Atti del convegno su Umberto Lafortuna |
Castello di Caccuri - 18 dicembre 2005
Domenica 18 dicembre 2005, nelle sale del castello di Caccuri,
l'Associazione culturale Zeus ha promosso un convengo sulla figura di Umberto
Lafortuna, poeta caccurese e maestro elementare del secolo scorso. Dopo l'
ìntroduzione del presidente Giuseppe Sganga, il saluto del sindaco di
Caccuri, prof. Arcangelo Rugiero e del dirigente scolastico prof.
Giuseppe Silletta, Vincenzo Parrotta ha letto alcune liriche dell'illustre
caccurese. Sono seguite, quindi, le relazioni del prof. Francesco Falbo,
di Giuseppe Marino e del poeta Bruno Tassone.
Parte del pubblico in sala L' introduzione del Presidente Sganga Il Presidente Peppino Sganga Signori
e signore, Grazie, buon lavoro e buona serata a tutti.
Vincenzo Parrotta legge Lafortuna
Giuseppe Marino Umberto
Lafortuna, il maestro poeta Umberto
Lafortuna, maestro elementare quando la parola maestro aveva ancora significato,
poeta ricco di umanità, educatore scrupoloso ed innamorato del proprio
mestiere, nacque a Savelli il 27 marzo del 1884 da un cancelliere della Pretura
originario della provincia di Vibo Valentia e da Maria Giuseppa Ambrosio, una
giovane donna caccurese che si trasferì, qualche tempo dopo, nel suo vicino
paese. Qui
il futuro poeta trascorse gli anni dell’infanzia, anni fondamentali nei quali
imparerà a conoscere e ad amare il mondo che lo circonda, la natura, le piante,
i fiori, gli animali e quei cuccioli d’uomo coi quali trascorrerà poi tanta
parte della sua, non troppo lunga, vita. Fu in quegli anni che Umberto Lafortuna
imparò a conoscere il linguaggio delle piante, degli animali; a saperli
ascoltare e a leggere nel loro animo per poi dare loro voce nelle sue liriche. Successivamente
si trasferì a Napoli ove frequentò le scuole superiori e conseguì il diploma
di abilitazione magistrale. Fu quindi chiamato ad assolvere gli obblighi di leva
e prestò servizio militare a Messina. Lo spaventoso terremoto del 1908 lo colse
proprio nella cittadina siciliana dove scampò miracolosamente all’immane
catastrofe saltando da una finestra proprio qualche attimo prima che il palazzo
crollasse. Subito dopo, partecipò attivamente e con grande spirito di
abnegazione, alle operazioni di soccorso e contribuì a salvare numerose vite
umane strappando quei corpi martoriati alle macerie e, per questo motivo, fu
insignito del diploma di merito istituito con regio decreto nel 1910. Assolti
gli obblighi di leva il giovane maestro fece ritorno a Caccuri per insegnare
nella scuola elementare. Nel 1930 diede alle stampe, presso l’editore
Trevisini di Milano, il volume “Pupille infantili”, una raccolta di
poesie e prose che si avvalse della prefazione del più illustre pedagogista
italiano dell’epoca, Giuseppe Lombardo Radice. Il libro riscosse molto
successo, sia tra i lettori, sia tra gli addetti ai lavori. Molte riviste
pubblicarono brani e poesie tratti dal volume del maestro caccurese,
mentre altre apparvero sui libri di testo per la scuola elementare. A questo
proposito, ho sempre conservato con cura maniacale il mio vecchio libro di testo
della seconda elementare, anno scolastico 1957/58, questo che vedete, un testo
di Maria Balbo dal titolo “Campo di fiori” nel quale, accanto a poesie di
Zietta Liù, Lina Schwarz, Giuseppe Fanciulli, Renzo Pezzani Diego Valeri,
Angiolo Silvio Novaro, a pagina 47, compare anche la celebre “Nonno inverno”
del nostro Lafortuna. Incoraggiato
dal successo, tentò, inutilmente, di pubblicare un secondo volume delle sue
preziosissime liriche. Purtroppo ben altre erano, in quei tempi bui, con un
terrificante conflitto in corso, le preoccupazioni degli editori e degli stessi
potenziali lettori per cui i pregevoli capolavori che continuò a produrre,
vergati su fogli di fortuna con grafia pulita e curata, rimasero sepolti,
per decenni, fra le sue carte. Qualche anno fa, grazie alla cortesia e alla
sensibilità delle signorine Rita e Mirella De Franco, nipoti del poeta, abbiamo
avuto l’opportunità di scoprire le liriche inedite che confermano tutta
intera, la grandezza e la sensibilità dell’Autore. Umberto
Lafortuna continuò ad insegnare nella scuola elementare di Caccuri, fino alla
morte che lo colse la notte di Natale del 1944. C’è,
forse, qualcosa di arcano, di mistico, di sublime in questa curiosa
coincidenza: il poeta dei bambini, il maestro che ai bambini ha dedicato la
vita, che ha sempre cercato di educarli, di coltivarne la sensibilità, di
elevarli culturalmente e moralmente, anche attraverso le sue stupende poesie, si
spegne proprio nel momento in cui viene al mondo un altro Maestro, il più
grande di tutti, l’uomo destinato, col suo insegnamento, a salvare il mondo.
