I TEMPI CAMBIANO

di Vincenzo Ballo

Fidanzamento e matrimonio

 

[Salta al segnalibro: regali - ottocento - parità - suffragio - pillola].

 

Fino agli anni Sessanta il matrimonio era combinato. Quando un giovane si avvicinava alla trentina, i genitori pensavano di accasarlo e si guardavano attorno per trovargli una buona moglie. Di solito preferivano una ragazza del vicinato, che conoscevano quanto fosse onesta, giudiziosa e massara. Se non sapevano a chi rivolgere l’attenzione, chiedevano  confidenzialmente ai parenti più stretti o amici anziani se ne conoscessero qualcuna, di famiglia consimile alla propria, adatta al proprio figlio, ragazzo spirtu, bravo e lavoratore. A volte i suggerimenti arrivavano non richiesti, e sovente erano dati con criterio. Non era però scontato che la proposta fosse di gradimento al fidanzando, perché lui, a tutte le buone qualità, anteponeva la bellezza, ciò che i proponenti lasciavano in secondo piano. Si dava pure il caso che avesse già adocchiato una bella ragazza o ne fosse innamorato, ma i genitori disapprovassero la scelta. Succedeva altresì che il giovanotto esprimesse il desiderio di volersi sposare, quando s’innamorava e aveva una certa età, ma sentirsi rispondere d’essere ancora giovane.

Una volta che tutti fossero d’accordo, si faceva, tramite una persona amica e rispettabile, di comune conoscenza con la famiglia della prescelta, la domanda di matrimonio. Ma in caso di rifiuto bisognava ricominciare d’accapo. Era bene dunque avere qualche altra ragazza sott’occhio per non perdere tempo a cercare e decidere. Infatti era possibile che trascorresse qualche anno prima di riuscire a trovare moglie, non è che fosse una cosa facile, specialmente se non si era appetibili o si mirasse più in alto del merito. Così, quando le conoscenze sposabili erano più d’una, si cominciava dalla preferita e man mano che si ricevevano rifiuti (in questi casi chiamati coffe, come se fossero sporte, tipo quelle che i contadini usavano per seminare o per dare il cibo alle bestie nelle pause di lavoro), si scendeva, anche prendendo in considerazione ragazze scartate in precedenza, fino a ricevere una risposta positiva.

Il pretendente respinto a volte si vendicava facendo lu schifu (nottetempo appendeva qualcosa, di solito un cane o un gatto morto, alla porta della ragazza; come qualcuno faceva pure per un amore non corrisposto o quando lei si rifiutava di continuare, probabilmente perché innamoratasi di un altro). In casi rari, poteva succedere che, se troppo invaghito, decidesse di rapire la ragazza e costringerla così al “matrimonio riparatore”, che lei avrebbe accettato per non restare schetta (signorina). Finché nel 1965 una ragazza di Alcamo, Franca Viola, rischiando e soffrendo, non si rifiutò di sposare il suo rapitore, e quel sopruso cadde in disuso. A lei andrebbe fatto un monumento per aver liberato le ragazze siciliane da tale eventualità. 

Maritare una figlia ero spesso più facile, malgrado non fosse possibile scegliere di propria iniziativa ma bisognasse aspettare che qualcuno si dichiarasse. A volte purtroppo si era costretti a rifiutare buone proposte di matrimonio per indisponibilità finanziaria, quando risultava problematico indebitarsi. Qualche volta capitava che una ragazza bella ricevesse la domanda di uno disposto ad accollarsi tutte le spese di matrimonio, ma doveva accettarlo così com’era. Comunque, inizialmente si sperava il meglio e si aspettava il buon partito; ma, se la carusa cresceva, bisognava accontentarsi per evitare che restasse zitella.

Ovviamente, così come la “controparte” si era informata prima di dichiararsi, quando arrivava una richiesta di matrimonio ci si informava del pretendente e della sua famiglia. Se il giudizio era negativo, si licenziava senza neanche mettere al corrente la ragazza, (ma certi genitori ritenevano fosse meglio lo sapesse); decidendo invece di dare una risposta positiva, lo si comunicava all’interessata.

