Sangue del mio sangue

   

  Zu Nicola, come tutti i vecchi contadini calabresi, era particolarmente affezionato al suo somaro. “Quannu m’è morta mogliama nun eppi dispiaceri, senza suspiri e lacrime la jivi a sutterrari. Mo chi m’è mortu ‘u ciucciu,  cianciu cu’ gran duluri,  Ciucciu bellu de ‘stu cori, commu te pozzu amà’”[1], canta una delle più famose canzone della nostra terra che zu Nicola conosceva benissimo. L’asino per i nostri nonni era un mezzo di produzione e di sostentamento per tutta la famiglia, l’amico fidato, il compagno di vita; la malattia o, mai sia detto, la morte del “ciuccio” era considerata la più grave sciagura che potesse abbattersi sul contadino e sulla sua casa. Logico, quindi, che tra il padrone e il somaro si stabilisse un legame affettivo indissolubile, anche perché l’animale, il più intelligente tra gli animali domestici, più ancora del cane, a volte dello stesso padrone, nonostante qualche buontempone abbia deciso che “somaro” debba essere considerato, chissà perché, sinonimo di ignorante o babbeo, sapeva farsi amare davvero dal contadino calabrese. Tra l’animale e il proprietario si stabiliva, come dire?, una “corrispondenza d’amorosi sensi”, una intesa tale che, spesso, era davvero difficile stabilire chi fra i due era il più cocciuto.

Quella volta zu Nicola aveva ceduto, con molta riluttanza e angoscia, alle reiterate richieste di zu Pasquale, amico carissimo e compare di sangiovanni,[2] che voleva  in prestito Frisichello per trasportare una una “sarma” [3] di legna da Cerenzia a Caccuri. “Si vo’  ‘mprestata a muglierama  t’ ‘a  ‘mprestu, ma ‘u ciuccio no!”[4], aveva provato ad obiettare, ma poi, dopo un lungo tira e molla, col cuore in gola, aveva ceduto alle implorazioni di zu Pasquale ed aveva acconsentito a prestargli l’asino, non senza avergli fatto prima duemila e passa raccomandazioni. Le preoccupazioni di zu Nicola non erano del tutto infondate dal momento che zu Pasquale era conosciuto in paese per essere un uomo sciatto, l’unico che non sapesse caricare decentemente un asino. Mai una volta che fosse riuscito ad equilibrare la “sarma” per cui gli sventurati asini di cui era stato proprietario avevano sempre viaggiato con carichi obliqui, di sghimbescio che provocavano loro fastidiose piaghe alla schiena. L’incapacità del contadino era nota a tutti, logico che zu Nicola trepidasse per la sorte del povero Frisichello. 
   
Quando il somarello si allontanò tirato per la cavezza da zu Pasquale, una lacrima solcò la guancia del povero vecchio, ma nessuno se ne accorse,  tranne un figlio di buona donna, Salvatore, che cominciò a metterlo in apprensione prospettandogli future sciagure per il povero animale affidato incautamente ad una bestia come zu Pasquale. 
   Zu Nicola lo seguì con lo sguardo dal “Pizzo della villa”  fino a Canalaci, quando Frisichello, svoltata la curva, scomparve ai suoi occhi. Poi corse alla Timpa e da lì lo rivide nelle Monache, dopo aver scavalcato il torrente Matasse e, infine, un puntino appena percettibile, nei pressi del “ciaramedio”[5]  gli fece capire che l’asino era oramai nei pressi di Cerenzia.  Allora zu Nicola si pentì amaramente di aver ceduto alle insistenze del compare e cominciò a trepidare come non mai per le sorti dell’asino. Cominciò allora a calcolare il tempo necessario per raggiungere il bosco, per caricare il somaro e per tornare al ciaramedio, riproponendosi di aspettare, lì, alla Timpa per veder ricomparire “l’amato compagno di vita”. 
   Erano trascorsi una decina di minuti, forse anche meno, un tempo assolutamente insufficiente a caricare l’asino quando, alla curva di sant’Antonio, apparve un puntino nero che, dopo qualche secondo cominciò ad ingrandirsi sempre più. Dopo circa un minuto era possibile, ma solo ad un occhio di lince, discernere un asino che, al trotto, percorreva la strada polverosa. “ Frisichello, esclamò zu Nicola, Frisichello sta tornando da solo! Finalmente!, ed è anche scarico.”  “Frisichello?, disse beffardamente Salvatore, ma no! Frisichello a quest’ora sarà mezzo carico di legna. Ci penserà zu Pasquale a scorticarlo a dovere", aggiunse con perfidia per far imbufalire il vecchio. “Ma no, è Frisichello, disse ancora zu Nicola, non lo vedi?”. “Ma come è possibile affermare con tanta sicurezza che si tratta di Frisichello?, continuò quel buontempone, ancora è lontanissimo, è difficile riconoscerlo.”  “Ma vuoi che non riconosca il mio asino, il sangue del mio sangue”, sbottò zu Nicola mentre correva già verso la Parte incontro al suo amato somaro. In un baleno fu a Canalaci a riprendersi il ciuccio che, evidentemente a conoscenza della incapacità del suo “collega” zu Pasquale e, temendo per la propria incolumità,  con uno strattone si era liberato del suo probabile aguzzino ed era prudentemente ritornato al trotto dall’ amato padrone.

 



[1] Quando è morta mia moglie non ho sofferto tanto, l’ho sepolta senza sospiri e lacrime. Adesso che è morto l’asino lo piango con immenso dolore. Asino bello, cuore di questo cuore, come potrò ancora amarti?

 

[2] Padrino del figlio (sangiovanni, da San Giovanni il Battista)

 

[3] Carico di legna da ardere che può trasportare un asino

 

[4] Se vuoi in prestito mia moglie non ho problemi, ma l’asino no!

[5] Fornace dove venivano fabbricate le tegole (ciarameli)

 

La recensione di Salvatore Isidoro  a questo raccontino 

Uno spaccato malinconico del nostro passato, una spruzzata di nostalgia che certo non ho mai vissuto, ma che ho sentito molte volte raccontare da vecchie e gloriose labbra sapienti. Oggi, ognuno di noi ha smarrito il proprio “somaro”, ma nessuno dà molta importanza alla cosa. Oggi è un animale in via d’estinzione, un esemplare da tutelare, al limite una fredda e sbagliata comparazione per richiamare qualche alunno alle proprie deficienze scolastiche. Nulla più. 
Ieri era un valore, e come tutti i valori che sono surclassati dal tempo è necessario imprimere su “carta” ogni ricordo o memoria che altrimenti rischia di andare persa per sempre.
Spero che i ragazzi di oggi volgano lo sguardo più spesso al proprio passato. Lì, potrebbero trovare le fondamenta del loro futuro, il “
sangue del loro sangue” sgualcito dal tempo, deriso da una corsa alla tecnologia tanto utile, 
quanto dannosa se non ben dosata.
In definitiva un racconto semplice, scevro di giravolte letterarie, ma denso di 
contenuti.

 
Salvatore Isidoro