Poveri miliardari

 Le lussuose vacanze di un maestro di scuola

 

    

 La partenza

     Era da molti anni che la sognavo.  Spesso, durante il giorno, mi sorprendevo per qualche istante con gli occhi sbarrati nel vuoto, assente a me stesso, immobile, le labbra a disegnare una “O” di stupore e meraviglia, mentre nella mente scorrevano immagini meravigliose di spiagge assolate circondate da foreste lussureggianti. Penetrando con lo sguardo l’intrico del fogliame intravedevo, qua e là, squarci di alberghi meravigliosi, piscine, campi di tennis e di golf, mentre intorno a me altri turisti se ne stavano spaparanzati su comodi lettini da spiaggia circondati da uno stuolo di bellissime ragazze vestite  di solo fiori che facevano loro fresco agitando mollemente dei rami di palma. Altre fanciulle, non meno avvenenti,  se ne stavano languidamente  inginocchiate ai lati dei lettini porgendo a quei fortunati mortali ora bibite fresche, ora frutti esotici.  Accidenti che sogno! Una vacanza alle Seychelles era  quanto di meglio potessi desiderare nella vita, ma la mia precaria situazione finanziaria ed il mio magro stipendio mi riportavano rudemente alla realtà, il sogno svaniva rapidamente, la coscienza si riappropriava del mio essere ed io riprendevo la triste, noiosa, grama vita di sempre. Chi avrebbe mai immaginato che un giorno il mio meraviglioso sogno si sarebbe finalmente realizzato grazie all’Istat?
       Qualche tempo fa , infatti, l’Istituto di statistica, con mia grande sorpresa, mi ha comunicato, comunicandolo fra l’a
ltro, anche a mezzo mondo, alla faccia della privacy, che da ciò che risulta delle dichiarazioni dei redditi del 2005, faccio parte della categoria più ricca d’Italia, quella dei maestri elementari. Al mio confronto, non solo i professori di scuola media, quelli di scuola superiore e universitari (compresi i poveri baroni costretti per sopravvivere ad imbarcare nelle loro facoltà figli, figlie, nipoti e parenti vari), ma anche i gioiellieri, i mobilieri, i commercianti di abbigliamento, i concessionari di autovetture, i meccanici, gli elettrauto, perfino gli avvocati, i farmacisti, i liberi professionisti ci fanno la figura del pitocco.
        Preso dall’euforia per cotanta insospettata ricchezza piovutami addosso come una mazzata tra capo e collo,  finalmente mi decisi. Varcata la soglia di una delle più accreditate agenzie di viaggio, prenotai la mia vacanza esclusiva in un albergo a cinque stelle, uno dei più prestigiosi tra quelli che pullulano in quei lontani paradisi. Riempita la mia Samsonite con i più costosi capi di abbigliamento che sono solito indossare, riempito il portafogli di trevellers cheques, con cinque carte di credito, la tessera di socio del club dei miliardari, inforcati i Rayban, chiamai un taxi per farmi accompagnare all’aeroporto.  Qualche minuto dopo l’auto gialla si fermò davanti casa mia. Ne scese un povero tassista macilento, coperto di cenci, con un viso scheletrico ed  un corpo provato dagli stenti e dalla fame.
         “Professore, mi  apostrofò con voce rotta dai singhiozzi stendendomi pietosamente la mano, fate la carità a un povero tassista rovinato dal decreto Bersani.” Lo stato pietoso del poveraccio mi provocò  una sensazione di angoscia e di tristezza per cui, commosso fino alle lacrime, cavai di tasca un biglietto da 100 euro e glielo porsi con la raccomandazione di comprarsi almeno un panino. Poi, contrattata la corsa (150 euro per 20 chilometri ), mi accompagnò all’aeroporto. Per strada, ai semafori, torme di lavavetri infastidivano i conducenti di tutte le auto ferme in attesa del verde, tranne, ovviamente, i tassisti che, poveracci,  non sarebbero stati in grado di dar loro nemmeno un centesimo di mancia. “Quello è l’avvocato Trombone, mi disse il tassista indicandomi un lavavetri con la scopa e il secchio in mano, ridotto in queste pietose condizioni dal decreto Bersani, quell’altro è il notaio Dabollo e lo strillone che offre i giornali lì, all’angolo della strada,  è l’ingegner Ponteggi.” Guardandoli fui assalito da un grandissimo senso di colpa, io maestro elementare miliardario che  scialacquavo tutto il giorno e che da lì a qualche ora me ne sarei stato in uno dei posti più belli del mondo a godermi il sole, il mare, il profumo dei fiori e delle ragazze indigene mentre quei poveracci cercavano disperatamente di sbarcare il lunario, di raccattare almeno qualche centesimo  per comprarsi un panino con mortadella. “Maledetta politica, maledetti ministri”, mi sorpresi ad esclamare di fronte a quella miseria, mentre il tax filava verso l’aeroporto.