Ed ecco che questa morte assume quasi l’aspetto di un passaggio del testimone,
di un passaggio di consegne: “Maestro, sembra dire Umberto Lafortuna rivolto a
Gesù, sono vecchio e stanco; il mio tempo è finito. Io ho fatto quello che ho
potuto, ho parlato al cuore dei fanciulli, ho cercato, e forse qualche volta ci
sono riuscito, di renderli più buoni; ora tocca a te continuare. Buona fortuna,
Gesù!” E nel dire queste parole, l’anziano educatore si addormenta
dolcemente. In quel momento la vicina “focera” che prima stentava ad ardere,
si ravviva, emana bagliori più intensi; nuova luce e nuovo calore investono i
vecchi intirizziti raccolti in cerchio intorno al “sacro fuoco” e le campane
annunciano al mondo il passaggio del testimone. Sarò un sognatore, ma a me
piace pensare che Umberto Lafortuna, poeta, da vivo, fin nella più intima delle
sue fibre, poeta lo abbia voluto essere anche nella morte. A
me che ho la fortuna di insegnare da 35 anni nella sua scuola, in quella scuola
alla quale Egli, insieme ad altri illustri colleghi, com’è già stato
ricordato, seppe dare lustro e decoro, tocca, questa sera, il compito di
ricordarlo nella veste di maestro, soprattutto, oltre che di poeta, sapendo,
ovviamente, che i due ruoli si intrecciano profondamente e che il poeta,
quand’anche rifugga dalla retorica, faccia di tutto per bandire dai propri
versi qualsiasi intento didascalico, finisce, fatalmente, per educare: educare
al bello, educare al sano, educare al giusto. E’ sempre così, se ci si fa
caso. Perfino i cosiddetti poeti maledetti, gli Angiolieri, gli Aretino, in
Brassens finiscono, paradossalmente, per educarci ai valori veri della vita. Lafortuna,
nato per caso a Savelli, è un caccurese con tutti i pregi e i difetti di questo
generoso popolo; un uomo ricco di ingegno, con una formazione culturale profonda
e robusta. Potrebbe, come hanno fatto tanti altri, a cominciare dal
Simonetta, lasciare Caccuri, trasferirsi in una grande città, far fruttare
meglio i talenti che la natura benigna gli ha consegnato in abbondanza, invece
preferisce rimanere nel suo paese che ama in modo morboso, scendere tutte le
mattine Il
mattino dopo Umberto Lafortuna torna a fare il maestro. Come tutti i suoi
colleghi del tempo deve assolvere un compito duro, impegnativo, delicato,
complesso. Deve strappare le nuove generazioni ad un analfabetismo spaventoso ed
anacronistico, combattere la piaga dell’evasione dell’obbligo e della
mortalità scolastica, inculcare nei suoi alunni un briciolo di coscienza
nazionale, insegnare loro un po’ di storia patria, un po’ di geografia per
capire com’è fatto il mondo, insegnare ai figli a leggere le lettere dei
padri emigrati in America, istruire, educare e trasformare in “uomini”,
monelli sporchi, laceri, affamati che muoiono dalla voglia di scappare da
quell’aula grigia, dagli spaventosi catafalchi di legno chiamati banchi per
scorrazzare liberi nella campagna che intravedono attraverso i vetri, magari per
andare a rubare ciliegie o pesche o, più semplicemente, cetrioli e calmare i
morsi della fame. Ma ecco il miracolo: il maestro Lafortuna riesce ad ammansire,
istruire ed educare questa povera umanità, questi poveri fanciulli con l’arma
della poesia, portandoli a spasso, con i suoi versi, per quella campagna che così
tanto li attrae, mostrando loro, con la magia del verso, “un grappolino di
testine pigolanti che sbucano da un nido”, facendolo rimpinzare di ciliegie le
cui “ciocche dai rami passano nelle bocche”, raccontandogli delle lamentele
del gufo infelice perché costretto a vivere di notte e della luna che riesce a
consolarlo. Tutto ciò senza mai essere melenso, senza scadere nella retorica,
bandendo, quanto più possibile, ogni intento didascalico, piuttosto
simpatizzando con i bimbi che commettono qualche marachella, instaurando con i
pargoli una sorta di benevola, ironica complicità che, però, disvela al
fanciullo la scorrettezza del suo comportamento, lo fa vergognare della sua
biricchinata raggiungendo lo scopo educativo, senza provocare inutili traumi o
sensi di colpa. Umberto
Lafortuna, maestro e poeta, affronta con i suoi alunni anche un altro gravissimo
problema, quello dell’emigrazione e lo fa, anche in questo caso, cercando di
lenire, quanto più possibile, la sofferenza, la struggente nostalgia di chi ha
una persona cara dall’altra parte dell’oceano. Lo fa diffondendo messaggi di
speranza come nella poesia “Ala di vento” nella quale il bimbo chiede al
vento di trasportarlo in volo “oltre il gran mare” per raggiungere il babbo
che “lavora nella miniera profonda e nera” o quando scrive: “Tu sei
lontano, ma certo saprai, che il tuo figliuolo ti vuol bene assai. Torna, ti
prego: torna, non tardare, noi siamo stanchi di aspettare! Ti raccomando di
scriverci spesso e ti ricordo ciò che m’hai promesso.” “E’
dentro di noi un fanciullino!” Chissà quante volte il maestro Lafortuna avrà
ripensato a questa frase del Pascoli le cui opere, lui che si nutriva di buone
letture ed era in possesso di una solida cultura, conosceva alla perfezione, ma,
ne sono certo, anche se non avesse mai letto una riga del poeta romagnolo, anche