C’era il caso che la signorina fosse innamorata segretamente di un bel giovanotto, che un giorno avrebbe voluto sposare. Fino agli inizi del Novecento ubbidiva ai genitori col pianto nel cuore, e nella sua mente sarebbe rimasto il ricordo d’un grande amore perduto. Quando intorno alla metà del secolo le era concesso di decidere ma non poteva confessare di essere già innamorata, non avendo altre giustificazioni per rifiutare, diceva che non voleva sposarsi. Ma non ci si può ripetere nel diniego senza destare sospetti e, dopo varie insistenze, acconsentiva a conoscere l’importuno, decisa a dire poi “Non mi piace”. Inoltre, se non aveva la certezza che l’amato l’avrebbe sposata, e il pretendente era interessante, avrebbe potuto accettare, convinta che col tempo si sarebbe innamorata. Però raramente la ragazza aveva qualcuno o “grilli” per la testa.

Se era disponibile ma non conosceva l’aspirante, o non lo conosceva bene e voleva conoscerlo meglio, si organizzava un incontro affinché potesse guardarlo da vicino e sentirlo  parlare. Questo avveniva  in casa di amici o parenti, oppure in casa della ragazza, la quale era avvisata della cosa e, per non pentirsi dopo, doveva esaminare bene il probabile futuro sposo, senza darlo a vedere. La buona educazione impone la dissimulazione, per cui non si accennava al motivo dell’incontro ma si trovava una scusa che, presa alla lettera, risultava ridicola o divertente, tipo “Ci hanno detto che volete vendere questa casa”, la quale sembra alludere alla ragazza, come se fosse in vendita.

Il giovane pretendente sapeva di subire un esame, anche da parte della possibile futura suocera e di altri eventuali presenti, per cui, celando il probabile imbarazzo, doveva mostrare le sue buone qualità con l’aspetto e la parola. Il responso avveniva dopo qualche giorno, non troppo tardi, per non mostrare indecisione, né troppo presto, per non dare l’impressione di essere troppo entusiasti.

Quindi si faceva una riunione, dalla quale fino ai primi anni Cinquanta era assente la fidanzata, per stabilire la dote e, con approssimazione, la data di matrimonio. Vi partecipavano il fidanzato, senza facoltà di parlare, i mediatori e alcuni parenti stretti. Si stilava e firmava un contratto, ma per lo più bastava la parola, non tanto perché si era analfabeti, quanto perché nella civiltà di allora la parola data era un impegno d’onore che non veniva infranto. Concluse le trattative, si stabiliva un prossimo giorno per ufficializzare il fidanzamento, festeggiando con un rinfresco.

[Segnalibro: regali]

Lo scambio dei regali sarebbe avvenuto successivamente. Solo alla ragazza si regalava l’anello di fidanzamento e la vera. Quando il primo contadino volle il segno del matrimonio si ironizzò con la battuta: “Deve andare a zappare con la fede?”.

Negli anni Sessanta si esagerò coi regali: anelli, orologi e bracciali d’oro per entrambi, e collane, orecchini e molti abiti per la fidanzata. Quasi tutto veniva comprato con l’approvazione dei destinatari, che non si curavano se i donatori avessero fondi a sufficienza. Al primo incontro il neo-fidanzato si presentava con una collana d’oro, ma non si offrivano ancora i fiori. Quando qualcuno cominciò a farlo, una neo-fidanzata che non li aveva ricevuti ne fece allusione allo screanzato, il quale, senza scomporsi, le disse di non averlo fatto perché i fiori appassiscono e sono simbolo d’amore che dura poco, mentre lui voleva che il loro amore durasse in eterno e perciò le aveva regalato oro.

 

Offerta di fiori - 1994, olio su tela 45x60

 

In quegli anni ci fu una certa apertura mentale, per cui, all’ufficializzazione del fidanzamento, i parenti potevano baciare la zita, anche i maschi, ovviamente sulla guancia, ma al fidanzato era vietato. In teoria avrebbe dovuto aspettare il matrimonio, in realtà ci riusciva prima, anche se era tenuto sotto sorveglianza. Durante il periodo di fidanzamento, a volte con giorni e orari stabiliti per le visite di lu zitu, i poveri innamorati – anzi dovevano ancora innamorarsi e conoscersi – se ne stavano seduti vicini, lui tenendo il braccio sopra le spalle di lei, che certamente all’inizio gradiva ma poi cominciava a sentirne il peso. Il fidanzato tendeva a stare fino a tardi, sperando che ai suoceri prendesse sonno e lui potesse approfittarne per un contatto più intimo con la ragazza. Ma fino alla seconda guerra mondiale ciò era quasi impossibile perché i due stavano seduti lontani a guardarsi in faccia e, quando uscivano insieme, camminavano uno dietro all’altra, ciascuno insieme ai famigliari del medesimo sesso, comunque non molti. Si vietavano i contatti fisici perché, in caso di rottura del fidanzamento, poi era difficile trovare marito per una ragazza che era stata “tuccata”. Dopo la guerra si mettevano a braccetto, ma accompagnati da qualche famigliare, di solito donne, e nei due giorni della festa di Ferragosto la coda si allungava con altri parenti, desiderosi di essere invitati a prendere il gelato seduti davanti al bar.

