La situazione economica e sociale nel Crotonese degli    anni ’50 e ’60 –  L’emigrazione

                                         
             

    
La seconda guerra mondiale per il Crotonese e i paesi dell’entroterra finisce praticamente con lo sbarco in Sicilia nel giugno del 1943 quando l’esercito tedesco abbandona rapidamente la Sicilia e la Calabria e gli Alleati risalgono altrettanto rapidamente le due regioni puntando verso nord. Il 25 luglio, che segna la caduta dell’odiato regime fascista e l’8 settembre, giorno della firma dell’Armistizio di Cassibile , sono date che dicono poco ai calabresi in quanto i due avvenimenti, seppur importantissimi, incidono poco nella loro vita reale che si stava già avviando alla normalità con l’arrivo degli Americani e dei loro alleati. Quando giungono le truppe fino a qualche tempo prima  nemiche, ma che ora vengono viste più come portatrici di libertà che come occupanti, i calabresi, i contadini e i braccianti del Crotonese capiscono che qualcosa è destinato fatalmente a cambiare, che non solo è finita la guerra, la più immane tragedia che abbia sconvolto il mondo dalla comparsa dell’uomo sulla terra, ma che, nonostante la macerie disseminate per tutta l’Italia,  sta forse per iniziare, finalmente, una nuova era di pace, di sviluppo e di prosperità, una stagione esaltante di conquiste e di progresso. Questa volta tutto dovrà cambiare pensano i calabresi, ma anche gli altri abitanti d’Italia; niente potrà più rimanere come prima.
     Da secoli contadini e braccianti lottavano contro gli agrari, i baroni che avevano usurpato le terre demaniali che poi lasciavano incolte o mal coltivate, prevalentemente a pascolo,  affamando le plebi col beneplacito dei governanti. Le lotte per la terra erano iniziate qualche secolo prima intrecciandosi col brigantaggio che altro non era che l’esplodere della giusta collera dei diseredati affamati dagli usurpatori degli usi civici ed erano poi proseguite nel XIX secolo e riprese subito dopo la Grande Guerra, ma il latifondo del Marchesato era rimasto sostanzialmente nelle mani di pochissimi agrari.
     Già durante il regno borbonico vi erano state numerose rivolte sedate puntualmente dalla Guardia urbana, una sorta di polizia foraggiata dai latifondisti o dalla gendarmeria borbonica, poi, dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala i braccianti siciliani, calabresi, lucani commisero il tragico errore di pensare che “l’angelo biondo venuto dal nord” li avrebbe liberati dall’atavica schiavitù, avrebbe espropriato le terre dei baroni e le avrebbe consegnate al popolo affamato. Migliaia di picciotti, di ex soldati che avevano combattuto con Napoleone e con Murat e di poveri “briganti”, miserabili, diseredati che si erano dati alla macchia per sfamarsi andarono ad ingrossare le fila delle camicie rosse dando un loro notevole contributo alla vittoria del generale nizzardo. Altri pensarono di anticipare i tempi e fare la loro personale rivoluzione occupando le terre alle pendici dell’Etna e giustiziando gli usurpatori, ma dovettero fare i conti con la ferocia di Bixio che fucilò i rivoltosi a Bronte, Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbia e in altri   paesi del Catanese con una furia degna delle peggiori belve. I Bixio, i Garibaldi, i Rosolino Pilo, i Crispi, i  Nicotera avevano ben altri progetti e intenzioni che quelli di fare finalmente giustizia, di affrontare i nodi irrisolti della questione sociale e i gattopardi, come ebbe a insegnarci Tomasi di Lampedusa nella suo pregiato romanzo, erano già all’opera per “cambiare tutto perché niente cambiasse.” La delusione più cocente per i meridionali fu quella di ritrovarsi ai posti di comando, nei ranghi della polizia, della burocrazia, come intendenti o sotto intendenti molti funzionari borbonici, baroni, conti, marchesi che avevano servito sotto il passato re e  che ora avevano frettolosamente e gattopardescamente abbracciato la nuova causa e leccato i nuovi padroni conservando i loro privilegi  e le loro angherie.  Così i meridionali poveri furono traditi due volte. I nuovi padroni, infatti, oltre a lasciare le terre ai latifondisti che non facevano niente per migliorare i sistemi colturali e sviluppare l’agricoltura, smantellarono anche quel po’ di industrie (le ferriere di Mongiana, le officine di Pietrarsa, i cantieri navali, l’industria serica) che avevano creato i borboni  vanificando, per sempre, ogni possibilità di sviluppo per la Calabria e per il Mezzogiorno. Iniziò, così, la più grande ondata migratoria che la storia abbia mai conosciuto. E’ stato calcolato che in mezzo secolo emigrarono dal’ex Regno delle due Sicilie ben venti milioni di persone per gli Stati Uniti, l’Argentina, il Brasile, l’Uruguay, il Paraguay ed altre terre lontane e sconosciute. Fino all’Unità d’Italia erano stai i friulani, i piemontesi, i lombardi, i veneti ad emigrare mentre il fenomeno al sud era pressoché sconosciuto. I paesi, soprattutto quelli dell’entroterra si spopolarono ed il tessuto sociale ne risultò devastato, ma, come vedremo in seguito, la situazione era destinata ad aggravarsi ulteriormente.
