Di
necessità, virtù
Il
viaggio era stato alquanto avventuroso, come poteva essere avventuroso, a quei
tempi, percorrere quasi centoventi
chilometri (questa era la distanza che separava lo sperduto paesino dal
capoluogo di provincia) con mezzi di fortuna, [1]su
strade polverose e sconnesse, con i rischi e i pericoli cui si andava incontro
attraversando certe zone.
Erano
entrati in Catanzaro allo spuntar dell’alba, dopo circa tre giorni che avevano
lasciato il paese e, alle sette del mattino, erano già davanti al catasto dove,
grazie all’intraprendenza, alle amicizie e alle astuzie del prete, erano
riusciti, nella stessa mattinata, a visurare
i registri e ad ottenere gli agognati certificati. Ora era quasi
mezzogiorno e i morsi della fame cominciavano a farsi sentire, tanto più che i
tre erano svegli dalle quattro del mattino ed avevano camminato
a lungo.
Zu
Peppino e zu ‘Ntoni, entrambi
buone forchette ed eccellenti bicchieri, nonché “uomini di mondo” sapevano
che a Catanzaro era dato gustare il migliore spezzatino che si possa preparare
al mondo, “ ‘u murzeddu” (1),
piatto prediletto dagli antichi abitanti della “capitale della seta” e non
solo, per cui non vedevano l’ora di sedersi al tavolo di una delle tante
trattorie che pullulavano nella cittadina, per riempire una bella pitta calda di
quell’eccellente intingolo ed accompagnarlo con un paio di bottiglie a testa.
Anche l’arciprete, nonostante fosse venerdì, giorno di magro, aveva più o
meno le stesse intenzioni per cui si diedero a cercare un’osteria. Purtroppo,
proprio il giorno prima, Catanzaro aveva ospitato il Duce nel giorno del famoso
discorso del “passo avanti”, quando, alle migliaia di persone accorse in
piazza ad ascoltarlo, il capo del Fascismo disse: “Calabresi,
Camerati,
militi, avanguardisti, piccole italiane, parassiti, saprofiti, balilla, figli
della lupa, lupi in camicia nera avevano perciò divorato tutto quello che si
poteva divorare, dando fondo alle provviste della città amata da Carlo V°. Così,
quando i tre amici riuscirono, finalmente, a trovare una bettola in grado di
poter dar loro qualcosa da mangiare, si sentirono offrire, a patto che potessero
pagare, una zuppa di cavoli Questo era tutto
ciò che il bettoliere era riuscito a preservare dalle fameliche ganasce delle
camicie nere.
“Almeno
si può avere una bottiglia di vino?”, esclamò zu Peppino seriamente
preoccupato e con tono supplichevole. “Anche due?”, aggiunse ancor più
preoccupato di un eventuale rifiuto zu
‘Ntoni pensando che una sola bottiglia non sarebbe bastata nemmeno a
sciacquarsi il gargarozzo impolverato. “Il vino, per fortuna, non manca,
rispose l’oste ponendo fine alle terribili angosce dei due amici, potete
averne quanto ne volete.” La gioia
dei due amici, che in cuor loro maledivano i seguaci del
Duce che li avevano privati del “murzeddu” era evidente e l’oste si
affrettò ad eseguire la comanda. Pochi
minuti dopo mise in tavola tre piatti fumanti di zuppa di cavoli e due bottiglie
di vino che i due amici tracannarono in un baleno, tanto che fu necessario
ordinarne altre due e poi altre due ancora.
“Bene”,
disse ad un certo punto zu Peppino dopo aver tracannato l’ennesimo bicchiere,
ora ci vorrebbe qualcosa per farsi la bocca, insomma
‘n asciutta stomacu.“
“Parole
sante, aggiunse zu ‘Ntoni, possibile che un cristiano non possa
mangiare da cristiano in questa maledetta città?”
“Accidenti
a chilli ‘e ru joccu (2) e alla
loro voracità!”, esclamò don Peppino riferendosi ai fascisti e alla loro
mania di portare il fez col fiocco, mentre chiamava a gran voce l’oste.
“Ma possibile non ci sia proprio più niente da mettere sotto i denti
in questa città, chiese il reverendo al malcapitato oste, che so io, un po’
di prosciutto, una alice salata, una crosta di formaggio, niente di niente?”
“L’unica
cosa rimasta in cucina, rispose lo sconsolato avventore, è un uovo sodo, uno
solo, posso portarvi quello.” “E vada per l’uovo sodo, rispose il
sacerdote, portaci almeno quello.”
Qualche
attimo dopo l’oste mise in tavola l’uovo che i tre guardarono con cupidigia.
“Un uovo, un uovo sodo per tre persone, sai che abbuffata!”, disse zu
Peppino guardando quel misero cosino nel piatto.
“Già,
un uovo, aggiunse zu ‘Ntoni. A parte il fatto che non sazierà nessuno dei
tre, chi lo mangerà?”
“E’
vero, osservò don Peppino, mentre
già pensava a qualche astuzia che gli consentisse di appropriarsi dell’uovo e
mangiarselo con buona pace degli amici, ho una proposta da fare. Siccome ci
troviamo in una situazione insolita e curiosa, propongo che l’uovo vada a chi
sarà in grado di inventare il motto più arguto che si possa adattare alla
situazione che stiamo vivendo.” Era
evidente che, così messa la cosa, la vittoria nella singolare tenzone non
poteva che non arridere al sacerdote, uomo di cultura e fine latinista che
avrebbe fatto polpette dell’agrimensore e del calzolaio analfabeta e, zu
‘Ntoni, più per stare al gioco che per tentare in qualche modo di mangiare
l’uovo, prese un abbondante
pizzico di sale e lo versò sull’uovo mentre pronunciava il motto “Sale e
sapienza!”. “Cum grano salis!”,
ammonì don Peppino agitando l’indice in segno di rimprovero verso l’amico
che aveva abbondato col sale.
A
questo punto, di fronte ad una massima così bella ed efficace, che si adattava
magnificamente alla realtà vissuta, la cosa sembrava decisa quando zu Peppino
mise repentinamente la mano nel piatto, si impadronì dell’uovo, lo fece
lestamente sparire nella bocca, lo trangugiò, si scolò mezzo bicchiere e,
pulendosi il muso con la manica della giacca, esclamò:
“Consummatum est!”, ponendo fine alla tenzone e senza dar modo alla giuria di
stabilire l’eventuale vincitore.