Il fidanzamento era costoso per entrambe le famiglie: i genitori di lei dovevano fare bella figura col futuro genero, che era ancora un estraneo, quando lo invitavano a pranzo o a cena, e lui doveva dimostrarsi generoso; ma pesavano di più le spese di dote e di regali. Perciò spesso, per l’orgoglio di non sfigurare rispetto ad altri ma fare anzi meglio, ci si indebitava,  rischiando di rovinarsi.  

Per questo, dovendo assolutamente risparmiare, i fidanzati poveri effettuavano la fuitina, che era una scappatella combinata per fornire la scusa ai genitori di sentirsi offesi e non contribuire alle spese. A volte però la fuitina era fatta da giovani innamorati che non avevano voglia di aspettare tempo a sposarsi per motivi economici o di precedenza, con sorelle o fratelli maggiori, oppure per mettere di fronte al fatto compiuto le famiglie che non erano consenzienti alla loro unione.

Il fidanzamento, che durava in media un anno, era un periodo di armonia, allegria e felicità, le famiglie collaboravano pure in lavori che interessavano solo una di esse, i rapporti erano al top del desiderabile. In casa della sposa ci si riuniva anche con parenti del fidanzato, la parentela virtualmente si allargava, e i fidanzati entravano a far parte reciprocamente di una nuova famiglia con un legame oggi non immaginabile. Il fatto che i suoceri fossero chiamati “mamma” e “papà” non rimaneva un’espressione di mero rispetto, ma dimostrava un legame e un affetto molto vicini al significato del termine. Ovviamente, specie dopo il matrimonio, a volte i rapporti si deterioravano ma, con deferenza alla gerarchia, rimaneva il rispetto reciproco, magari di facciata, salvaguardando i doveri e i diritti tra genitori e figli anche nelle relazioni tra suoceri e generi/nuore.

Qualche giorno prima delle nozze si esponeva la biancheria della futura sposa, che era il blocco principale della sua dote. La quantità ovviamente variava a seconda delle possibilità: la più comune era quella detta “a quattro a quattro”, ma tanti la portavano “a sei a sei”: cioè composta, fra l’altro, da quattro o sei coperte, oltre ad una imbottita detta “cuttunina” (in seguito sostituita dalla termocoperta), quattro o sei paia di lenzuola; il numero poi veniva quadruplicato per gli asciugamani e la biancheria intima, la quale sarebbe dovuta bastare per tutta la vita e perciò la si donava in diverse misure, prevedendo che con l’età s’ingrassasse.

Il matrimonio si celebrava di sera, allo scopo di favorire la partecipazione dei parenti, che di giorno erano impegnati nel lavoro. Finché i preti decisero di imporre la cerimonia di giorno, poi si escluse la domenica, per non interferire con le funzioni religiose, e si finì per sposarsi di sabato.

Le nozze si festeggiavano in casa di uno degli sposi o di un congiunto che aveva più spazio per accogliere gl’invitati, e ci si faceva prestare le sedie da vicini di casa e parenti, affinché tutti avessero il posto a sedere. Secondo i tempi e le possibilità, si offrivano (si diceva spinnivanu, perché spendere ha pure il significato dialettale di offrire) ceci abbrustoliti o dolci fatti in casa e buon vino; poi dolci comperati, sciolti o in sacchetto, con zibibbo o con altri liquori (per un certo periodo preparati in casa con alcol e bustina); quindi paste, infine paste insieme ad altri dolci, per fare più bella figura. La distribuzione era effettuata da agnati volenterosi che se ne onoravano, con vassoi grandi per i dolci e piccoli per i liquori: nell’offrire questi ultimi si era quasi sempre in due, uno teneva il vassoio che avvicinava agli invitati e l’altro riempiva i bicchierini man mano che venivano svuotati, senza lavarli. Ai vecchi tempi non c’erano confetti, almeno fra i poveri, poi si offrirono sciolti, distribuendoli col cucchiaio quando si passava a salutare gli sposi per andare via e ciascuno se li metteva in tasca, magari avvolti in un fazzoletto. Successivamente si pensò bene di offrirli in fazzolettini di velo annodato (prima cinque, poi sette) anche per evitare sprechi e favoritismi (perché la sposa poteva avere un occhio di riguardo per qualche parente); le bomboniere son venute tardi. Tutte le incombenze per i preparativi e l’attuazione delle faccende richiedevano molto lavoro e impegno.