se non si fosse pasciuto delle liriche dell’autore della Cavallina storna e
della Quercia caduta, fanciullino, nell’intimo lo sarebbe stato ugualmente. “Il
Lafortuna sente, con delicatezza oserei dire materna, il limite della
mente puerile, sa creare agili fantasie, arguti racconti, versi snelli, vivaci
che paiono fioriti dal labbro stesso dei suoi scolari. Egli è il fanciullo
poeta che dovrebbe essere ogni vero maestro, privo assolutamente di retorica”,
scrive di lui Giuseppe Lombardo Radice, quasi ad avvalorare questa tesi, e poi
ancora: “Il Lafortuna è maestro e che maestro dev’ essere!, in un
oscurissimo paese della Sila, dove egli vive una vita libera da ambizioni e
ricca di interiorità.” Ecco, in queste poche parole del grande pedagogista
c’è tutta l’essenza dell’opera di Umberto Lafortuna, la sua grandezza,
il riconoscimento della sua splendida carriera di maestro elementare, il suo
lascito e noi, abitanti di quell’oscurissimo paese della Sila nel quale si
fabbricava e si fabbrica ancora cultura e che egli illuminò con sprazzi di
vivissima luce, noi maestri di quella scuola nella quale sbocciava e cresceva,
giorno dopo giorno un’ opericciuola fragrante come l’aria di una pineta
montana” non possiamo non commuoverci, non possiamo non sentire il cuore
gonfio di orgoglio. Grazie,
maestro Lafortuna, grazie per questa donazione, per questo prezioso lascito, per
questo patrimonio di inestimabile valore che hai voluto consegnarci. Mi auguro,
e ne ho la certezza, che non andrà disperso. Ai Caccuresi, a tutti noi eredi di
questo tesoro, alle Autorità del paese, chiedo di adoperarci per custodirlo
gelosamente come un gioiello di famiglia, della nostra famiglia caccurese, di
tramandarlo alle future generazioni, di continuare a leggere e a far studiare le
poesie di Lafortuna, di tramandarne il nome anche attraverso l’intitolazione
di una strada, di una biblioteca, magari di una fondazione che si occupi di
valorizzare le opere del maestro caccurese, ma anche di altri artisti e
uomini di cultura nati, vissuti e a Caccuri ed innamorati di questo
povero, ricco paese. La relazione di Franco Falbo Franco Falbo La
Poesia di Lafortuna: una voce della periferia,ma non periferica. Tuttavia
faremmo un torto, in primo luogo al maestro Lafortuna ,se oggi noi parlassimo
di lui come una grande voce del Novecento, lasciandoci prendere la mano da
quella partigianeria che spesso contraddistingue i nostri giudizi; ma altresì
egli subirebbe
un torto se dovessimo includerlo tra i tanti ed anonimi epigoni del Novecento. La
sua poesia non va, infatti, enfatizzata, ma neanche sottostimata: si tratta di
liriche che
hanno una loro dignità,una valenza poetica ; di versi che offrono molti spunti,
che consentono di affermare che
l'esperienza poetica del Lafortuna non è riconducibile
ad un unico modello, come potrebbe far pensare la breve prefazione di
Giuseppe Lombardo Radice. Nella
sua poesia egli seppe, in modo istintivo, naturale, cogliere e dar voce a
diverse sfaccettature, riconducibili nell'ambito del Decadentismo, ma anche al
di fuori di
esso, il che la rendono perciò stesso meritevole, se non di un'attestazione di assoluta
originalità, quantomeno di apprezzamento per non essere un esempio di pedissequa
imitazione. In
tal senso ,pur se voce della periferia, essa non è periferica,ossia marginale,
in quanto
presenta connotati che impediscono di ricondurla ad un'unica esperienza, di catalogarla
come poesia di imitazione, connotati che le conferiscono autonoma dignità
e distintive modulazioni. Questa
considerazione mi ha indotto a dare alla presente relazione il titolo;" La poesia
del Lafortuna: una voce della periferia,ma non periferica", piuttosto che
quello propostomi , in un primo
momento, dall'amico Nino "La poetica del fanciullino nelle liriche
di Umberto Lafortuna", che avrebbe costretto di collocare le liriche del maestro
caccurese nel solo ambito del solco pascoliano, privandole del giusto riconoscimento
di essere il portato di una cultura vivace e molteplice; mi ha indotto a
contestualizzare l'esperienza poetica del Lafortuna, a calarla nella Caccuri
degli anni venti/ trenta, nella realtà
di "un oscurissimo paese della Sila",come osserva giustamente
Lombardo Radice nella sua breve,interessante prefazione . Sulla
base di ciò non si può non convenire che la poesia del Lafortuna è
certamente,per provenienza geografica, una voce di un'area periferica, come era,
e non poteva essere altrimenti, la Caccuri degli anni trenta, una realtà
contrassegnata da
una radicata cultura contadina, cui faceva da contrappunto la presenza di un ristretto
numero di artigiani e di commercianti( i bottegai), ad essa funzionali. Quelli
della mia generazione ricorderanno bene gli eredi di quella realtà, dove i non molti
falegnami,calzolai, fabbri (i forgiati), sarti, soddisfacevano con i loro
manufatti le
esigenze di quel mondo, dove la pratica del "baratto" era una prassi
consolidata, giacché,
in un'economia dove il denaro circolante costituiva un'eccezione, necessariamente
