Nottata
infernale
Mastro
Giuseppe era un gran burlone; sembrava avesse un solo scopo nella vita:
divertirsi alle spalle del
malcapitato di turno senza preoccuparsi delle eventuali conseguenze delle sue
gesta.
Una
volta gettò nella disperazione e nel dolore per alcune ore una intera famiglia
spargendo la voce che mastro Luigi, il capofamiglia, era deceduto
improvvisamente mentre si trovava in un suo fondo a Lupia per eseguire alcuni
lavori. La moglie e le figlie, appresa la ferale notizia, si misero
immediatamente in gramaglie e
accorsero piangenti al fondo di Lupia dove l’artigiano, più vispo che mai,
era intento a zappare la terra. Quando seppe il motivo di quella lugubre
processione, mastro Luigi gettò la zappa e si precipitò in paese deciso a
scannare come un capretto quel delinquente di mastro Giuseppe, ma il lazzarone
se la cavò da par suo spiegando all’infuriato interlocutore che lui si era
limitato a raccontare un sogno nel quale l’amico era effettivamente morto e
che quel salame di Pasquale, un giovanotto un po’ dolce di sale con il quale
tutti i Caccuresi si trastullavano per la sua dabbenaggine, aveva confuso il
sogno con la realtà diffondendo in paese quell’assurda notizia.
Ma
lo scherzo più feroce e che avrebbe potuto avere conseguenze gravi, forse anche
letali, fu quello che combinò al povero mastro Giovanni.
Era
questi un uomo pio e buono, un cattolico fervente tutto casa e chiesa. Non si
perdeva mai una messa, né si era mai addormentato una sola volta nella vita
senza prima aver recitato le orazioni serali e fatto il segno della croce. Quel
briccone di mastro Giuseppe conosceva queste sue abitudini e aspettava da tempo
l’occasione per combinargliene una delle sue.
Una
sera d’autunno, verso le sette, mastro Giovanni, stanco e impolverato, bussò
alla “casella” di mastro Giuseppe a Lamari, dove il compaesano si era
trasferito da qualche giorno per coltivare una sua proprietà, chiedendogli
ospitalità per la notte. Tornava da Cotrone e aveva camminato per tutto il
giorno. Proprio non ce la faceva a farsi le cinque miglia che lo separavano
ancora da Caccuri, guadare due ruscelli, salire l’erta di San Rocco, il tutto
in piena notte.
Mastro
Giuseppe lo accolse calorosamente, lo fece lavare, lo rifocillò e gli indicò
un giaciglio per la notte, poi uscì con la scusa di accudire gli animali e
rimase fuori per una mezz’oretta. Quando tornò
chiacchierò amabilmente con l’amico,
poi venne l’ora di andare a dormire.
“Caro
mastro Giovanni, disse il briccone
prima di spegnere la lanterna che illuminava la
casella, prima di metterci a dormire vi devo avvisare di una cosa: io ho
un problema molto serio. Probabilmente sono
posseduto dal demonio; niente di preoccupante, però vengo colpito da crisi e
divento indemoniato se qualcuno, in mia presenza, si mette a recitare preghiere
o a farsi il segno della croce, perciò, se avete di queste abitudini, vi prego
di evitare di farlo, ne va della
vostra vita.
Il
povero mastro Giovanni rimase
impressionato di quella rivelazione e un sudore gelido gli imperlò la
fronte, nonostante un gran fuoco ardesse nel caminetto riscaldando oltremodo la
casella. S’acconciò a malincuore a rinunciare alle orazioni, ma almeno
sperava di non essere costretto a
rinunciare anche al segno della croce. Non avrebbe certamente chiuso occhio per
tutta la notte, pensava, se non avesse potuto compiere questo suo dovere di
cristiano. “Aspetterò che mastro Giuseppe si addormenti, pensava, poi, senza
farmi vedere, potrò farmi il segno della croce e ringraziare il Signore per
questa ulteriore giornata che ha
voluto concedermi.” Finse allora di dormire e aspettò che il padrone di casa
facesse altrettanto.