Migliorando le condizioni economiche, si passò a offrire un sostanzioso rinfresco, equivalente a un buon pasto, servito da solerti camerieri. In più, celebrando il matrimonio di mattina verso le undici, i parenti stretti (fino ai fratelli e sorelle dei genitori) restavano a pranzo, consistente in diverse portate, preparate in un ristorante esterno, che si consumava nel tardo pomeriggio. La sera tornavano gli altri invitati per continuare la festa con ulteriori assaggi e ballare fino a mezzanotte; non si andava oltre perché gli orchestrali ponevano quel termine e sicuramente agli sposi faceva piacere. L’intrattenimento si svolgeva nei locali delle società Militari in congedo o Margherita. Poi si pensò di offrire solo il pranzo in un ristorante, facendo più bella figura con uguale spesa. Ma al paese non ce n’erano con lo spazio sufficiente per accogliere tutti gli invitati, che potevano arrivare fino a quattrocento, dato che allora anche i fratelli e le sorelle degli sposi invitavano i propri amici. Ne fu aperto uno adattando gli ambienti dove adesso c’è la Biblioteca comunale, ma fallì, perché gli sposi preferirono andare fuori dal paese, in ristoranti del lago Pergusa e in seguito anche altrove, come se ciò rendesse più grandiosa la festa, obbligando gl’invitati sprovvisti di auto a noleggiarne una con l’autista, il quale si autoinvitava. 

Tra l’altro, gl’invitati che non erano parenti stretti, facevano regali scarsi, di valore inferiore al costo di quello che consumavano.

Dopo che gli sposi erano andati a inaugurare il talamo, nel silenzio della notte sbocciava una melodia dolce e carezzevole: era la serenata. Si usava farla anche al tempo del corteggiamento, nel qual caso poteva essere eseguita da soli strumenti o da un cantante con la chitarra oppure accompagnato dalla fisarmonica. La serenata di matrimonio invece era fatta col complesso al completo dei suoi elementi, esclusa la batteria, per non disturbare, e la tromba metteva la sordina, perché la musica doveva cullare, o avere la cadenza dell’amore. Nel cuore della notte l’ascolto era piacevole e sembrava di sognare.

Negli anni Sessanta cominciò l’uso di fare il viaggio di nozze, ma i più facevano il giro dei parenti emigrati, risparmiando in vitto e alloggio e raccogliendo regali. 

 

[Segnalibro: ottocento] 

Nell’Ottocento gli sposi si davano del voi, difficilmente avevano gustato i baci prima del matrimonio, neppure gli uomini perché, anche se erano andati con le prostitute, non le avevano baciate sulla bocca, e le sposine col primo bacio conoscevano anche la deflorazione, magari con maschi che non erano capaci di capirle e spesso pensavano che a tutte le femmine piacesse la violenza.

Checché se ne dica però c’era amore e rispetto fra i coniugi, perché l’amore è una necessità quasi vitale. Ma esso prescindeva dai rapporti famigliari e dai ruoli di ciascuno. I costumi limitavano la libertà della donna, le imponevano di stare sottomessa e lei si adeguava. L’uomo “portava i pantaloni” e questi erano segni di comando. “Triste quella casa dove canta la gallina”, si diceva. (Il suo canto, col quale dimostrava di voler fare il gallo, era considerato di cattivo augurio).

Le donne contavano nulla in famiglia e poco nell’andamento della casa. Il loro compito era accudirla e fare figli. Quando si comperavano immobili, l’uomo intestava tutto a se stesso. Ci volle una legge dei primi anni Settanta per imporre la comunione dei beni, a meno che i coniugi decidessero di tenerli separati. Il marito era il padrone, la moglie era la serva. Qualcuno la trattata come una schiava, c’era chi la picchiava per un nonnulla, e ho sentito uno vantarsi che ogni tanto la schiaffeggiava per tenerla in soggezione: così lei, per timore, se ne sarebbe stata buona e ubbidiente. Molti le vietavano di uscire di casa senza permesso e qualche raro individuo, per essere sicuro che non uscisse, la chiudeva a chiave. Su questo tema Pirandello scrisse una novella e una commedia, dandone però uno sviluppo irrazionale con la sua dialettica sul relativismo dell’essere e l’apparire.

[Nota 11-1: “La signora Frola e il signor Ponza suo genero” e “Così è (se vi pare)”].