l'estinzione dei debiti era legata ai cicli dell'attività agricola:alla mietitura
del grano, alla vendemmia, alla raccolta delle olivelli "uccisione del
maiale. Di
una realtà dove anche il farmacista continuava ad essere l'antico speziale, conoscitore
di erbe medicinali, che adoperava per preparare decotti, sciroppi, infusi, tisane
per alleviare i mali di stagione .... Di una realtà dove le poche
botteghe di generi alimentari portavano ben in vista l'iscrizione "generi
alimentari, coloniali e diversi",
per testimoniare che anche l'Italia aveva ormai il suo Impero coloniale, che non
era più seconda a nessuno, sullo scenario europeo. Di
una realtà che illustri
intellettuali, a partire dagli anni subito dopo l'Unità, sollecitati
dall'esperienza del brigantaggio, avevano posto all'attenzione dei vari Governi,
denunciandone l'arretratezza economica Asociale, culturale evidenziando che
la persistenza di quella arretratezza sarebbe stata gravida di"
malanni", perché il
malcontento che essa partoriva, incanalato e strumentalizzato dalle forze del malaffare,
non senza connivenze palesi e sotterranee della politica ( come non ricordare
l'etichetta che Salvemini appiccicò a Giolitti, definito "ministro della malavita") avrebbe segnato il destino di quelle Regioni, come
purtroppo è avvenuto. La
Caccuri degli anni trenta, peraltro, può essere assunta a paradigma della
grande maggioranza delle aree del Mezzogiorno, aree neanche sfiorate da quello
sviluppo industriale
che, nei primi decenni del Novecento, aveva interessato l'altra Italia e che né
i governi liberali né quello fascista avevano saputo o voluto
affrontare,sebbene la Questione
Meridionale fosse diventata una problematica concreta a seguito di inchieste,
indagini da parte,perfino, di Commissioni Parlamentari, e non più una discussione
teorica tra intellettuali sensibili e lungimiranti. La
iattura fu che gli investimenti presero un'altra direzione,saltarono a pie pari
il Mezzogiorno:
servirono per alimentare e sostenere il militarismo coloniale e così realizzare
il sogno di dare al nostro Re anche la corona imperiale. Risulta,pertanto,
pertinente la definizione di
"paese oscurissimo della Sila" per la Caccuri
del tempo, che Lombardo Radice inserisce nella sua prefazione al volumetto
"Pupille infantili". Quello
che però appare chiaro è che di questo "paese oscurissimo della
Sila" il Lafortuna
avvertiva di essere ed era parte integrante. Lo
si vede in tutte le sue liriche, ad incominciare da quelle in vernacolo, in cui assistiamo
a una piccola galleria di personaggi della Caccuri del tempo, che i suoi versi
offrono con un' immediatezza genuina,tanto che li si
sente palpitare di vita propria,
balzanti all'attenzione del lettore in modo sorprendente, senza titubanze e con
assoluta spontaneità, come avviene in "Parmarinu", dove attraverso
pochi tratti caratteristici il poeta ce lo pone davanti nella sua fisicità ,ma
anche nelle sue inclinazioni (amicu du
vinu e della caccia), un Parmarinu " marini de la "Spataresta", che"
Vinnia pupicchie cu le manuzze 'nfrancu e senza aricchie ", altra figura emblematica
che ci consente di riannodare il filo della memoria per riscoprire frammenti di
una tradizione andata perduta. E
il Lafortuna nojj_deve ricorrere ad artifici retorici per spostarsi dal piano
esteriore a quello interioré|évidenzia%i. un particolare stato d'animo,per
annotare che " è cangiata
a festa" ora che Parmarinii e la Spadaresta non ci sono più, spia,questa
del suo essere
autentico poeta. E
di questa piccola galleria non poteva non far parte forse uno dei personaggi più
distintivi della Caccuri di quegli anni, un personaggio che ha alimentato la
fantasia di quelli della mia generazione, che non lo hanno conosciuto
direttamente., ma tramite aneddoti,
mottetti,, raccontati dai genitori, ma soprattutto da parte di alcune figure di
anziani che nella Caccuri degli anni cinquanta e primi anni sessanta, ne
mantennero viva
la memoria, spesso anche attraverso aggiunte gratuite o stravolgimenti. Queste
figure svolsero, inconsapevolmente, un' importante funzione culturale, grazie
atta quale oggi alcuni, ed è il caso deiramico Nino, possono porsi,sul piano del
recupero memoriale, come anello di congiunzione tra i giovani di oggi e la Caccuri
di allora. Il
Lafortuna, nella lirica dedicata ad Angelo Raffaele Secreto,detto "Viloce"
,fin dai primi versi, mostra la sua sagacia
poetica, rilevando, in modo naturate, il contrasto tra il nome
"Angelo" e la bruttezza delle sue fattezze, ma anche la
consequenzialità tra il come era
stato "allevato" e il come era rimasto" e bruttu ,stortu, vasciu Fallevaru
( i genitori) e bruttu, stortu, vasciu illu restaru", versi attraverso cui,
a mio giudizio, il poeta sollecita un duplice interrogativo: Viloce rimase
" stortu e vasciu" per non
contraddire i genitori che così " l' allevaru", oppure perché non si
può non essere per come si viene
formati, educati?. Questa
seconda ipotesi ci riconduce alla dimensione pedagogica della poesia del Lafortuna,
una dimensione che rappresenta una sua costante.. Interviene
però,subito dopo una tipicità della poesia del Lafortuna, che non mi sembra
