'A putiga, dal latino
apotheca, era l'antico negozietto nel quale si
compravano i generi alimentari, ma anche altra mercanzia; dagli
utensili alla cancelleria, dal sapone alla varechina, al lucido per
scarpe (cromatina), alle stringhe, alle "tacce o alle
poste" (chiodi per scarponi o per ferrare asini, muli e
cavalli) Il termine putiga fu poi esteso anche ad altri
negozi: 'a putiga 'e ru vino (osteria), 'a putiga 'e re scarpe
(calzoleria), 'a putiga 'e pannama (negozio di tessuti) e alle botteghe
artigianali. A differenza dei moderni supermercati nei quali la
gente va sempre di fretta, si serve da sola e paga alla cassa, l'antica
putiga era un luogo di incontro e di socializzazione, una sorta di
" salotto" nel quale ci si scambiava informazioni o si
discuteva dei fatti del paese in attesa che 'u putigaru servisse
gli altri clienti.
A quei tempi, "accattare", ossia fare la spesa, quando ancora
non conoscevamo il termine "shopping", era forse più
difficile di oggi per la miseria diffusa nei primi decenni del secolo
scorso e prima del "boom" degli anni '60, ma anche più
bello e, soprattutto, meno stressante di oggi, senza la preoccupazione
di prendere il carrello carrelli e senza le buste. Niente carte di credito o bancomat a quei tempi, ma la cara,
vecchia "libretta", il quaderno con copertina nera nel quale
venivano annotati l'importo della spesa a credito e i generi
acquistati, dati che venivano diligentemente riprodotti in copia
dal "putigaru" sui di un suo librone. La spesa si faceva giorno per
giorno e il conto veniva saldato a fine mese o, comunque, quando era
possibile. Ciò grazie al rapporto di fiducia e di amicizia
reciproca tra il
creditore, che a volte (poche in genere) prendeva anche qualche
fregatura e il debitore, beneficiario del credito e che, generalmente,
onorava il debito non appena poteva.
In questa pagina cercherò di ricostruire, sulla base dei ricordi e di
eventuali contributi che qualche visitatore potrebbe eventualmente
fornirmi, la mappa delle botteghe caccuresi nello scorso secolo.
Tabacchini (Putighini)
Nei primi decenni del '900 a Caccuri e nel territorio comunale vi erano
diverse rivendite di tabacco e di chinino di Stato, come recitavano le
insegne col simbolo regio prima e repubblicano dopo il Referendum
istituzionale. Ancora nei primi anni '70 ve ne erano cinque, poi,
progressivamente, si sono ridotti agli attuali due, uno dei quali nella
frazione di Santa Rania. Ovviamente non vendono più il chinino da quando
la malaria è stata definitivamente debellata, ma si limitano a vendere
sigarette ed altri generi, quando non funzionano anche da "
banco del Lotto."
Uno di
primi tabacchini caccuresi fu quello del signor Domenico
Caccuri nel centro
storico. Un
altro storico tabacchino era quello dei signori Romano
che avevano la rivendita a Ponte di Neto dove gestivano anche un'osteria
ed un negozio di alimentari e quello di
Putighella. Anche Santa Rania
aveva il suo tabacchino in un vecchio locale di Santa Rania di sotto,
prima che il proprietario, il signor
Domenico Silletta, lo trasferisse
all'entrata del centro abitato provenendo da Caccuri.
Nei decenni successivi i tabacchini nel centro storico furono
due, uno ubicato in via Misericordia, di proprietà della signora Maria
Mele, vedova della medaglia d'oro Vicenzo
Dardani e uno in via Chiesa di proprietà del signor Giovanni
Marullo che poi passò al signor Saverio Paletta che lo
trasferì nei locali che avevano ospitato il negozio di "Tata
Macrì" in via Salita Castello.
Dopo la costruzione della superstrada Crotone - Cosenza ed il
conseguente abbandono della vecchia statale 107 i "putighini" di
Ponte di Neto e di Putighella chiusero definitivamente i battenti.
I negozi (
'E putighe)
Piazza Umberto e via Misericordia, cuore commerciale del paese
Nello scorso secolo,
quando il rione Croci era sorto appena da qualche decennio e la stragrande
maggioranza della popolazione abitava nel centro storico, il tratto di
strada compreso tra la Santa Croce e largo Misericordia era il cuore
commerciale pulsante del paese. In un tratto di strada circa 300 metri
erano ubicati, infatti, decine di piccoli negozi e botteghe artigianali,
ognuno con la sua povera mercanzia ed il suo fascino.