      La lotta per la terra riprese vigore nel 1919 quando i reduci della Grande guerra fondarono l’Opera Nazionale Combattenti che impose al governo del tempo il rispetto dei patti stipulati all’inizio della guerra con la promessa di distribuire la terra ai contadini mandati al macello sulle pietraie del Carso, sulle Dolomiti o sul Cadore. In ogni paese nacquero le Leghe rurali che si batterono a volte duramente con gli agrari del posto decisi, più che mai ad imporre il mantenimento delle promesse.  Fu quindi emanato il decreto Visocchi (da Achille Visocchi, ministro dell’agricoltura nel governo Nitti)  che permettevano l’assegnazione delle terre incolte che l’Opera Nazionale poi distribuiva ai contadini e ai braccianti dietro il pagamento di una quota proporzionata all’estensione del fondo.
      L’entità delle terre concesse non consentì di risolvere il problema, ma costituì sen’altro il primo, timido tentativo di riforma agraria. Il problema, però non era ancora risolto e i contadini continuarono le loro battaglie fino a quando dovettero cedere alle bastonate e alle purghe delle squadracce fasciste. Il Fascismo, infatti, nato proprio bloccare ogni iniziativa di riforma fondiaria in contrasto con  la politica dei grandi meridionalisti come Guido Dorso, Luigi Sturzo e Antonio Gramsci.
    Con l’instaurazione della feroce dittatura mussoliniana cessarono definitivamente;anche l’aspirazione ad ottenere un pezzo di terra da coltivare continuava a rimanere il sogno proibito della povera gente.
   Negli anni ’20, intanto con la realizzazione dei laghi silani e la costruzione degli impianti idroelettrici ella Sila, ebbe inizio  anche un tentativo di industrializzazione del Crotonese con la nascita della Montecatini, una industria chimica,  e della Pertusola che, sfruttando l’energia elettrica prodotta in loco, produceva zinco elettrolitico. Crotone divenne, quindi, una delle città più industrializzate del Mezzogiorno, anche se ciò non fu sufficiente a soddisfare i bisogni di lavoro e la fame delle masse del Crotonese.
    Con la caduta del fascismo il sogno della “ terra a chi la lavora” riprese vigore e i braccianti del Crotonese, forse per primi in Italia, ricominciarono a occupare i fondi incolti. Già qualche giorno dopo l’arrivo degli alleati nella zona,  a Casabona, Pasquale Poerio, giovane intellettuale comunista del posto che diventerà successivamente uno dei più prestigiosi dirigenti del movimento contadino, del PCI e poi senatore della Repubblica, insieme ad altri compagni, si pose alla testa dei suoi compaesani che occuparono alcuni fondi nei dintorni del paese. Gli agrari, come avevano già fatto a Bronte, segnalarono al cosa agli Americani che, preoccupati per eventuali atti ostili nel confronti delle truppe occupanti, mandarono a Casabona un battaglione di soldati marocchini i quali, trovandosi di fronte non insorti, ma pacifici contadini armati di zappe, badili, aratri e intenti a lavorare la terra, finirono per solidarizzare con loro. Altre manifestazioni per la terra nacquero poi spontaneamente o organizzate dai partiti della sinistra, dall’Alleanza dei contadini in molto paesi dell’interno. In appoggio ai braccianti e ai contadini in lotta si affiancò, come racconta Ciccio Caruso, dirigente comunista e Segretario della Federazione del PCI negli anni ’50, anche la classe operaia di Crotone della Pertusola, della Montecatini, della Rossi e Tranquilli e delle miniere di San Nicola dell’Alto e di Strongoli. Per cui la lotta per la terra acquistò maggior vigore e visibilità politica. Ma la resistenza  degli agrari fu ancora una volta tenace e furiosa e appoggiata in qualche modo dal governo democristiano che si era formato dopo il 18 aprile 1948 a seguito delle elezioni che videro la sconfitta del fronte popolare e la vittoria del partito di De Gasperi e Scelba. Qualche anno prima, sotto la spinta dei contadini e dei partiti della sinistra che avevano fatto parte dei primi governi repubblicani, erano stati approvati i Decreti Gullo, frutto del lavoro del  calabrese Fausto Gullo,  Ministro dell’Agricoltura nel primo governo De Gasperi, dal dicembre del 1945 al luglio del 1946. Tali decreti erano rimasti, però, praticamente inapplicati e ciò spinse i contadini ad intensificare le lotte e le occupazioni delle terre. Fu così che si giunse, nell’ottobre del 1949, ai drammatici fatti di Melissa con la strage di alcuni contadini, uomini e donne, uccisi dalla polizia di Scelba mentre occupavano un fondo incolto di proprietà del barone Berlingieri  in località Fragalà. A cadere sotto il fuoco di un reparto di polizia giunto appositamente da Bari per porre fine all’occupazione furono Francesco Nigro, il fondatore della sezione del Movimento Sociale di Melissa, il giovanissimo Giovanni Zito e una donna, Angelina Mauro, tutti colpiti alle spalle.
      La strage di Melissa provocò un’ondata di sdegno e di commozione in tutta l’Italia. Per la prima volta artisti, intellettuali, uomini politici, dirigenti nazionali e sindacali scesero a Melissa e  a Crotone per dar vita ad un grande movimento di lotta e di sostegno dei contadini del Marchesato. L’interesse per lo sperduto paesino calabrese e la solidarietà per i braccianti in lotta fu tanto e tale che, in loro onore a molte bambine nate in quel periodo in tutta l’Italia fu dato il nome di Melissa.