Il
briccone fingeva anch’egli di dormire, ma un occhio era chiuso e l’altro
aperto poi, per rendere più credibile la sceneggiata, si mise a ronfare tenendo
d’occhio l’amico che intravedeva alla luce rossastra del fuoco del
caminetto.
Mastro
Giovanni, convinto oramai che l’amico dormisse profondamente, si mosse
leggermente nel letto, si mise a sedere, si fece lestamente il segno di croce e
si preparò a sdraiarsi per dormire. Allora si scatenò l’inferno.
Mastro Giuseppe gettò un urlo terrificante, balzò dal letto con i lineamenti stravolti, la bocca storta, urlando come un ossesso, digrignando i denti e gesticolando in modo rabbioso. Mastro Giovanni, terrorizzato, si ritrovò di colpo in piedi, spalancò la porticina e scappò via correndo a perdifiato come una lepre inseguita da una muta di cani, senza voltarsi indietro e prendendo la strada per Caccuri. Morto di spavento, con cuore in gola e le calcagna che gli battevano sul fondo schiena, percorse un paio di centinaia di metri. All’improvviso, in lontananza, gli si parò davanti un gigantesco diavolaccio cornuto. In mano aveva un tridente e dagli occhi e dalla bocca emanava bagliori rossastri.
Più
morto che vivo, girò i tacchi tornando
verso la casella dell’indemoniato dalla quale continuavano e provenire urli
terrificanti e rumori di catene.
“Miserere mei, Domine”, riuscì a profferire a malapena , cercando di
scappare via da quel luogo infernale. Fece un lungo giro, aggirò la casella e
tornò verso Cotrone. Rimase acquattato e tremante nel bosco di Campodanari fino
al mattino. Ogni ombra, ogni stormir di fronda, ogni verso di uccello notturno
lo facendo trasalire e il cuore sembrava volesse scoppiargli nel petto.
Le
prime luci dell’alba riportarono finalmente un po’ di coraggio in quel cuore
di coniglio. Attese che il sole fosse alto poi, con le gambe molli e ansante si
avviò verso Caccuri ancora terrorizzato al pensiero di dover riattraversare
quei luoghi maledetti. Facendo due passi avanti e uno indietro giunse in vista
della casella: una calma assoluta regnava nella zona. Si sentì un po’
rincuorato e proseguì per la sua strada. Oltrepassata la casella giunse sul
posto dove gli era apparso il diavolaccio. Guardò in quella direzione e trasalì:
il demonio era ancora lì a sbarrargli la strada. Il cuore gli
balzò di nuovo in gola, poi ebbe un attimo di lucidità. “Come è possibile,
si chiese, che un essere infernale, una creatura della tenebre possa rimanere
tranquillamente su questa strada, in pieno giorno alla vista di tutti?” Si
fece un po’ di coraggio, avanzò di qualche passo. Il diavolo era ancora lì,
immobile. “Strano, molto strano”, pensò.
Cautamente fece qualche altro passo guardò più attentamente, la mente
gli si schiarì. L’essere diabolico era nient’altro che un fantoccio, un
maledettissimo, fottutissimo spaventapasseri con un tridente infilato per il
manico nel terreno e la manica di una vecchia giacca attaccata come un braccio
che lo reggeva. Dietro il fantoccio una lunga pertica infilata nel suolo reggeva
una zucca incavata nella quale erano stati praticati alcuni fori a simulare gli
occhi e la bocca. All’interno della zucca i resti di un moccolo di candela
oramai spento dopo avere bruciacchiato la corteccia. Due corni di bue
completavano il capolavoro di mastro Giuseppe.
Mastro
Giovanni fu preso da un furore indicibile per lo stupido scherzo di cui era
stato vittima. Per la prima volta in vita sua gli scappò un sacramento. Fece a
pezzi il fantoccio, sferrò un poderoso calcio alla zucca che andò in frantumi
e si avviò avvilito e furente verso Caccuri.