Un libro di Armando Iapella sulla storia della conquista
del Regno delle due Sicilie

 

                     

   Ho appena finito di leggere un libro molto interessante del mio amico Armando Iapella, professore in pensione originario di Belvedere di Spinello, ma da anni residente nel Napoletano, dal titolo “Il Regno delle due Sicilie prima dell’Unità d’Italia – Note critiche sul Risorgimento e sull’Unità d’Italia.


   Armando, con la sua prosa avvincente e convincente, ci propone una coraggiosa e veritiera disamina delle condizioni socio economiche e culturali del più antico e prospero regno italiano prima della criminale aggressione piemontese del 1860  contrabbandata da una storiografia asservita e agiografica per fulgido patriottismo finalizzato esclusivamente alla creazione di una patria comune per tutti gli abitanti della Penisola e alla liberazione degli italiani del sud dall’oppressione dello straniero (ovvero da sovrani che erano nati tutti a Napoli, vissuti a Napoli e che parlavano correttamente, a differenza dei Savoia, sia l’italiano che il napoletano).

   Attingendo agli scritti e alle ricerche di autorevoli meridionalisti come Ciano, Alianello, Topa e altri ancora, ci ripropone i dati macro economici inoppugnabili che dimostrano come il regno borbonico, pur con le sue numerose contradizioni, i suoi squilibri, le precarie condizioni di vita dei braccianti e dei contadini angariati dai baroni (e anche dei ricchi proprietari terrieri inglesi che vivevano in Sicilia) contro i quali si infransero tutti i tentativi di Ferdinando II di ridurne in nefasto potere, le sacche di povertà e di sottosviluppo delle zone rurali, peraltro presenti anche in tutti gli altri staterelli italiani (in alcuni fino agli anni ’60 del Novecento), Piemonte compreso, e perfino nella Francia de “I miserabili” e nella boriosa Inghilterra di Palmerston, fosse di gran lunga lo stato più ricco, più evoluto, più industrializzato e tecnologicamente avanzato d’Italia e tra i primi in Europa e nel mondo.  L’industria tessile, quella serica, le Reali ferriere di Mongiana che occupavano 2.500 lavoratori, le Officine di Pietrarsa, i cantieri navali di Castellammare, la poderosa flotta mercantile (seconda in Europa) e la fitta rete di porti, le cartiere, le fabbriche di cordame, di vetri, cristalli, porcellane, macchine di precisione e tanti altri stabilimenti supportati da una fitta rete di banche e di monti frumentari testimoniavano l’esistenza di una economia forte, vitale e in continua espansione.  Perfino la legislazione sociale, quella scolastica, l’organizzazione burocratica (qualche funzionario piemontese consigliò invano al suo governo di copiarla), il funzionamento della giustizia, molto più  efficiente, equa e clemente di quella piemontese, rappresentavano primati oggettivi  (oggi, finalmente, rivalutati da una storiografia meno succube), nonostante la massiccia campagna denigratoria dei massoni inglesi e francesi prima e dei piemontesi poi.

   Questo regno, questa economia, questa civiltà furono cancellati con un’aggressione vigliacca e proditoria dei piemontesi, una losca operazione massicciamente sostenuta dall’Inghilterra e dalla Francia con risorse finanziarie notevoli raccolte dalla massoneria, che non si fecero scrupolo nemmeno di servirsi della mafia e della camorra (il giochino fu ripetuto con successo anche nel 1943 dagli americani) per invadere la Sicilia e il Regno. Questa truce operazione provocò un vero e proprio genocidio di massa da fare impallidire l’Olocausto quando le popolazioni meridionali insorsero contro l’oppressore piemontese che, fasciato nella divisa militare sabauda, uccideva, squartava, infilzava con la baionetta chiunque cercava di difendere la propria patria, i propri averi, la propria dignità. Fu cosi che centinaia di migliaia di meridionali vennero massacrati, altre decine di migliaia, compresi i soldati borbonici che per giuramento e per compito istituzionale difendevano il loro stato attaccato e occupato senza uno straccio di dichiarazione di guerra, furono imprigionati nei lager piemontesi come quello di finestrelle dove morirono per gli stenti e per la fame, decine e decine di paesi vennero incendiati e rasi al suolo. Terrificante per il numero delle vittime e le modalità di esecuzione la distruzione di Pontelandolfo e Casalduni,  ma anche altri centinaia di comuni del Regno, compreso quello di Cotronei,  conobbero la ferocia beluina dell’invasore che massacrava perfino i vecchi, le donne e i bambini definiti genericamente briganti. I meridionali furono poi spogliati di tutti i loro averi: le riserve auree dello stato, che da sole ammontavano al doppio di tutte quelle degli altri stati italiani messi insieme, della flotta mercantile, dei beni privati, dei beni ecclesiastici espropriati alla chiesa e rivenduti ai baroni perfino degli arredi sacri.. I macchinari delle floride fabbriche meridionali furono smontati e rimontati al nord. In cambio ottennero la tassa sul macinato e la leva obbligatoria che dissanguarono completamente il Mezzogiorno d’Italia.


   Purtroppo nei libri di testo da centocinquant’anni si legge una storia diversa che ci parla di fratelli del nord venuti a liberarci dalla schiavitù imposta dai borboni e ad acculturarci, come a dire che gli eredi di quelli che cuocevano la carne sotto la sella vennero a civilizzare la patria di Archimede, di Cassiodoro, di Telesio, di Campanella, di Giordano Bruno, di Luigi Lilio e di Tommaso d’Aquino.

    Iapella però, non si limita alla denuncia, né come fanno tanti altri meridionalisti propone improbabili secessioni che non darebbero ai meridionali nessuna contropartita se non la perpetuazione dello status quo. Una secessione di questo tipo è quella invocata a gran voce dai legisti che risulterebbe devastante per il Sud e suonerebbe come l’ennesima beffa. Staccarsi dall’Italia e tornare indipendenti in queste condizioni, quando dopo centocinquant’anni tutte le ricchezze e le risorse del Sud, compresa la risorsa umana sono state drenate al Nord, dopo che ci hanno lasciato senza fabbriche, senza infrastrutture degne di questo nome: strade, autostrade, porti, ferrovie, braccia per lavorare , cervelli sempre più in fuga sarebbe una catastrofe immane. Il Sud ha invece bisogno innanzitutto di un’opera colossale di revisione storica che ristabilisca la verità che ci restituisca la nostra memoria, la nostra identità, il nostro orgoglio di meridionali facendoci nel contempo prendere coscienza delle nostre capacità e potenzialità, dopo che per un secolo e mezzo hanno perfino cercato di farci vergognare di essere meridionali, poi di un’opera colossale di ricostruzione materiale pari a quella della Germania ovest a favore di  quella dell’est. Chiedere una sessione senza contropartite di questo tipo è esattamente quello che vogliono Salvini e i suoi giannizzeri.