inopportuno definire " tecnica del contrasto", che qui gli consente di
far emergere dalle negatività fisiche delle positività culturali,
intellettuali, che gli occhi negano, ma
che l'orecchio scopre in quella "lingua pizzuta e tag|iente", ossia in
quella facilità di un eloquio pungente che
diventava motivo di preoccupazione durante
il periodi del Carnevale, quando egli (Viloce)"usciva" con le sue
farse a "sbrigognare" chi aveva la coda di paglia. E
personaggi della Caccuri del tempo sono presenti anche nelle liriche in lingua non
pubblicate,liriche efficaci, poeticamente valide,come attestano le tre quartine dedicate
a Marietta Morrone, in cui assistiamo al sapiente recupero di una strofa classica Le
tre quartine, a rima baciata la prima ,alternata la seconda e, mentre la terza a
rima chiusa o incrociata, richiamano quelle di una lirica del volumetto
"Pupille infentili",
precisamente "Pittore in erba" . E ricorso sapiente alla quartina
dimostra la maestria
poetica del Lafortuna, a cui non faceva difetto la conoscenza della tradizione
della poesia italiana Già
da quanto sopra emergono,così come avevo preannunciato, alcuni spunti che rendono
difficile una collocazione della poesia del Lafortuna nell'ambito di un unico solco
poetico. Ma
se pur periferica geograficamente, anche la Caccuri degli anni venti e trenta un
qualche contatto col resto dell'Italia
doveva pur averlo, altrimenti non potremmo spiegarci
la poesia del Lafortuna, specie quella espressa nel felice volumetto
"Pupille infantili". Un
dato risulta inconfutabile: l'esperienza poetica del Lafortuna s'inserisce, con una
sua dignità e peculiarità, nel filone della poesia italiana di fine Ottocento
inizio Novecento, in quel periodo storico -letterario denominato Decadentismo,
che presentava
al suo interno una molteplicità di sfaccettature
artistiche, aventi però una costante,
la crisi esistenziale dell'uomo, crisi derivante dal tramonto e fallimento degli
ideali positivistici ( come non ricordare il paradosso che la scienza avrebbe prima
o poi sconfitto anche la morte) ,non sostituiti dalla "fede" in nuovi
valori. Di
fronte a tale crisi l'intellettuale di fine ottocento scopre di essere una
creatura infelice la cui esistenza è segnata dal dolore, scopre l'importanza
del mondo interiore, di essere partecipe di un'anima più grande,quella della
natura,del mondo,del
cosmo ,scoperta che avviene non per via razionale, ma attraverso le strade del
sentimento, delle intuizioni. E'
questa la dimensione del poeta "veggente", cioè dell'esploratore del
Mistero, dell'inconscio, del poeta che non dispensa certezze, che è capace,però,
attraverso improvvise
folgorazioni ed intuizioni di pervenire all'assoluto, di scoprire,come osserva
il Flora,"l'universale corrispondenza e analogia delle cose., perché in
tutto c'è il Tutto" ; che è
capace di dar voce a quelle pulsioni dell'animo, a cui la scienza non
attribuiva valore,ma che un valore dovevano pur avere,dal momento che
ritornavano prepotentemente alla ribalta, dopo la constatazione che la tanto
decantata scienza non aveva mantenuto
le promesse di dispensare felicità e benessere per tutti, evidenziando,così,
che questi due livelli(felicità e benessere) non sono e non possono essere
interdipendenti, e ciò prima che arrivasse Fromm a teorizzare la dicotomia tra l'essere
e l'avere. Ebbene,tra
le tante sfaccettature del Decadentismo, la poesia del Lafortuna non è
accostabile a quelle a lui più coeve,ossia a quella Futurista o Ermetica, il
che è facilmente spiegabile: nella periferia, in un paese "oscurissimo
della Sila", anche se "toccato" dagli echi delle avanguardie
poetiche, essi non trovarono accoglimento, essendo per sua natura la periferia
conservatrice, affezionata a ciò che da tempo si è in essa sedimentato. Questo
ci porta a spostare agli ultimi decenni dell'Ottocento i punti di riferimento
della poesia del Lafortuna, in un'area in cui il nuovo si trascinava dietro
ancora qualcosa del vecchio. E'
in questa area che ci dobbiamo muovere per trovare gli agganci culturali di
riferimento della poesia del La fortuna. Un
primo nesso lo troviamo nella dimensione panica, ossia in quella tendenza a
confondersi,mescolarsi con il tutto,con l'Assoluto, che per alcuni, ed è il
caso del D'Annunzio, s'identifica con la Natura, simboleggiata nell'antichità
da Fan, il dio protettore dei campi e delle greggi, predisposizione che il poeta
pescarese rende in modo mirabile nella lirica la Pioggia nel Pineto, in cui il
lettore, stupito ed estasiato, assiste al progressivo "farsi natura"
del poeta e della sua bella Ermione. Ebbene,
la persistente presenza di elementi naturalistici in molte delle liriche del
Lafortuna, come il bosco ombroso e il cardellino, di cui egli interpreta il
messaggio del canto, prerogativa che presuppone la coscienza della propria
dimensione universale, di essere cioè in comunione con il tutto, come
avviene nella lirica "Sogno pauroso"; o le farfalle e gli uccellini, e
a seguire il sole,la pioggia, la neve e il vento, da come emerge dalla Urica
"Siamo bambini",;o ancora la luna pazzerello, l'usignoletto che sgrana