 Ma, senza giungere a tali estremi, per una donna non era decoroso affacciarsi spesso sulla strada. Perciò, obbligate a stare come prigioniere, molte avevano un perenne mal di testa, facilmente dovuto alla depressione, di cui allora non si parlava, e le povere donne, non solo soffrivano senza possibilità di curarsi, ma erano anche criticate proprio per il fatto di stare sempre tristi e malinconiche. Il classico fazzoletto in testa era spesso una necessità per lenire la sofferenza.

 

Tutto questo fino agli anni Cinquanta. Poi, con l’emigrazione, le donne andarono a lavorare in fabbrica e ottennero necessariamente libertà di spostamento. Guadagnando, hanno potuto reclamare dei diritti e al contatto con una nuova società, in cui si sono integrate, hanno raggiunto una certa indipendenza e qualche parità. Gli uomini hanno preso coscienza della realtà, riconoscono che sia giusto e, volenti o nolenti, sono disposti a concederla.

A livello giuridico ora possono esercitare le professioni prima riservate ai soli uomini. Purtroppo non si è ancora giunti realmente alla completa parità: in molti settori le donne sono pagate meno degli uomini, pur svolgendo lo stesso lavoro. D’altra parte ci sono attività pesanti o disagiate che loro hanno voluto ottenere per il mito dell’uguaglianza, ma quando si trovano a doverle svolgere, non le ritengono adatte al proprio sesso e cercano di evitarle, imboscandosi. Perché, diversamente da quello che dicono molte femministe, i due sessi sono fisicamente diversi, più di quanto l’apparenza dimostri. E’ giusto che i diritti siano uguali per tutti, ma bisogna riconoscere certe peculiarità.

La voglia di emancipazione della donna ha coinciso con gli interessi degli industriali, i quali, imponendo nuove esigenze e non dando la possibilità di soddisfarle con lo stipendio o il salario del “capofamiglia”, hanno indotto la donna a lavorare fuori di casa, continuando a fare la casalinga nel tempo libero. Quindi, mancanza di tempo, ambizione di far carriera, voglia di divertirsi, riduzione d’incentivi e carenza di strutture adeguate per la crescita dei figli, a cui spesso sopperiscono i nonni, l’hanno obbligata a rinunciare ad averne. In certi casi e in certi luoghi è costretta a non rimanere incinta (o, quando capita, ad abortire) per non essere licenziata. Addirittura nell’ex Germania Orientale, dopo la riunificazione, molte donne hanno dovuto ricorrere perfino alla sterilizzazione per avere un posto di lavoro.

 

[Segnalibro: parità]

La storia per la conquista della parità giuridica dei sessi è stata molto lunga e, poiché parliamo dei tempi che cambiano, si rende utile accennarne.

Ricordiamo che in passato la donna non era padrona neanche della sua proprietà, il maschio ha detenuto quasi sempre e ovunque il potere. Persino in quei paesi, maggiormente fra i popoli primitivi, che per garantire la successione naturale hanno un ordinamento matrilineare, il potere è dato allo sposo della sovrana. Con questo sistema c’è la certezza della discendenza legittima e il capo è sempre un uomo robusto e capace di comandare.

[Nota 11-2: “Matriarcato e potere delle donne” di Autori vari, Ed. Feltrinelli, Milano 1978].

Mentre con la successione patrilineare, al trono potrebbe salire legittimamente un incapace o un illegittimo, in quanto la regina l’abbia potuto concepire con un estraneo, magari straniero. E se anche lei è di provenienza estera, nella dinastia subentra una nuova famiglia di origine forestiera.

 In quasi tutte le civiltà del passato le donne erano considerate quasi alla pari delle schiave o delle bestie e non osavano chiedere diritti. Paradossalmente venivano trattate meglio le donne di piacere d’alto bordo. Poi la cavalleria maschile le elevò su un piedistallo di rispetto formale, con qualche concessione agli accessori della femminilità, e loro furono contente di sentirsi “regine della casa”, “angeli del focolare”… Quando alcuni gruppi di femministe cominciarono a far sentire la loro voce di protesta, non poche si domandarono, in disaccordo: “Ma cosa vogliono?”. Volevano gli stessi diritti degli uomini. Solo che molte di quelle più agguerrite emanavano un certo odore omosessuale contro il maschio (almeno questa era la sensazione che si percepiva negli anni Sessanta del Novecento).

