L’agguato di San Biagio

 

  Era una fredda mattinata di marzo del 1858. Infreddoliti e un po’ assonnati, i gendarmi borbonici se ne stavano acquattati fra i cespugli di San Biagio ai lati del sentiero che, da Campanelli, saliva  a Furnia per poi proseguire verso Patia, Jimmella e San Giovanni in Fiore. Di fronte a loro, poco più in basso, distinguevano, nella luce incerta dell’alba, la sagoma della “Chiesuola”, la piccola icona che ospitava il povero quadro del santo  al quale faceva riferimento il toponimo.

Erano lì da alcune ore da quando in paese si era sparsa rapidamente la notizia dell’ultima, efferata strage di alcuni pastori di Tenimento che erano stati attaccati e depredati, la sera prima, da una banda di masnadieri. Le modalità dell’impresa e la crudeltà mostrata dai briganti non lasciavano dubbi: si trattava, quasi sicuramente, della banda di Zirricu, il crudele fuorilegge che infestava la zona.

Da molto tempo si sapeva che la feroce accozzaglia di briganti trovava rifugio nel bosco di Eydo, ma, nonostante numerose battute, non si era mai riusciti a intercettare e sgominare la banda, anche perché i fuorilegge conoscevano a menadito la zona e potevano contare su una fitta rete di informatori e complici che, all’occorrenza, li metteva a conoscenza delle mosse dei gendarmi.  Questa volta, però, contando sul fatto che la notizia dell’ultima bravata era giunta in paese in un baleno e che i banditi non potevano esserne a conoscenza, i gendarmi pensarono di cogliere di sorpresa i criminali. Sicuramente, per raggiungere il bosco di Eydo e mettersi al sicuro Zirricu e soci avrebbero percorso quel sentiero e, dunque,  sarebbe stato facile tendere loro un agguato proprio a San Biagio.

Ed ecco all’alba spuntare giù in fondo, a mezza costa, la comitiva dei briganti armati fino ai denti e carica di bottino. Avanzavano lentamente per la stanchezza e per il peso delle ruberie che si trascinavano dietro sicuri, anche questa volta, di farla franca.

I gendarmi trattennero il fiato, puntarono gli schioppi e si preparano ad accoglierli a fucilate.  Attesero qualche minuto: ancora pochi metri e i criminali sarebbero stati a tiro. Poche schioppettate sarebbero state sufficienti a porre fine alla carriera di uno dei più spietati criminali che aveva terrorizzato le nostre contrade e della sua feroce combriccola. Era orami questione di attimi.

All’improvviso, quando tutti trattenevano il fiato e le dita sui grilletti erano pervase da uno strano formicolio, uno starnuto ruppe quel silenzio irreale e dal fucile del malcapitato gendarme partì accidentalmente un colpo. Colti alla sprovvista tutti gli altri scaricarono le loro armi in direzione del gruppo di briganti che si gettarono lestamente a terra. Fu questione di un secondo, poi i bricconi si levarono prestamente e si diedero ad una fuga precipitosa lungo il pendio verso Campanelli. I gendarmi si gettarono all’inseguimento, ma era oramai chiaro che, almeno il grosso della banda l’avrebbe fatta franca.

Mentre tutti correvano a precipizio lungo la scarpata, uno dei gaglioffi inciampò, cadde a terra, urlò di dolore. Cercò di rialzarsi, ma ricadde: si era fratturato una gamba. In quelle condizioni sarebbe certamente caduto in mano dei gendarmi che lo avrebbero torturato, fatto cantare, rivelare il nascondiglio della banda. Si vide allora il terribile Zirricu tornare indietro precipitosamente armato di una grossa scure. Si avvicinò al malcapitato compagno che implorava aiuto e, con un colpo netto, gli recise il capo. Poi afferrò il macabro trofeo, lo infilò lestamente in un sacco e se la diede a gambe sotto gli occhi attoniti e atterriti dei gendarmi.

Qualche tempo dopo il suo stesso capo, troncato dalla mannaia di un compare fellone passato dalla parte della legge, venne esposto per due giorni su un cippo in piazza Umberto a monito per la popolazione.

 

                                                       Giuseppe Marino

 

Il racconto è la ricostruzione romanzata di un fatto di cronaca riferito dalla tradizione orale.

 

 

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