il suo canto nel valloncello solcato dal ruscello, come proposto nella lirica
"Dormi,dormi", suggeriscono
la presenza , nella poesia del Lafortuna. di una dimensione panica, che però
non subisce le complicazioni dannunziane. In
D'Annunzio, il panismo, semplificando, non è altro che un aspetto di quella
ideologia superomistica, certamente deformata rispetto all'originale
teorizzazione nicciana, ideologia completamente assente nella poesia del
Lafortuna, permeata di bonomia, di sobrie parole di conforto, di adesione
cordiale, per niente inimitabile ed estetizzante, alla vita nella sua
quotidianità. Una
lettura ulteriore delle liriche del Lafortuna ci porta, però, anche verso altra
direzione. S'intuisce subito che l'esperienza poetica del Lafortuna non è
spiegabile soltanto secondo tale ottica. Ci sono altre direttrici ,tra cui
senz'altro quella indicata da Giuseppe Lombardo Radice nella sua breve
prefazione, quando dice che "egli (Lafortuna) è il fanciullo- poeta che
dovrebbe essere ogni vero maestro" Ecco
dunque un'altra angolazione ,quella certamente preponderante, comprendere la
poesia del Lafortuna. Al
pari della poesia del Pascoli,anche in quella del Lafortuna si respira "il
mistero",per esplorare il quale insufficienti si sono rivelati sia la
filosofia sia la scienza, la prima in quanto non ha saputo dare una spiegazione
soddisfacente del mondo,la seconda perché non ha saputo assicurare all'uomo la
felicità tanto decantata ed il dominio assoluto della Natura,aspetto quest'ultimo
di cui noi quotidianamente sperimentiamo la veridicità, vagliando la nostra
impotenza di fronte a fenomeni naturali devastanti che ci affliggono, che
dimostrano che per quanti passi l'uomo possa compiere nel campo delle conoscenze
e della tecnologia,^ divario tra sé e la Natura non sarà mai colmabile. Ma
dove hanno fallito il filosofo e lo scienziato può, secondo il Pascoli
,riuscire il poeta, il solo che,mediante improvvise intuizioni, può
"illuminare" in qualche misura, il "mistero" ed attingere al
segreto della vita universale e alle corrispondenze arcane tra le creature e le
cose. Questa
dimensione del mistero e delle corrispondenze arcane tra le creature e le cose,
la si trova anche nella poesia del Lafortuna, come attestano tanti suoi versi,
sia delle liriche già citate sia di altre ,come, esempio, la lirica "
Giocattolo abbandonato", in cui risulta evidente l'arcana corrispondenza
tra il giocattolo e il bambino,diventato nel frattempo adultere a cui la vita è
stata tolta dalla violenza delle armi In
tal senso la poesia per Lafortuna, al pari del Pascoli, diventa strumento di
conoscenza, in quanto consente di cogliere una " verità" altrimenti
destinata a rimanere nell'ombra ; di " rubare" sprazzi di luce a
quella realtà vera che è il mistero che si annida nelle cose, nei rapporti tra
esse e il mondo delle persone, una realtà che non è più quella fenomenica
,che cade sotto i nostri sensi, ma qualcosa di più profondo, che si nasconde
all'occhio della ragione e della scienza,ma non a quello del poeta"
veggente" , il solo che sa in qualche misura scoprirla, portarla alla luce. Riprendendo,
poi, la definizione che il Lombardo Radice da del Lafortuna
"fanciullo-poeta", appare evidente il richiamo a quella "Poetica
del Fanciullino" che il poeta di San Mauro di Romagna elaborò in una
prosa, enunciandone gli elementi portanti. Pascoli
fa del fanciullino il simbolo dell'irrazionalità, del modo, cioè, tutto
particolare,ingenuo ed incantato di vivere e di sentire che ha il vero poeta. E
questo fanciullino non è una prerogativa di alcuni. E' in tutti gli uomini, per
cui,in teoria,tutti possiamo essere poeti Avviene però che i più, assillati
dalle loro attività pratiche, mettono a "tacere il fanciullino che è in
loro"; in pochi, tra i più sensibili e sognanti, il fanciullino fa sentire
continuamente la sua voce di stupore davanti alla natura e al fascino del
mistero. Questi pochi sono i veri poeti. E
che il Lafortuna sia fanciullo-poeta si scorge nello stupore che impregna i suoi
versi e che gli consente di " far rivivere ciò che è stato", e ciò
che egli ha modo di osservare, stupore che sappiamo essere una "virtù"
appartenente al mondo dei fanciulli, che l'uomo adulto ha depauperato, assillato
dalle incombenze della vita, nonché dall'inseguimento spasmodico di falsi
valori, in primis quello di "far soldi", sospinto dal desiderio di
apparire, tanto che oggi si può, in una certa misura, rovesciare l'antico detto
che "non è l'abito a fare il monaco" . Ma
faremmo un torto al maestro Lafortuna se lo adagiassimo completamente sulla
esperienza pascoliana. Pascoli
ebbe il merito,sappiamo,di aver capovolto i termini della poetica romantica là
dove essa parlava del "poeta ut puer" (poeta - fanciullo) in "puer
ut poeta"(del fanciullo - poeta). Questo
capovolgimento lo portò, però, a confondere quella fanciullezza ideale della
poesia ,a cui alludevano i Romantici, con la reale fanciullezza, un'esperienza
cioè chiusa in un mondo limitato, facendo così fare, come osserva il Puppo,