Il problema della parità dei sessi venne trattato apertamente per la prima volta nel 1622 dalla francese M.lle de Gournay, che scrisse L’eguaglianza tra uomini e donne. Oltre un secolo e mezzo dopo, nel 1791, la sua connazionale Olimpia de Gouges, osò presentare una Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina all’Assemblea rivoluzionaria (che già aveva dichiarato i Diritti dell’uomo, ma non della donna, sarebbe da precisare). Nessuno la prese in considerazione e due anni dopo, per essersi opposta alla politica del terrore di Robespierre, fu ghigliottinata. Altro che “liberté, egalité, fraternité”, l’uomo le leggi le ha fatte per sé.

Circa mezzo secolo dopo, alcune donne americane si unirono al movimento per l’abolizione della schiavitù ma, escluse dalla firma della dichiarazione conclusiva al congresso di Filadelfia, crearono una società femminile antischiavista. Emarginate poi al congresso internazionale di Londra, decisero di organizzarsi e lottare per i propri diritti. Nel 1848 tennero un convegno a Seneca Falls e cominciarono a chiedere il controllo della proprietà e dei guadagni personali, la tutela dei figli, il diritto di voto (che già nel 1647 un’altra americana, Margaret Brent, aveva chiesto senza esito nel Maryland) eccetera. Diritti sacrosanti che non potevano essere negati, eppure le richieste furono ritenute assurde dalla mentalità corrente, e le battagliere vennero chiamate ironicamente “femministe” e ridicolizzate con vignette satiriche. Ma nella lotta per tale giustizia molte ci avrebbero rimesso la salute e alcune la vita. In seguito, la stampa e il libro di Margaret Fuller La donna del XIX secolo, sensibilizzarono l’opinione pubblica femminile.

Scoppiò la guerra di secessione e le richieste furono accantonate per la necessità di assistere i feriti e sostituire gli uomini sul lavoro. Quando finì, nel 1865, fu abolita la schiavitù e tre anni dopo ai negri fu riconosciuto il diritto di votare. Ma le donne furono ignorate.

La veterana Elizabeth Stanton e Miss Anthony ripresero la lotta con più rabbia e cominciarono a manifestare nelle piazze per farsi notare. Finalmente nel 1869 ottennero il suffragio nel territorio dello Wyoming.

 

Nello stesso anno, l’Inghilterra concesse il voto amministrativo. Ma la strada per quello politico sarebbe stata ancora lunga. Le “suffraggette” adottarono una tattica di lotta senza tregua e molte furono condannate a mesi di lavori forzati per avere imbrattato muri e infranto vetrine. Emmeline Pankhurst fece lo sciopero della fame, della sete, del sonno ed evase più volte dal carcere, dove le prigioniere erano trattate in modo disumano.

Si pensava alla deportazione quando, per lo scoppio della prima guerra mondiale, il re concesse l’amnistia.

Nel 1917 ottennero il diritto di voto le donne che avessero compiuto trent’anni. E undici anni dopo fu esteso a tutte le maggiorenni.

 

Intanto il suffragio era stato concesso, nell’ordine, dalla Nuova Zelanda, dall’Australia, dai Paesi scandinavi e, nel 1920, dagli Stati Uniti.

 

[Segnalibro: suffragio

Da noi, dove la prima vera femminista italiana Anna Maria Mozzoni nel 1870 aveva tradotto La soggezione delle donne di Stuart Mill, furono le operaie tessili ad organizzarsi per prime, ma non per il diritto di voto, bensì per migliorare il loro misero tenore di vita: ottenere l’aumento del salario, inferiore a quello degli uomini, e la riduzione delle ore lavorative.

Anna Kuliscioff denunciava l’eccessivo lavoro delle mondine, col sangue succhiato dalle sanguisughe e infettato dalla malaria, e che in certi stabilimenti le donne lavoravano dalle quattro del mattino alle otto di sera. Alcune mamme, se non avevano chi potesse portare loro il figlioletto per la poppata, lo tenevano tutto il giorno in una cesta sul posto di lavoro.

Dopo anni di scioperi, nel 1902 una legge stabilì il “congedo di maternità” per un solo mese dopo il parto, dodici ore di lavoro giornaliero, interrotte da due di riposo, e l’interdizione di quello notturno alle minorenni.

Intanto i giornali cominciarono a interessarsi dei problemi della donna. Maria Montessori, la famosa pedagogista ritratta in una banconota delle ultime mille lire, invitò le donne a iscriversi nelle liste elettorali politiche, poiché nessuna legge lo vietava e l’art. 24 dello statuto albertino proclamava l’uguaglianza di tutti i “regnicoli”. Ma i giudici diedero parere contrario, e l’unica sentenza favorevole, emessa dal presidente della Corte d’appello di Ancona per le donne di Senigallia, fu annullata dalla Cassazione.

