di guerra, furono imprigionati nei lager piemontesi
come quello di finestrelle dove morirono per gli stenti e per la
fame, decine e decine di paesi vennero incendiati e rasi al suolo.
Terrificante per il numero delle vittime e le modalità di
esecuzione la distruzione di Pontelandolfo e Casalduni,
ma anche altri centinaia di comuni del Regno, compreso quello
di Cotronei, conobbero
la ferocia beluina dell’invasore che massacrava perfino i vecchi,
le donne e i bambini definiti genericamente briganti. I meridionali
furono poi spogliati di tutti i loro averi: le riserve auree dello
stato, che da sole ammontavano al doppio di tutte quelle degli altri
stati italiani messi insieme, della flotta mercantile, dei beni
privati, dei beni ecclesiastici espropriati alla chiesa e rivenduti
ai baroni perfino degli arredi sacri.. I macchinari delle floride
fabbriche meridionali furono smontati e rimontati al nord. In cambio
ottennero la tassa sul macinato e la leva obbligatoria che
dissanguarono completamente il Mezzogiorno d’Italia.
Iapella però, non si limita alla denuncia, né come fanno
tanti altri meridionalisti propone improbabili secessioni che non
darebbero ai meridionali nessuna contropartita se non la
perpetuazione dello status quo. Una secessione di questo tipo è
quella invocata a gran voce dai legisti che risulterebbe devastante
per il Sud e suonerebbe come l’ennesima beffa. Staccarsi dall’Italia
e tornare indipendenti in queste condizioni, quando dopo
centocinquant’anni tutte le ricchezze e le risorse del Sud,
compresa la risorsa umana sono state drenate al Nord, dopo che ci
hanno lasciato senza fabbriche, senza infrastrutture degne di questo
nome: strade, autostrade, porti, ferrovie, braccia per lavorare ,
cervelli sempre più in fuga sarebbe una catastrofe immane. Il Sud
ha invece bisogno innanzitutto di un’opera colossale di revisione
storica che ristabilisca la verità che ci restituisca la nostra
memoria, la nostra identità, il nostro orgoglio di meridionali
facendoci nel contempo prendere coscienza delle nostre capacità e
potenzialità, dopo che per un secolo e mezzo hanno perfino cercato
di farci vergognare di essere meridionali, poi di un’opera
colossale di ricostruzione materiale pari a quella della Germania
ovest a favore di quella
dell’est. Chiedere una sessione senza contropartite di questo tipo
è esattamente quello che vogliono Salvini e i suoi giannizzeri.
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