La dignità di nonno Saverio |
Nonno Saverio era un vecchio
analfabeta che, inspiegabilmente, aveva una mentalità molto moderna per
quei tempi e che coltivava una grande passione per la musica e per il
melodramma. Anche quando era in America, nonostante trascorresse tutto
il giorno nel fondo di una miniera di carbone di Clarksburg, ogni volta
che in paese si esibiva una banda, faceva di tutto per non perdersi il
concerto. Nonno Saverio (a sinistra) e zu Luigi Covello
Nonno Saverio era
rimasto orfano di entrambi in genitori in
tenera età, quando ancora non aveva imparato a camminare per cui visse
per qualche anno con i nonni poverissimi, che, non potendo sfamare
un’altra bocca, non ancora adolescente, lo affidarono ad alcuni
pastori dell’Aspromonte con i quali rimase a pascolare le greggi per
qualche anno, poi divenne cavatore di “zomme”,
la radica di erica usata per fabbricare pipe per i signori e, vagando di
qua e là per le montagne calabresi alla ricerca del prezioso legno,
capitò a Caccuri agli inizi del Novecento. Da bambino al suo paese
aveva assistito ad un efferato omicidio per cui conservò per tutta la
vita l’immagine della vittima esanime, con
un’accetta conficcata in mezzo al cranio sulla porta della farmacia
del paese. Quell’episodio lo segnò irrimediabilmente per
cui prese in odio la violenza e cercò sempre di tenersi lontano dai
criminali e dai prepotenti. Purtroppo nel suo paese la violenza era pane
quotidiano ed egli ne soffriva moltissimo e sperava sempre di capitare
in un posto dove questo piaga non fosse di casa..
Nonno Saverio arrivò a Caccuri agli inzi del secolo scorso, di
sera, quando oramai
il sole era tramontato da qualche ora e le tenebre erano rischiarate
solo da qualche tenue fiammella che filtrava dalle finestrelle delle
casucce appollaiate sulla “rupa” e sui Mergoli, entrando a piedi da
Canalaci assieme ad alcuni suoi compaesani. Il buio era fittissimo e i
cavatori avanzavano sul sentiero facendosi luce con qualche torcia di
“varbaschi”[2].
Avevano passato da poco la fontana quando giunse allo loro orecchie un
rumore indefinibile, comunque gradevole, e guardando verso l’attuale
piazza nella direzione dalla quale proveniva quell’indecifrabile
frastuono, videro delle
scintille che guizzavano in tutte le direzioni. Incuriositi, ma anche
leggermente intimoriti, avanzarono con circospezione sul sentiero
pensando a qualche stregoneria e, più avanzavano, più quel rumore
diventava più percettibile e più gradevole, mentre le scintille
apparivano luciccanti. Giunti oramai al ponte della Parte si resero
conto che quello che di primo acchito era sembrato un rumore strano era,
in effetti, un suono di chitarra ed allora, rincuorati, avanzarono con
passo più deciso e, arrivati in piazza, scoprirono finalmente
l’arcano: un contadino con una battente accompagnava una sfrenata
tarantella, mentre gli amici, in cerchio, ballavano vorticosamente sulla
silica[3]
e le tacce ed i trincilli[4]
delle loro scarpe chiodate producevano quelle misteriose “stelle
filanti “ che li avevano messi in apprensione.
Nell’estate del 1954 si recò a Merano a
far visita ai figli che si erano stabiliti nella cittadina
altoatesina da qualche tempo. Il giorno, quando erano al lavoro ed i
nipotini a scuola, passeggiava per la città che doveva sembrargli un
paradiso. Per arrivare in centro, lasciata Maia Bassa, prendeva per via
Maia, una strada alberata con
decine di platani il cui numero esatto lo conosceva solo lui e che
lambiva Maia Alta, il quartiere residenziale per poi sbucare
nei pressi del Ponte della Posta, il ponte sul Passirio. Qui
nonno svoltava a sinistra ed imboccava le fantastiche passeggiate
d’estate tra il ponte della Posta ed il ponte Teatro, si sedeva in una
panchina di fronte il Casino ed ammirava le fantastiche “sculture
floreali”, capolavori inimitabili della giardineria comunale meranese.
Un giorno, come al solito, partì da Maia Bassa lungo via Roma.
Arrivato all’altezza della chiesa di Santa Maria del Conforto svoltò
a destra ed imboccò la via Maia, quindi oltrepassò il Passirio e svoltò
sulle passeggiate d’estate come faceva sempre. Non fece caso ad una
transenna che era stata posta nei pressi del Casino, anche perché
vedeva che la gente passava tranquillamente sotto lo sguardo distratto
di due vigili urbani fermi nei pressi di un varco. Continuò la sua
passeggiata in direzione di piazza Teatro e. giunto
al varco fu bloccato dai due vigili. “Ehi, signore, dove sta
andando?”, gli chiesero gli uomini in divisa. “Faccio una
passeggiata, rispose nonno, arrivo
fino a piazza Teatro e poi risalgo lungo Corso Libertà.”
“Non si può risposero i vigili, non sa che oggi c’è il
concerto e per ascoltare l’orchestra bisogna avere il biglietto?.”
Nonno si sentì mortificato e cercò di scusarsi. “Non lo
sapevo, vi chiedo scusa, non sapevo che
c’era il concerto e che per entrare nelle passeggiate bisogna
pagare il biglietto. Io non sono di Merano, sono qui solo perché sono
venuto a trovare mio figlio.” I vigili, incuriositi, cercarono di
intavolare un po’ di conversazione per farsi perdonare il tono un
po’ brusco usato poco prima e chiesero al vecchio di dove fosse .
Nonno rispose loro che era calabrese e i vigili gli chiesero ancora
chi fosse il figlio che era venuto a trovare.
Nonno rispose che era il tenente
Chindamo. I due vigili ebbero un
soprassalto nel sentire nominare il loro diretto superiore e,
impallidendo, cercarono di improvvisare qualche scusa per blandire il
vecchio padre del loro comandante. “Beh, fece uno di loro, se è il
padre del tenente Chindamo vada pure, non ci sono problemi.”
“Ci scusi, aggiunse l’altro, non sapevamo che lei fosse il
padre del nostro comandante, vada pure a gustarsi il concerto.”
“No, rispose, nonno Saverio, vi ringrazio per la vostra
gentilezza, ma non posso; non ho pagato il biglietto, quindi non è
giusto che vada a seguire il concerto senza biglietto. Buona
giornata”, aggiunse girando i tacchi e lasciando i due vigili
sbalorditi. Quindi tornò al ponte della posta, imboccò Corso Libertà,
si infilò in via Leonardo da Vinci e si infilò nel negozio di uno dei
due figli.
Quando i due malcapitati vigili scusandosi cento volte, raccontarono
mortificati, l’episodio a
zio Giovanni, “il burbero comandante” fu assalito da sentimenti
contrastanti di commozione e di orgoglio per essere il figlio di un uomo
così dignitoso e ringraziò i due agenti per il tatto e
la sensibilità di cui avevano saputo dar prova.
[1] Fuochi d’artificio nel dialetto sangiovannese [2] Infiorescenze di un arbusto imbevute di morga, il residuo inutilizzabile dell’olio [3] Selciato [4] Chiodi e lunette di ferro [5] Cavatore di zomme, di radica [6] Graffio
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