Sceso nel piazzale, fui costretto a dribblare centinaia e centinaia di poveri accattoni che stendevano pietosamente la mano a chiedere la carità. Medici, notai, farmacisti, costruttori, immobiliaristi cenciosi, macilenti, la barba lunga e incolta, pallidi per la fame e per gli stenti, gente abbrutita e rosa dalla sofferenza per colpa di un governo invidioso che li aveva tartassati e ridotti in quelle miserevoli condizioni e tutto questo per invidia. I derelitti non si limitavano a chiedere la carità, ma, spesso, esternavano la loro rabbia contro il governo che li aveva ridotti in quello stato. Uno dei più arrabbiati era un tizio, un tempo molto ricco e famoso che indossava ciò che rimaneva di una tuta celeste con impresso sul petto il nome di una famosa casa automobilistica. Il ricordo degli anni ruggenti, quando, ricchissimo nonostante tutto,  senza nemmeno sapere per quali meriti, ospitava sulla sua lussuosa barca miliardaria attricette e soubrettine che se lo coccolavano e gli facevano carezze e moine. “Questo governo ci odia, ci ha tartassato e ci ha costretto a chiudere le nostre aziende e a fallire. Abbiamo dovuto vendere le nostre lussuose barche, lasciare andare in malora le nostre ville, prosciugare i nostri conti correnti, licenziare i nostri commercialisti che ci insegnavano ad evadere le tasse e fottere lo stato, pagare anche noi questi odiosi balzelli quasi fossimo dei volgari maestri di scuola e tutto per invidia, per far studiare i figli dei morti di fame nelle scuole pubbliche pagate con le nostre tasse, per quella stupida fissazione di curare i morti di fame negli ospedali pubblici, di pagare inutili stipendi ai maestri di scuola, ai giudici, ai poliziotti,  ai carabinieri, perfino ai finanzieri, i nostri peggiori nemici! Cose da pazzi! Ed ora ecco i bei risultati”, si sfogava con chi, per pietà, si degnava  di starlo a sentire per qualche minuto, mentre stendeva le palme delle mani intirizzite verso una stufetta di una venditrice di caldarroste che se ne stava poco lontano, nel vano tentativo di rubarle un po’ di calore.
      Un po’ scosso da questo triste spettacolo, allungai il passo, costringendo il povero tassista che mi seguiva trascinando a stento la mia pesante valigia ad una corsa affannosa, attraversai di corsa la hall  e mi avviai al check in. Qualche minuto dopo le ruote del carrello del jet si staccavano dal suolo ed iniziava il mio viaggio verso le Seycelles.