"al poeta un vero e proprio regresso psicologico", che non poteva non
essere,nel suo caso, che foriero di un'angoscia esistenziale, senza
consolazione, essendo stata la sua adolescenza devastata dall'intervento
"dell'uomo e della storia", intervento che aveva disarticolato quel
legame naturale che era la famiglia. Ciò
spiega il perenne ricorrere nella poesia pascoliana, come osserva Bàrberi -
Squarotti, dell'immagine dell'infanzia come nido non ancora disfatto, della
casa, come nido " caldo,chiuso,raccolto....,senza rapporti con l'esterno,
ma brulicante di complici intimità, di istinti e di affetti viscerali". La
casa -nido serviva al Pascoli per sottrarsi alla Storia,ossia alla vita,
"dispensatrice di dolore" Nella
poesia del Lafortuna , al contrario, non scorgiamo il dramma,!'angoscia
esistenziale, una conflittualità con il mondo circostante, con la vita, che al
Pascoli infondeva timore}paura, perché contrassegnata dal dolore e dalla morte
la cui, come unica consolazione, si poteva opporre il "sentirsi fratelli
nel comune dolore", o il rifugiarsi nella casa-nido. Lafortuna
non si rinchiude "in una sua "casa - nido". Troviamoci contrario,
nelle sue liriche cordiale adesione alla vita, gustoso divertimento, una
materna,più che paterna, La
poesia del Lafortuna si discosta da quella pasco! i an a, anche per altre
ragioni. Il
verso del La fortuna non è " franto dalle cesure", non è dilatato
dagli "enjembements" ,attraverso cui il Pascoli supera il limite del
verso e della strofa, non si affida alla vasta gamma di risonanze ed echi che
offre la parola utilizzata per il suo valore fonosimbolico, come fa il Pascoli,
ma è "snello e vivace",come osserva il Lombardo Radice, senza
complicazioni retoriche. Inoltre,
mentre la poesia del Pascoli, così come osserva il Modigliani ," non ha un
filo narrativo né logico, è una poesia senza dimensioni e senza linee,
tutta atmosfera e stati d'animo ",quella del Lafortuna procede
secondo uno schema di tesi-antitesi, attraverso cui il poeta caccurese
conferisce ai suoi versi quella dimensione didascalica peraltro evidenziata da
Lombardo Radice, li carica di una valenza morale, sociale che risulta evidente. Quanto
sopra ci consentiva di guardare, per la lirica del Lafortuna, anche al di fuori
dell'esperienza pascoliana , di scorgere in essa anche echi antecedenti ,
presenti in quella tradizione della poesia italiana, come quella Romantica fino
al Carducci, che aveva svolto una funzione sociale, nel senso che essa veniva
vissuta come mezzo si di conforto,ma anche di elevazione spirituale e di
celebrazione dei grandi ideali umani Era questa la dimensione del Poeta vate ,in
cui il Pascoli ,per sua indole, non poteva riconoscersi. Orbene,
che ci sia una dimensione sociale nelle liriche del Lafortuna è fuori da ogni
dubbio. Certo, essa non ha la consistenza di quella dei grandi Romantici, non
proclama grandi ideali umani, non celebra grandi valori e grandi sentimenti.
Essa svolge , sommessamente, la sua funzione nell'ambito di una realtà
ristretta ,di quella realtà umana che il maestro Lafortuna ha di fronte e che i
suoi versi possono raggiungere, una realtà riconducibile a quel mondo
scolastico per il quale egli dovette nutrire un profondo rispetto, per il quale
mondo i suoi versi vogliono essere un veicolo di elevazione culturale,
spirituale, vogliono essere,come osserva l'amico Nino "Piccole perle". In
considerazione di quanto detto, mi sembra che la nota caratteristica della
poesia del Lafortuna sia un certo eclettismo,per il fatto che egli manifesta la
capacità di assimilare spunti, immagini, della tradizione poetica italiana di
fine Ottocento, il che lo rende non rinchiudibile in uno stereotipo, cosa non da
poco lo rende unavoce che, pur guardando a dei modelli , rivendica per sé
una sua autonomia, una sua originalità, nota che ci consente di parlare di lui
, oltre che come maestro ed educatore,anche come poeta. Un
'ultima considerazione, prima di concludere. Come
conciliare il messaggio che emerge dalle sue liriche con la sua convinta
adesione al fascismo? Come non trovare stridente lo stupore infantile, la
bonomia, il candore, l'arguzia, l'adesione cordiale alla vita che emerge dai
suoi versi, con i proclami di guerra, le leggi razziali, le politiche coloniali
del fascismo? Quello
che mi sento di dire è che egli non avvertì la contraddizione,per il fatto che
per lui non c'era. Al
pari del Pascoli, umanitarista e socialista, che inneggiò all'impresa di Libia
nella sua famosa prosa "la grande proletaria si è mossa", credendo,
ingenuamente, ciò che la propaganda affermava,ossia che essa rappresentasse
un'opportunità per sollevare le sortì della moltitudine dei contadini
italiani, anche il Lafortuna credette, ingenuamente, alla retorica fascista che
presentava il regime come lo strumento per conferire all'Italia quella grandezza
che le competeva per i suoi trascorsi storici, per conferire al popolo
italiano,quindi anche a quello della sua Caccuri,, quella dignità morale,
culturale, economica che le spettava, per dare ai personaggi e al mondo delle
sue liriche un futuro non contrassegnato da privazioni.