Partendo dalla Santa Croce si incontrava per primo il forno
di Salvatore
Blaconà , quindi, una decina di metri dopo, " 'a chjianca"
(macelleria) di Eugenio Pitaro, nel locale dove ora è ospitato il
bancomat.
Il macellaio Eugenio
Pitaro
Attaccato
alla macelleria, già quando ancora quella che attualmente chiamiamo
comunemente piazza era poco più che una stradina polverosa, vi era il bar
della signora Maria
Caputo (za Maria 'a
pomarora), inizialmente ospitato in una baracca di legno, poi in un
apposito locale. Raccontano i nostri vecchi che " 'a chjiazza"
era così stretta che quando arrivava da Crotone " 'u
trainu" del signor Cannellino che riforniva il paese di generi
alimentari, per fare l'inversione i cavalli dovevano entrare con la testa
nel vano della porta del bar. Dalla signora Caputo il bar poi passò in
gestione a Ciccio
Pasculli che si faceva
aiutare occasionalmente, come barman, dal genero, Rosario
Catanzaro, carabiniere
in pensione. Era zu Rosario che, nei primissimi anni '50 ci serviva il
cono gelato da 5 o da 10 lire, con quella squisita cialda di
divoravamo in un battibaleno.
Savino Pasculli nel
bar gestito dal padre Rosario
Catanzaro con la moglie Filomena Gigliotti
Ciccio
Pasculli gestì il
bar nel periodo " 'e ru Menziornu", ovvero al tempo in cui la Cassa per
il Mezzogiorno costruì la strada che collega Caccuri a Santa Rania
assicurando a decine di operai caccuresi due o tre anni di lavoro continuo
e retribuito discretamente, arrestando, per un po', quel flusso migratorio
che è sempre stato una costante nella vita di questo paesei
Successivamente il bar tornò a Za Maria che lo tenne ancora per qualche anno, prima di cederlo
definitivamente a Eugenio
Mercuri, attuale
proprietario e Ciccio Pssculli costrui un mulino elettrico ed un
forno nei pressi della Santa Croce.
Poco più avanti del bar, nel locale a piano terra di Eugenio Pitaro,
venne aperto, per qualche tempo, un secondo bar e, poco più avanti, in un localino
che ospitò in seguito la sartoria di mastro Giovanni
Gallo, c'era la fruttivendola di Vincenzo
Falbo (Satanu). Ancora
qualche metro verso la Misericordia e ci si ritrovava in piazza Umberto
dove si incontrava subito l'osteria di zia Luisa
Marino, vedova
Lupinacci, sempre piena di avventori e di gente che giocava a carte. Dieci
metri più avanti c'era il negozio di "panname" della signora Chiodo
( za Mariuzza
'è marru Carmine), ovvero la vedova di mastro Carmine Chiodo. Chi
da bambino ha avuto l'opportunità di entrare in quel negozio e di
ritrovarsi in mezzo a quei grossi rotoli di stoffa che za Mariuzza con
calma e meticolosità misurava con metro di legno e tagliava lentamente,
sente ancora il fascino e la nostalgia di quella specie di "rito
sacro" , mentre le donne riponevano nelle loro povere borse quella
stoffa che doveva servire per confezionare i corredi delle loro figlie, i
vestiti per sé o per i familiari o più semplicemente serbietti (stujavucchi)
, ovvero tovaglioli o tuvaglie (asciugamani) di lino.
Mastro
Carmine Chiodo
Superato il negozio di za Mariuzza, proprio all'incrocio tra via
Misericordia e via Portapiccola ci si imbatteva nel bar di Luigi Quintieri
dove c'era gente che giocava a carte o al bigliardo, mentre una vecchia
radio col giradischi ( 'u pichiup, da pick - up) diffondeva le note
dei dischi allora in voga come la celebre " 'U pecuraru" che
raccontava a noi bambini le vicissitudini " 'e ru pecuraru re
Cerenzia chi si ne vena la via, via, si ne vena facennu 'a cruce,
vena alla casa e astuta la luce."
