‘U tempu è alla nive! |
“Cumpà,
‘u tempu è alla nive! Chiss’è tempu ‘e sazizze e vinu!”[1]
Questo era una sorta di saluto che si scambiavano i vecchi caccurese
quando, nel secolo scorso, la neve cadeva abbondante imbiancando le
colline e campagne che circondano il paese , i tetti delle casupole e le
strette viuzze del paese. Allora non c’erano ancora gli spazzaneve o i
mezzi spargisale e la gente provvedeva da sola a spalare la bianca
coltre accatastandola ai lati dei viottoli creando vere e proprie
gallerie che andavano da una casa all’altra. Raccontano i vecchi che
nei primi decenni del secolo scorso a volte cadeva tanta di quella neve
e la temperatura era così rigida che ci volevano mesi perché si sciogliesse e lungo il tratto che va dalla Santa Croce al ponte della
parte ed in altre zone “a mancu”[2]
si potevano ammirare per settimane e settimane i “chjiatruli”[3]
che pendevano dalla parete. Per fortuna le previdenti massaie avevano
provveduto per tempo a cuocere almeno due “fatte ‘e pane”[4]
per cui “’ ‘a cannizza”[5]
era sempre ben fornita e anche ‘i piparogni[6]
salati, chilli all’acitu,[7]
l’alive alla cinnara[8],
‘u vusjulu[9],
i frisusuli[10],
'u sangunacciu[11]
non mancavano mai, così come l’olio, il vino ed il grano. Naturalmente
a dicembre, gennaio e nei mesi successivi, anche
“ ‘a pertica 'e re sazizze frische”[12]
era ben fornita, dal momento che oramai ognuno “aviari ammazzatu ‘u
purcelluzzu.”[13]
E allora, “quannu ‘u tempu era alla nive” nel focolare ardeva un
bel po’ di legna di quercia che produceva un buon “frasjerinu”[14]
ideale per l’arrosto. Allora il compare o la comare “mpilavanu allu
spitu ‘na bella voccula
‘e sazizza”[15]
ed invitavano l’amico che accettava con entusiasmo.
Arrostire le salsicce costituiva una sorta di rito sacro e richiedeva una certa abilità per farla cuocere a puntino senza
bruciacchiarla o affumicarla e poi c’era anche da fare una buona
“fresa” [16]
che si otteneva facendo colare il grasso fuso della salsiccia sulla metà
inferiore di un pane tagliato in due nel senso orizzontale e
comprimendo l’arrosto con l’altra metà.
Quando l’operazione era condotta a regola d’arte sul
pane si formava una gustosissima patina di grasso fuso di colore
arancione ( ‘a fresa) rendendolo quasi più saporito della stessa salsiccia.
“Tu ‘un t’’a manci 'a fresa!” si diceva a chi non era
all’altezza della situazione, incapace di sbrogliare una qualche matassa,
a testimonianza del fatto che la fresa era molto ricercata ed apprezzata
e che farla buona era una vera e propria arte. Quando
la salsiccia era ben cotta i due compari si sedevano “alla banna ‘e
ru focu”[17]
con un bel fiasco di vino e “se ricriavanu”.[18].
Intanto “ ‘a cummari”
preparava la “scirubetta”[19],
il gelato fatto in casa con la neve fresca e il mosto cotto che i
marmocchi di casa gradivano quasi come il sanguinaccio, mentre fuori
continuava ad infuriare “ ‘u purberinu.”[20]
[1] Compare, è tempo da neve! E’ tempo si salsicce e vino! [2] A manca, esposte a nord [3] ghiaccioli [4] Quantità di pane che poteva essere contenuta in un forno a frasche [5] Rastrelliera di canne appesa al soffitto sulla quale si conservava il pane [6] Peperoni salati [7] Peperoni sottaceto [8] Olive alla cenere [9] Guanciale di maiale [10] ciccioli [11] Sanguinaccio [12] Pertica che pendeva dal soffitto alla quale si appendevano le salsicce per la stagionatura [13] Aveva ammazzato il maiale. [14] Brace viva [15] Infilzavano allo spiedo una salsiccia ad anello [16] Patina di grasso fuso sul pane [17] Vicino al fuoco [18] Se la godevano [19] Gelato povero con neve fresca e mosto cotto [20] Bufera di neve |