                                  
      Questo stupido eccidio  fu la goccia che fece traboccare il vaso. In seguito a quei fatti il governo fu costretto a rispettare i patti e ad avviare la riforma agraria che avrebbe dovuto trasformare definitivamente l’antico Marchesato in una terra di sviluppo e di progresso. L’operazione riuscì però solo in parte perché la riforma fu snaturata e svuotata completamente  dai partiti di governo e segnatamente dalla Democrazia Cristiana. Le terre furono infatti assegnate non solo ai contadini e ai braccianti, ma ad artigiani, piccoli imprenditori e gente che con la terra non aveva avuto mai niente da partire, ma che aveva magari la tessera della DC o godeva delle simpatie dei segretari delle sezioni democristiane dei paesi trasformati in veri e propri commissari. A decidere, infatti, a chi assegnare le quote e l’estensione delle stesse era, infatti, una specie di commissione con a  capo, solitamente, il segretario locale della DC, anche se formalmente questo compito veniva assolto dall’Opera Valorizzazione Sila, (più brevemente Opera Sila) che ha le maggiori responsabilità nel fallimento della riforma.  Il risultato fu che si assistette ad una estrema parcellizzazione delle fondi e i contadini si videro assegnare piccoli fazzoletti di terra dai quali era impossibile ricavare un reddito adeguato in grado di cambiare la vita di chi la terra era chiamato a coltivare. Inoltre molte terre erano aride e non furono realizzate o furono realizzate con molto ritardo le necessarie opere irrigue per rendere irrigabili e quindi fertili i terreni. Non si cercò nemmeno di favorire la nascita di un movimento cooperativo in grado di accorpare i fondi e renderli più produttivi assecondando, viceversa, l’individualismo tipico delle popolazioni meridionali. Il risultato fu quello di sprecare una formidabile occasione di sviluppo e le condizioni economiche di braccianti e contadini rimasero, ancora una volta, precarie. Così le masse meridionali ripresero ad emigrare.  

         

     A Caccuri, nei primissimi anni ’50 l’emigrazione fu un po’ rallentata dai lavori di costruzione della strada di collegamento Caccuri – Santa Rania – Coniglio realizzata con un finanziamento della Cassa per il Mezzogiorno nei quali furono occupati un paio di centinaia di operai per circa tre anni; poi, con il completamento dell’opera si ripropose drammaticamente il problema della disoccupazione.
     L’emigrazione riprese massicciamente nei primi anni ’60 che coincisero con il periodo del boom economico e dello sviluppo delle grandi fabbriche del triangolo industriale. Gran parte degli emigrati, infatti, si trasferirono in Lombardia, in Piemonte, in Liguria e in altre regioni del Settentrione, ma moltissimi si trasferirono in Belgio dove stava nascendo una imponente industria mineraria, in Germania, in Francia ed in Svizzera, mentre l’emigrazione verso li Stati Uniti e i paesi del Sud America e in Australia fu meno consistente e residuale. Le stazioni ferroviarie del sud furono prese d’assalto da masse di contadini e operai disoccupati con le loro famigerate valigie di cartone che lasciavano il loro paese in cerca di lavoro.  

             

   Chi si recava al nord o in un paese europeo, non solo, appena poteva, si portava dietro la famiglia, ma, spesso, faceva da tramite per trovare un lavoro anche ai compaesani rimasti in paese. Fu così che Caccuri, San Giovanni in Fiore, Castelsilano, Savelli, Petilia Policastro e gli altri paesi dell’antico Marchesato si spopolarono definitivamente senza più riuscire a riprendersi. Negli anni ’80 il fenomeno sembrò arrestarsi per riprendere di nuovo vigore nel corso degli anni ’90.

   Da qualche decennio, all’emigrazione in cerca di lavoro si è andata sempre più sostituendo un’emigrazione per motivi di studio con migliaia di giovani che si sono trasferiti altrove per frequentare l’università senza mai più fare ritorno al paese di origine e un’emigrazione alla ricerca di una migliore qualità della vita che hanno finito per impoverire ulteriormente il Mezzogiorno a vanificare qualsiasi speranza di sviluppo economico e sociale di questa sfortunata zona d’Italia. Oggi si emigra non più e non solo perché nelle nostre contrade il lavoro scarseggia (con la crisi in atto scarseggia dappertutto), ma anche per cercare luoghi più vivibili dal punto di vista urbanistico e paesaggistico, o una migliore qualità della vita sociale, culturale, con una più efficiente organizzazione dei servizi e della la sanità.