Continuando verso la Misericordia, appena superata
" 'a forgia" di zio Michele Marino che un tempo aveva
ospitato il negozio di nonno Peppino nel quale aveva fatto un po' tutti i
commerci, dall'olio, agli altri alimentari, alla macelleria e che
nel XIX secolo era stata la bettola del bisnonno Francesco, calderaio di
Dipignano trapiantato a Caccuri, ci si imbatteva nella "putiga
di generi alimentari e coloniali " 'e za Rosina Fazio",
vedova del fotografo Vincenzo
Fazio. La
cara za Rosina era un personaggio molto simpatico e paziente ed era nota
per la flemma con la quale serviva gli avventori. D'altra parte in quei
tempi grami, ma, per molti versi fortunati, raramente si trovava qualcuno
che avesse fretta o che litigasse per il rispetto del turno. La gente era
più serena, tranquilla, non stressata e la visita alla "putiga"
era per le donne anche un'occasione per scambiare quattro chiacchiere e
stare insieme, come facevano quando si sedevano su un "vignanu"
o "a rolla" nella ruga per ricamare, filare la lana, rammendare
o, magari, "annettare foglie" (mondare le ciocorie selvatiche).
Ancora cinque passi e, proprio di fronte 'u putighinu di
Maria Mele, c'era quello che potremmo definire uno dei tempi della
cucina caccurese, l'osteria della signora Caterina
Valentino in Pisano
dove si potevano gustare piatti tipici dell'autentica cucina caccurese
come " 'a tiella 'e capuzza e patate", lo spezzatino",
" 'e
stigliule", " 'u sanceri", insomma quei piatti che facevano
la felicità dei gourmet del tempo e dei numerosi forestieri che
capitavano in paese per i loro affari. Era quindi la volta, sul lato
sinistro della strada, della "chjanca" di Luigi
Iacometta, poi,
entrando nel largo Misericordia, subito dopo il salone Tallerico, salendo
lungo vico Municipio, c'era un'altra macelleria: " 'a chjianca "
di Antonio Gigliotti,
mentre proseguendo verso la destra, dopo la casa di donna Lisetta Lucente
che ospitò per molti anni anche l'ufficio postale, si arrivava al negozio
di generi alimentari di Angelino
Secreto. Scendendo
invece dalla Misercordia verso il Murorotto, all'angolo di via Simonetta
c'era un altro negozio di generi alimentari: quello della signora Pignanelli
(Maria a Chjiaruzza),
gestito poi fino agli anni '80 dal figlio Francesco.
Tornando in vico Municipio e salendo verso la Salita
Castello, superato il Sumportu e girando a destra su via Buonasera, si
arrivava alla farmacia di don Gaetano
De Franco, farmacista e maestro elementare. Imboccando, invece, via
Salita Castello, ci si imbatteva nell'altro tempio della cucina caccurese,
l'osteria del signor Salvatore
Lombardo e della moglie
Caterina Macrì
che era poi il locale gestito attualmente dal genero Salvatore
Lacaria. Anche qui si
potevano gustare specialità autenticamente caccuresi come avrebbero
potuto testimoniare centinaia e centinaia di avventori provenienti dai luoghi più
sperduti della regione che transitavano per Caccuri.
Caterina Macrì
Altre "putighe" caccuresi erano quella del professor Angelo
Di Rosa e del signor Luigi
De Rose gestita dal
figlio, il compianto Vincenzo,
entrambe alla Iudeca. Giovanni
Di Rosa, fratello del
professore Angelo, aveva, invece, un suo negozio in via Parte, in un
locale a piano terra della casa di abitazione.
Nel
rione Croci, fino ai primi anni '60 vi furono due soli negozi di genere
alimentari, uno del signor Luigi
Pizzuti in via XXIV
Maggio nello stesso locale dove, qualche decennio dopo, fu aperto quello
di Teresina Pitaro
e uno del signor Annunziato
Tallerico in una
traversa di viale del Re che, qualche anno dopo, passò a mia madre che lo
trasferì in via Vittorio Veneto e che rimase aperto fino al 1963.
Poi, subito dopo, ne furono aperti altri cinque, tre dei quali chiusero
dopo qualche tempo.
Questi
erano, sulla base dei miei ricordi, i vecchi esercizi commerciali del
secolo scorso. Probabilmente ne avrò dimenticato qualcuno e, comunque,
avrò sicuramente commesso qualche omissione, ma si potrà sempre,
eventualmente con l'aiuto dei lettori, rimediare a qualche svista.
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