La fine del brigante Gasparone |
Era
una dolce giornata del mese di maggio. L’aria era tiepida ed il sole brillava
nel cielo accarezzando i fiori di
campo nei verdi prati che circondavano il paese. Stormi di rondini, garrivano
felici incuranti o, forse ignare, della tragedia.
Nella
miserabile catapecchia i cinque morti giacevano su povere cassapanche composte
alla meglio dalla pietà e dal dolore dei parenti. I pianti ed i gemiti
rompevano il magico incanto della giornata primaverile, mentre sull’uscio,
crocchi di contadini, col cappello in mano, qualche lacrima che solcava il loro
volto scavato e l’angoscia che li attanagliava, commentavano sommessamente
l’accaduto. Pasquale Mignaccio, la moglie Annuzza, la figlia Luisa ed i figli maschi, Nicola e Salvatore, che aiutavano il padre nel duro lavoro dei campi, erano stati scannati come capretti, sgozzati nel sonno da una furia bestiale e irrazionale, mentre dappertutto erano visibili i segni del saccheggio e della devastazione. Capre, agnelli, galline, provviste, niente era stato risparmiato dalla terribile banda di razziatori che avevano anche rovistato da cima a fondo la casuccia alla ricerca di chissà quale tesoro. Ancora
una volta il terribile Gasparone, con la sua orda di masnadieri, aveva seminato
terrore e morte nella campagna caccurese. Era costui un feroce brigante che, da
anni, scorrazzava nei dintorni del paese facendo strage di povera gente. Il solo
nome faceva gelare il sangue nelle vene, ma al pari di lui era temuta la sua
trista moglie, Assuntina, ma che tutti conoscevano col soprannome di Gasparazza.
Di
Gasparone e della sua banda si diceva che avessero scelto come rifugio alcune
grotte nella contrada di “Sotto le Timpe”, una zona impervia e ricoperta da
una fitta boscaglia che i briganti conoscevano a menadito, ma nella quale mai la
Guardia urbana aveva avuto il coraggio di avventurarsi. Nessuno osava
oltrepassare la chiesa di San Rocco dalla quale si dominava la vallata e gli
occhi temevano persino di posarsi su quella zona maledetta. Al
mattino presto, quando i cadaveri delle povere vittime erano stati scoperti da
un contadino che abitava a Laruso, a meno di un miglio di distanza dalla
casupola del povero Pasquale, molta gente era accorsa a consolare i parenti e a
rendere omaggio ai morti. Era venuto anche don Matteo, il capo degli
urbani con dieci sue guardie ed aveva sostato a lungo nella fattoria
visibilmente sconvolto. Questa volta Gasparone aveva davvero superato i limiti,
ma la paura era tale che nessuno osava dar voce ai propri pensieri. Don Matteo
fece un segno ai suoi uomini e si allontanò lentamente da quel luogo che era
stato teatro delle atroci efferatezze dell’imprendibile brigante. Erano
oramai trascorsi dieci giorni dal giorno della strage.
La sera del due di giugno la luna piena rischiarava il cielo caccurese.
Sul sentiero per il Bordò le ombre degli elci e dei sugheri disegnavano strane,
mostruose, bizzarre figure. Un
silenzio innaturale rendeva più tetra la campagna. Verso le nove ombre furtive
comparvero da una svolta avanzando guardinghe e lentamente risalirono il
viottolo verso Matasse. Erano cinque uomini e tre donne armati di tutto punto.
La luce lunare li rendeva abbastanza visibili, nonostante le ombre spesso li
nascondessero per qualche attimo a chi eventualmente li avesse osservati da
lontano. Fecero un centinaio di metri e si ritrovarono in un tratto di strada
dove la vegetazione era più rigogliosa. All’improvviso
scoppio l’inferno. Un uragano di fuoco investì la comitiva da ogni direzione.
Caddero immediatamente quattro degli uomini e una delle donne. Il quinto tentò
di fuggire per dove era venuto, ma una nuova tempesta di fuoco lo investì di
fronte, mentre cinque urbani piombavano su Gasparazza e Belladonna, le due
brigantesse superstiti disarmandole e legandole ben strette. Altri balzarono
dalle tenebre dirigendosi nel luogo ove era caduto, barcollando, Gasparone,
ferito ad una gamba, mentre il trombone gli sfuggiva di mano.
Il
brigante, ruggendo come un leone, si alzò a fatica, tentò una vana resistenza,
sguainò il pugnale cercando di difendersi, ma uno degli urbani lo colpì
violentemente sul braccio con i calcio del fucile. Il dolore gli fece cadere di
mano il pugnale e, in breve, fu disarmato e legato. Don
Matteo balzò dalle tenebre, diede alcuni ordini secchi ai suoi uomini e poi si
rivolse a colui il quale, fino a poche ore prima, aveva seminato terrore e morte
nella zona. “La tua carriera è finita, farabutto, gli sibilò, domani stesso
sarai fucilato ed il mondo avrà finalmente un ladro ed un assassino in meno!”
Il brigante, per tutta risposta, gli sputò in faccia, ma il capo urbano gli
assestò un tremendo pugno sul volto mandandolo a rotolare per terra. Poco
dopo tre guardie, che si erano allontanate, ritornarono sul luogo dello scontro
trascinandosi dietro alcuni asini ed i loro terrorizzati padroni.
Le salme dei quattro uomini e delle due donne furono caricate di traverso
sui basti dei somari e, su un altro, fu posto a cavalcioni e legato Gasparazzo,
mentre le due brigantesse, anch’esse con le mani legate dietro la schiena,
erano spinte innanzi col calcio dei fucili dagli urbani. Verso
la mezzanotte la comitiva, per Canalaci, giunse in paese dove, intanto, era già
giunta la notizia della cattura del terribile brigante. Nessuno osava mettere il
naso fuori dalla porta tanta era ancora la paura del celebre briccone, ma
centinaia di occhi spiavano, da dietro le finestre, il corteo che avanzava tra
le grida di vittoria degli urbani. Gasparone,
Gasparazza e Belladonna furono condotti nei sotterranei del castello e guardati
a vista da cinque guardie, mentre altri urbani facevano al ronda all’esterno
del castello. Il
giorno dopo il terribile brigante, colui che aveva terrorizzato Caccuri e
dintorni, la moglie e la brigantessa superstite furono condotti al Petraro, il
luogo arido e pietroso sotto il castello, dove avvenivano le esecuzioni e qui
fucilati per la schiena. Furono
necessarie due scariche per porre fine all’esistenza di uno dei più feroci
briganti che avesse mai infestato la zona. Pare che dopo la prima scarica
ruggisse ancora come un leone furibondo maledicendo i suoi carnefici. La
morte ridusse, ma non eliminò del tutto il terrore dei contadini che, molti
anni dopo, tremavano ancora al solo sentire il nome di Gasparone, E molti
giurarono di aver spesso visto, nelle notti di luna, il suo fantasma, quello di
Gasparazza e quelli dei suoi uomini, spesso seduti in cerchio al Petraro,
proprio nel luogo dove era stato fucilato,
a banchettare e a progettare altre efferate imprese.
Giuseppe Marino
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