Nel 1912 il suffragio fu esteso agli analfabeti, ma non alle donne, pur se fossero laureate e pagassero le tasse.

Finalmente alcuni deputati socialisti chiesero il voto anche per loro, ma Giovanni Giolitti disse che non si potevano dare i diritti politici a chi non aveva quelli civili. E concederli a tanti milioni di donne sarebbe stato un “salto nel buio”. In verità tutti, liberali, clericali e socialisti, temevano che il voto muliebre andasse ai rispettivi gruppi avversari.

Scoppiata la guerra, le donne sostituirono gli uomini nel lavoro, e alla fine, il 19-9-1919, la Camera approvò il progetto di legge per il suffragio femminile. Ma decadde prima che se ne discutesse al Senato, perché “l’impresa” di D’Annunzio a Fiume provocò lo scioglimento delle Camere. L’anno successivo i deputati approvarono solo il voto amministrativo, ma i senatori non fecero in tempo perché ci fu la convocazione dei comizi elettorali. Poi il socialista Modigliani presentò un disegno di legge con un unico articolo: “Le leggi vigenti sull’elettorato politico e amministrativo sono estese alle donne”. Semplice, ma non fu discusso per l’avvento della “marcia su Roma”.

Il fascismo concesse il voto amministrativo, ma fu una beffa, perché subito dopo abolì le elezioni amministrative, come tutte le altre, instaurando la dittatura. Poi le donne furono escluse dall’insegnamento superiore e i salari femminili vennero ridotti alla metà di quelli corrispondenti maschili. La donna aveva la missione di fare figli per la patria, doveva restare eternamente fedele al marito, tutti i beni appartenevano allo sposo e nell’eredità a lei spettava solo l’usufrutto, come già stabiliva il vecchio codice del 1865.

Di nuovo una guerra mondiale, più cruenta dell’altra. E finalmente, pochi mesi prima che finisse, il 1° febbraio 1945, su proposta degli onorevoli Togliatti e De Gasperi, un decreto legge luogotenenziale concesse alle donne italiane il suffragio universale.

Nello stesso anno l’ottennero anche le francesi, alle quali Napoleone aveva tolto tutti i diritti.

 

 Ma il diritto di voto non bastava. Ed anche se le donne ne avevano acquisiti altri, erano lontane dall’uguaglianza con l’uomo, che deteneva il potere. Perciò negli anni Sessanta vi fu il risveglio di un nuovo femminismo.

Con la partecipazione di alcune militanti americane che avevano lottato per i Diritti civili, contro l’oppressione dei negri e contro la guerra nel Vietnam, nel 1967 nacque a New York il Movimento di liberazione della donna, che presto di diffuse in Gran Bretagna, in Francia col maggio del ’68 e in Italia nel ’69. Qui, le ragazze che aderivano al Movimento studentesco, non sentendosi considerate alla pari dai militanti maschi, se ne staccarono. Il femminismo si diffuse in altri paesi e perfino in Svezia, dove, sulla carta, già da alcuni anni le donne avevano ottenuto quello che le altre chiedevano, ma in pratica non c’era ancora la parità dei sessi.

“Il corpo è mio e lo gestisco io” gridavano le femministe, denunciando l’oppressione sessuale; mentre le più chiedevano la contraccezione, la depenalizzazione dell’aborto, asili nido e altre strutture sociali.

L’aborto incontrò una forte opposizione, particolarmente da parte della Chiesa con milioni di cattolici. Ma paradossalmente si battevano in difesa della vita del feto anche persone che consideravano normale la morte di milioni di uomini, donne e bambini per fame o a causa delle guerre.

Nel 1975 la Francia autorizzò l’interruzione della gravidanza entro le prime dieci settimane. Seguirono altri stati e nel 1978 fu la volta dell’Italia, con poche varianti. Ma molti medici negli ospedali si negavano di rispettare la legge per motivi religiosi e intanto magari praticano l’aborto clandestino, meglio remunerato.

[Nota 11-3: “L’avventurosa storia del femminismo” di Gabriella Parca, Ed. Mondadori, Milano 1976].