Francesco Falbo
Relazione sul Poeta Umberto Lafortuna (Savelli 27.3.1884 - Caccurì 25.12.1944) "La società contadina nei versi di Umberto Lafortuna" Caccurì 18 dicembre 2005 II mio caro amico Giuseppe Marino, vostro concittadino, parlando di Umberto Lafortuna lo ha definito: "Poeta fanciullo, poeta dei fanciulli", riprendendo le asserzioni fatte da Giuseppe Lombardo Radice nella prefazione dell'unica opera stampata dal nostro poeta, "Pupille infantili". Rileggendo
i versi di questa raccolta non ho potuto fare a meno di condividere quanto da
loro affermato ed aggiungere che, con semplicità, senza filosofeggiare, con
delicatezza, da vero maestro educatore, riesce a trasmettere ai giovani allievi,
stimolando la loro fantasia, i principi morali e i valori che hanno supportato
per millenni la civiltà umana e trasformato in tradizione, da non sottovalutare
e abbandonare, la società contadina. "io e le stelle non siamo pur e belle? " Lafortuna offre nei suoi versi: la natura vergine e antica della sua Calabria, i suoi rapporti umani, le usanze, i magici rituali, insomma il prezzo che bisogna pagare per non pensare alle sofferente e uscire almeno virtualmente dall'oppressione della miseria. Quindi
la voglia di scrollarsi dalle pene e dalle sofferenze quotidiane: Il
cielo ha un sapore di neve stasera, stasera si beve! I gravi, barbuti discorsi si
piglino a calci e a morsi. II
vino ci doni l'ebbrezza la
noia gli affanni, il dolore. Palummella Pure nui canciàmu Quann
'era quatrarellu Alcune poesie sono dei brevi e delicati racconti, come tanti piccoli fotogrammi, tante piccole pennellate multicolori che insieme contribuiscono a raccontare un'epoca dal punto di vista di persone umili, anonimi protagonisti che, con le loro esperienze e la loro vita, hanno costruito delle microstorie comuni a tanti piccoli centri del sud: Palmerinu, (Ciccillu, Viloce, Cacciature spraticu, e tante altre Anche prescindendo dall'individuazione rigorosa degli ecotipi eventualmente presenti nei rapporti popolari è possibile raccogliere nei versi di Umberto Lafortuna l'universo dei temi culturali e dei valori testimoniali del patrimonio e della civiltà, o meglio, società contadina. Una società che si trova a grande distanza dai ritmi di quella urbana, la quale, spesso, assume i tratti di una "società inglobante" che si contrappone e soverchia quella rurale legata ai ritmi della natura al tempo metereologico, al ciclo delle stagioni, alla imprevedibilità delle intemperie e delle calamità naturali. La società contadina legata a quel ritmo che potrebbe essere definito "dimensione temporale della natura", poiché la natura non ha storia agli occhi del contadino. I suoi componimenti delineano un universo che è bene conoscere per dilatare la nostra consapevolezza storiografica e letteraria per comprendere il passato che comunque sorregge il nostro presente. Chi ha conosciuto il mondo contadino ne ritrova i tratti che fanno riaffiorare il sapore e l'odore del pane appena sfornato, i lunghi freddi e piovosi inverni in cui si stava di più attorno al focolare, interrogandosi sulle condizioni del tempo, enumerando i lavori nei campi rimasti in arretrato. Vernu Ardu
Ile Ugna 'ntra lu focularu Ecco con che bravura ci trascina ad immaginare quando a sera alla sola luce delle vampe un po' schioppettanti e allegre o declinate e cupe, ai più anziani veniva chiesto di raccontare qualcosa, frammenti di vita paesana, situazioni e personaggi di un ordinario vivere, ma nello stesso tempo fa emergere le sofferenze patite dalla gente, la fame, la miseria, il durissimo lavoro, le calamità naturali che rendono catastrofico il già triste stato dei molti, al limite della sopravvivenza. Due versi di Nonno inverno "Nonno inverno sii clemente per chi soffre e non ha niente " La sofferenza delle famiglie divise a causa dell'emigrazione. Alcuni versi Ala di vento Forse
in quest'ora Accanto a pagine che fanno riflettere sull'asprezza di quel tempo, ce ne sono molte altre di sapore leggero e delicato, come
quelle che colgono le emozioni infantili, la gioia delle piccole
cose. qualunque paese del sud o del nord, perché i tipi umani non hanno luoghi, si ritrovano dappertutto. Spesso, come avete potuto notare, utilizza la lingua del popolo, rifiutando la lingua ufficiale, ma solo perché con la lingua parlata, un gesto, la mimica, una smorfia della boccasi riesce a fare un discorso. Chiunque
si avvicina alla poesia di Lafortuna si rende subito
conto di quanto era attaccato al quel mondo semplice e
come la sua intuizione e il suo fare ne siano espressione diretta,
colmi di una ricchezza impareggiabile. Il
rispetto per la terra, per la natura, per l'amicizia; il suo alto
senso dei valori, famiglia, stato, diritti e doveri. Da
ciò possiamo affermare, senza rischio di smentita, che la lettura
delle opere di Lafortuna è un vero e proprio viaggio nel
passato, che si rinnova giornalmente nelle nostre azioni. Tolta
la polvere del tempo si nota e si apprezza la capacità di
Lafortuna del raccontare la società vissuta, ricca di emozioni
e di sentimenti genuini, anche di una dolce malinconia
che l'accompagna e la anima e che gli consente di
parlare della realtà vissuta con una semplicità tale da comunicare
anche con i bambini, costellazioni del suo lavoro
di maestro, e per i quali ha scritto molti suoi componimenti,
per parlare a persone e
di persone sintonizzate
sulle stesse frequenze
sentimentali ed emozionali.
Riesce a portare alla ribalta gli
elementi e i protagonisti della
sua Calabria. Oggi
riproporlo è un modo per
recuperare il forte sentimento
dell'appartenenza e dell'identità comune, che è come
un messaggio proposto alle nuove generazioni che nonostante
tutto e malgrado loro, hanno le radici proprio in quel
passato in quella memoria collettiva.
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