A bordo la compagnia era davvero molto gradevole,  tutti rigorosamente miliardari: colleghi maestri elementari, metalmeccanici, tranvieri, manovali, infermieri, braccianti, perfino minatori, tutta gente avvezza agli agi e ai bagordi. Volavamo da circa due ore quando le hostess ci servirono un pranzo a base di aragoste, ostriche, caviale e champagne, cibi di cui noi maestri miliardari siamo notoriamente abituali consumatori. Poi, dopo altre due ore di volo, l’aereo cominciò la discesa verso l’aeroporto di Mahé dove atterrammo poco dopo.
      All’uscita dell’aerostazione ognuno di noi trovò ad attenderlo una limousine con  autista e un facchino pronti ad accompagnarlo in albergo. L’autista era un tipo giovane, moro di carnagione, probabilmente un indigeno, ma il volto del facchino mi risultò abbastanza familiare, anche se non riuscivo a dargli un nome. Aveva un viso lungo, occhi spiritati, un naso anch’esso lungo e adunco e i capelli a spazzola. Spinto dalla curiosità, lo misi al corrente di questa mia impressione ed egli mi rispose in italiano, lingua che parlava benissimo perché era effettivamente italiano. Mi disse di chiamarsi Luca e che, fino a qualche anno prima, era uno degli uomini più ricchi e potenti d’Italia. Ora, caduto in miseria, era riuscito, per fortuna, a rimediare quel lavoro di facchino che gli consentiva, con molti sacrifici, di sbarcare il lunario. La sua azienda, un tempo florida,  produceva  curiosi catorci che vendeva soprattutto agli Italiani e prosperava con le sovvenzioni dello Stato sempre attento a soddisfarne le richieste per evitare il licenziamento delle maestranze. Poi era arrivato questo governo bolscèvico che gli aveva fregato il TFR, una cosa che le imprese, negli anni ’20 del secolo scorso, avevano fregato, a loro volta,  ai lavoratori e da lì era iniziata la sua sciagura. Ed eccolo, ora, il povero Luca, costretto a sfacchinare e a trafficare con i bagagli di quei ricchi sfondati dei maestri di scuola. Sceso dall’auto lo congedai ficcandogli in mano una banconota da cento euro ed egli si prostrò commosso, mi baciò la mano, mi ringraziò a lungo e mi augurò una buona vacanza ed un ottimo soggiorno.
         Le sventure dei quel  povero ragazzo mi colpirono profondamente, tanto che la sera consumai svogliatamente, tra sospiri e lacrime, la mia solita cena a base  di paté de fois e  tartine di caviale del Volga. Poi mi ritirai nella mia suite e mi misi a letto. Accidenti, pensai mentre le palpebre stavano per chiudersi, hanno proprio ragione questi poveri miliardari, questo dannato governo sta producendo tanta di quella povertà che finiremo per abitare in  una sorta di Burundi e, per la seconda volta in poche ore, fui assalito da quel terribile senso di colpa provocatomi dei miei evidenti privilegi. Maledetto governo, pensai, mi sta rovinando le vacanze! Finalmente un sonno pietoso venne a strapparmi dalle mie angosce e ad avvolgermi tra le sue spire.