 

[Segnalibro: pillola]

Poi c’è stata la diffusine dei metodi anticoncezionali e specialmente la pillola ha dato alla donna maggior sicurezza nei rapporti sessuali, favorendo la libertà dei costumi e incoraggiando avventure extraconiugali. Diventata troppo sicura di sé, prende anche l’iniziativa del corteggiamento. Con la raggiunta indipendenza economica e con la possibilità del divorzio, approvato nel 1970, ha potuto scindere i legami coniugali e assaporare l’ebbrezza della libertà. La maggior parte delle donne separate o divorziate preferisce rimanere single per divertirsi e amare liberamente, senza alcun legame, che la obbligherebbe a servire l’uomo, se lui non si adegua a collaborare nei lavori domestici. Quando si stanca di uno, lo lascia e ne prova un altro. Un figlio può farlo con chi vuole e, volendo, potrebbe farlo anche solo con se stessa. Il condizionale è dovuto al fatto che la legge non lo consente, ma la scienza permette l’autoclonazione fecondando il proprio ovulo con una propria cellula. Ovviamente il maschio, non avendo ovuli, rimane escluso da questa potenziale possibilità, che l’etica condanna.

Oggi ci sono più distrazioni e più tentazioni che possono indurre a uscire dalla retta via. I cattivi esempi e la pubblicità indiretta della trasgressione hanno portato al malcostume della labilità amorosa. Di fronte alla donna libera, gli uomini, un tempo tanto presuntuosi e spavaldi, sono diventati insicuri e, dopo una separazione, incapaci a vivere da soli per vari motivi, implorano l’amore e pregano la moglie di tornare a vivere con loro, e se non riescono con le preghiere, alcuni tentano con le minacce. Le corna, per le quali in passato le avrebbero cacciate di casa, se non uccise, ormai non hanno più peso, non danno più fastidio, anzi, per molti sono motivo di orgoglio, sovente mezzo di successo e per alcuni virtualmente oggetto ornamentale.

Negli anni Sessanta i sociologi consigliavano le vacanze separate per rafforzare l’unione matrimoniale ma, accortisi dell’aumento delle separazioni, gli stessi poi consigliarono di rilassarsi insieme. Ora ciascuno fa come gli aggrada e purtroppo molti seguono gli esempi di chi trasgredisce per farsi pubblicità, il che non è nell’interesse delle persone comuni.

I matrimoni durano poco forse anche perché durano a lungo i fidanzamenti e ci si sposa quando si è esaurita la carica affettiva. Finché c’è attrazione e desiderio verso la persona che si ama, e questo desiderio può essere soddisfatto senza gli inconvenienti della vita coniugale, i giovani non hanno interesse a sposarsi. Lo fanno tardi, quando sentono la necessità di mettere al mondo un figlio, oppure, ed è peggio, per noia, per allegria, per incoscienza, quando l’amore è finito, ed anche se c’è non dura, perché non si adotta il buon comportamento richiesto dalle esigenze matrimoniali.

Una volta ci si fidanzava senza essere ancora innamorati, ma c’era l’impegno a innamorarsi e la convinzione che il matrimonio sarebbe durato “finché morte non vi separi”. Perciò, a parte i casi di estrema incompatibilità o quelli in cui il marito era troppo manesco, generalmente ci si amava per tutta la vita. E’ irriverente la parafrasi “è vissero infelici e scontenti”. Oggi tutti si sposano con amore, ma diventano infelici e scontenti dopo breve tempo, perché quasi tutti vanno all’altare con la convinzione che l’amore non può essere eterno e molti non si preoccupano di tenere vivo il matrimonio. Le separazioni ormai avvengono spesso per futili motivi, non ci s’impegna a salvare l’unione, perché si ha solo voglia di cambiare, senza curarsi dei figli, che ne soffrono più di tutti, salvo a coccolarli dopo, allo scopo di avere una forza nei confronti del o dell’ex coniuge. Non si pensa che a un certo punto si resterà soli, senza il conforto del o della partner e forse nemmeno di quello dei figli. Non s’immagina quanto può essere bello invecchiare insieme, tenersi  mano nella mano con tanti ricordi comuni.

E’ cambiata la mentalità, certo, ma oggi si ha paura d’impegnarsi e questo è indice d’insicurezza e d’immaturità,  anche se si sfoggia il contrario. Molti preferiscono convivere, ciò che una volta era una vergogna è diventata una moda accettata da tutti e da molti esaltata. Dicono che l’amore non ha bisogno di un vincolo per durare, il quale anzi lo svilisce. Ma molti non si dicono neanche “Ti amo”, che da solo basterebbe a rafforzare l’unione.

[Nota 11-4: “Ti amo” è una frase che non esisteva in alcuni dialetti, come il siciliano e il piemontese, ma si diceva “Ti voglio bene”, ovviamente nella forma dialettale, con lo stesso significato].

La verità è che oggi c’è molto egoismo e ciò non favorisce la benevolenza, perché l’amore è altruismo.

 

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