   Il soggiorno

 Mi svegliai riposato e pieno di energia. Le lunghe ore di sonno avevano cancellato l’angoscia che mi opprimeva ed il ricordo delle sciagure che avevano afflitto i poveri miliardari del mio paese. Ora potevo davvero godermi le vacanze. La suite era davvero bellissima, con tutti i conforts, gli agi,  di cui fa uso quotidianamente  un maestro di scuola italiano. Dopo la doccia mi vestii con cura, sistemai nella cassaforte le carte di credito, i traveller cheques, il Rolex, il portafogli gonfio di banconote e i documenti e scesi nella sala ristorante per la colazione. Mezzora dopo, scortato da quattro bellissime  ragazze incaricate di soddisfare ogni mia esigenza, mi avviai verso la spiaggia dov’era sistemato il mio ombrellone e il mio lettino sul quale mi sdraiai per rilassarmi e godermi quella meritata vacanza.  Due ragazze impugnarono dei rami di palma per farmi vento, mentre una terza mi offriva un drink e la quarta si apprestava a praticarmi un rilassante massaggio quando, nei pressi dell’ombrellone, si fermò uno sei soliti venditori ambulanti così frequenti sulle spiagge di Rimini affollate di poveri liberi professionisti e imprenditori. L’extra comunitario si avvicinò all’ombrellone e “Dottore, vu cumprà?”, farfugilò in modo incomprensibile. “I do not want to buy, thanks”, gli risposi sperando di togliermelo di mezzo. “Brovessore, volere gombrare rologi, gatenine molto belle? Pochi soldi, per favore, brovessore, tu comprare gualcosa.”
    Sentendolo esprimersi in italiano, ancorché stentato,  fui preso dalla curiosità e gli chiesi se fosse stato qualche volta  in Italia e per  quanto tempo.
   “Professore, mi rispose in perfetto italiano tra i singhiozzi, non ho abitato in Italia; io sono italiano. Mi fingo extracomunitario per impietosire voialtri maestri ricchi e raccattare qualche soldo. Fino a qualche tempo fa anch’io ero un ricco farmacista. Avevo ereditato la farmacia da mio padre che, a sua volta, l’aveva ereditata dal nonno e mi apprestavo a trasferirla a mio figlio che frequentava l’università da 20 anni e che, fra dieci anni, prevedeva di laurearsi. Eh, si, caro signor maestro, il ragazzo prometteva bene, studiava davvero con profitto! Stava ripercorrendo il mio cammino e avrebbe ereditato la farmacia Vivevo tra gli agi e il lusso e anche mio figlio non avrebbe avuto problemi se non fosse intervenuto un maledetto decreto che ci ha gettati sul lastrico. Come vede, mi sono ridotto a vendere cianfrusaglie su questa lontanissima spiaggia tingendomi la faccia col lucido per scarpe, parlando una lingua da troglodita e fingendomi extracomunitario per commuovere voialtri maestri miliardari.”  Mosso a compassione infilai la mano nel borsello che mi ero portato dietro, ne trassi la solita banconota da cento euro e gliela porsi. “Tenga, dottore, gli dissi e si compri qualcosa da mangiare.” “Grazie, grazie, professore, mi rispose commosso, vado a raggiungere il mio collega, l’architetto Pilastro che sta cercando di vendere qualche braccialetto dall’altra parte della spiaggia.”

L’intera giornata trascorse tra pietose conversazioni con finti “vu cumpra” che, dall’Italia, si erano oramai riversati a migliaia in quelle fantastiche isole, memori delle felici, spensierate  vacanze che vi avevano  trascorso negli anni d’oro delle mucche di carta, dei bond argentini, delle scalate fasulle a banche e società, delle cartolarizzazioni e dei condoni tombali. Ora, poverini, erano ritornati in quei posti per cercare di sfamarsi, cosa che gli riusciva a fatica e solo a prezzo di umiliazioni e sofferenze.  A sera mi resi conto che, alcune migliaia di euro, sotto forma di mance e pietose regalie erano transitati dalle mie tasche nelle quali tenevo sempre qualche spicciolo per le minute spese a quello di quei poveri miliardari, ma la cosa mi lasciò del tutto indifferente, dal momento che non era la prima volta che la cosa si verificava, anzi, a pensarci bene, era sempre stato così, sin da quando avevo cominciato a guadagnare le mie prime lirette, c’era stato sempre un continuo flusso di banconote dal mio portafogli a quello dei poveri notai, dentisti, avvocati, farmacisti, mobilieri, tassisti. Il giorno dopo la cosa si ripeté nelle identiche modalità per cui, non solo io, ma anche gli altri ricchi vacanzieri, metalmeccanici, tranvieri, minatori, manovali, bidelli cominciammo a protestare con la direzione dell’hotel e a chiedere con forza che fosse impedito ai  vu cumprà italici l’accesso alla spiaggia.

Il mattino dopo, mentre accompagnato dalle mie “odalische” mi recavo in spiaggia, udii in lontananza grida e schiamazzi la cui intensità aumentava man mano che mi avvicinavo alla riva del mare. Ad un certo punto vidi gli uomini della sicurezza dell’hotel che avevano transennato l’accesso alla spiaggia impedendo i passaggio ai vu cumprà che manifestavano la loro rabbia e pretendevano di scavalcare le transenne per raggiungere la direzione dell’albergo. Li guidava un loro delegato che sembrava il più esagitato. Aveva una barbetta caprina da Mefistofele, lo sguardo spiritato, i capelli spettinati e gridava come un ossesso frasi sconnesse con uno strano accento siculo – lombardo. Accanto a lui un altro manifestante con una rada barbetta che seppi poi essere un sassofonista del varesotto, uno che ai tempi del decreto salvaladri firmava le carte senza capire cosa c’era scritto, urlava a squarciagola “Questa finanziaria è una porcheria! Questa finanziaria è una porcheria!” Per fortuna gli uomini della sicurezza ressero l’urto della massa vociante e i vu cumprà dovettero tornarsene da dove erano venuti. Quel giorno, finalmente, maestri, operai, pensionati al minimo, infermieri, tranvieri, insomma i nuovi miliardari creati dalla finanziaria dei bolscevichi, potemmo finalmente goderci la nostra prima, vera giornata di vacanza in quel meraviglioso paradiso.

La sera, dopo una cena a base di aragoste, ostriche, caviale e champagne, festeggiammo l’evento con un party   organizzato dalla direzione dell’hotel. La festa, tra canti, balli, marijuana e cocaina, si protrasse fino all’alba, poi, stanco, ma soddisfatto e felice, mi ritirai nella mia suite pensando a come sarebbe stata  bella  la vita ora che anche noi, anzi solo noi lavoratori dipendenti, eravamo diventati, grazie ad una magica finanziaria, miliardari. Pochi minuti dopo ero già nelle braccia di Morfeo.

 Il risveglio

 Non mi resi conto da quanto tempo dormivo, ma, ad un tratto, nel sonno, sentii un rumore infernale, una specie di sirena lontana. “Accidenti, pensai, è il sistema d’allarme dell’hotel. Che stia andando a fuoco l’albergo?” Ancora intontito dal sonno, ma preoccupato che qualche imprevisto cataclisma potesse rovinare le mie vacanze, aprii gli occhi e mi guardai intorno. La lussuosa suite era sparita e al suo posto, chissà come, si era materializzata la mia vecchia camera da letto. Sul comò la maledettissima, vecchia  sveglia, col suo caratteristico baccano, mi ricordava che era ora di alzarmi per recarmi nella mia povera scuola dall’intonaco scalcinato, con la serranda rotta da tre anni, i bagni dei docenti con le luci psichedeliche ad arrabattarmi con POF,  programmazioni, unità di apprendimento, valutazioni Invalsi ed altre curiose trovate studiate per impedire agli insegnanti di insegnare, per guadagnarmi il pane quotidiano. Sulla porta mi consegnarono la mia favolosa busta paga.

All’uscita seppi che il decreto Bersani era stato stravolto, che la finanziaria approvata era completamente diversa da quella presentata, che i ricchi continuavano a non pagare e i poveri ad essere tartassati che, insomma, come dice il vecchio adagio popolare calabrese, “  ‘ U Patreternu auta’ l’aiutatu ca’  ‘u pezzente c’è ‘maparatu”. Tutto tornava come prima. Ora tassisti, farmacisti e  dentisti, avvocati e deputati, commercialisti, immobiliaristi, affaristi, potevano finalmente stare tranquilli; nessuno avrebbe più osato affermare pubblicamente che anche loro dovevano pagare le tasse. “Anche i ricchi non piangono, pensai tra me, parafrasando il celebre film di Rafael Banquelles,  mentre tornavo a casa. Accidenti, l’ho scampata bella! Tutto quello champagne, quelle ostriche, quei party a base di coca e marijuana mi avrebbero certamente spappolato il fegato!” Così tirai un lungo respiro di sollievo e sorrisi felice al pensiero di com’ero fortunato io e di come, viceversa, sono sfortunati quei poveri miliardari.

                                                                   Giuseppe Marino

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