I TEMPI CAMBIANO

di Vincenzo Ballo

In piazza

                                                                                                      

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Piazza Vittorio Emanuele II (fotomontaggio ed elaborazione al computer di due foto)

 

Andai in piazza per rivedere molti paesani. Mancando da quarant’anni, non conosco tutti quelli che ne hanno meno di cinquanta e loro non conoscono me, per i quali sono un semplice forestiero. Conosco i più anziani e i miei coetanei, ma ce ne son pochi, perché intorno al ’60 emigrammo quasi tutti e degli amici di allora non è rimasto nessuno. Ma fa piacere vedere le nuove generazioni. E piace incontrare anche coloro coi quali non ci si scambia nemmeno il saluto. (In Germania, invece, nei piccoli paesi, dove a volte sono andato a trovare dei parenti, mi vedevo salutare da tutti quelli che incontravo, specialmente al mattino, ed era piacevole ricambiare il saluto, “Morg(h)en”, anche se non ci eravamo mai visti e non ci saremmo più incontrati.

La piazza, ch’è chiamata corso Vittorio Emanuele (ovviamente II) forse perché oblunga, è abbastanza bella, con un largo e lungo marciapiede centrale. Fino agli anni venti, esso era tagliato a metà, ma poi ne fecero una sola “banchina” e si può passeggiare senza interruzione da Santa Maria a San Rocco e viceversa. La facciata di quest’ultima chiesa fu rifatta da Matteo Di Natale in pietra bianca di Melilli, quando ero ragazzo. Essendo molto friabile, ne presi alcune scaglie per farne piccole sculture. Ricordo di un mini Mosè copiato da quello di Michelangelo che, pur essendo una cosa da nulla (il mio, ovviamente), dimostrava una buona predisposizione alla scultura, ma non ebbe seguito: lo dico senza rimpianti.

Facendo la “traversata” solitaria per lungo, da lontano vidi un uomo che conoscevo di vista. Mi ricordai che una volta, da giovani, c’incontrammo dal fotografo. Io portavo lu tascu e i capelli mi stavano molto male, egli me li pettinò e fece il miracolo di farli tornare a posto belli ondulati, per cui la fotografia venne una delle migliori di tutte quelle che abbia mai fatto. Era un povero bracciante e sarebbe potuto diventare un ottimo parrucchiere di successo, ma fece un duro e ingrato lavoro da emigrante. Andato in pensione, si era stabilito al paese.

 

 

 

La fotografia accennata sopra

 

Notai, tranquillamente seduto su una sedia, con un braccio appoggiato sulla spalliera in posizione laterale, un uomo che da giovane era ritenuto un po’ pazzo, eppure una ragazza volle sposarlo, contro il parere dei famigliari. I primi tempi forse furono difficili, ma lei, col suo amore e le cure prestate con vera dedizione, di una persona che avrebbe potuto conoscere chissà quali brutture e umiliazioni, è riuscita a fare un uomo felice e sereno. Se ci fosse un premio dell’amore, questa moglie lo meriterebbe.

Incontrai due conoscenti che salutai e m’invitarono a unirmi a loro, poi se ne aggiunse un altro e un altro ancora.

Erano il fratello agricoltore di un carissimo amico emigrato in Svizzera, un contadino che, oltre a coltivare la propria terra, lavorava alla forestale, un emigrato in Germania in attesa di pensionamento, un emigrato in Svizzera già pensionato, oltre a me, emigrato a Torino. Gli ultimi tre eravamo tornati al paese per rivedere i parenti. Passeggiammo chiacchierando, fermandoci quando l’argomento richiedeva più attenzione, per poi riprendere a passeggiare. Parlando di noi, a un certo punto qualcuno domandò:

«Perché siamo emigrati?». La domanda poteva sembrare oziosa: si emigra perché dove si vive non si trova lavoro, per sfuggire alla miseria. Infatti i braccianti furono i primi a lasciare il paese, poi gli altri seguirono le orme.

In quel tempo il pensionato era mezzadro, quindi, non avendo terre di sua proprietà, avrebbe vissuto meglio lavorando in fabbrica o nell’edilizia tutto l’anno.

Quello in attesa di pensionamento, con la riforma agraria del 1950 aveva ottenuto un podere e avrebbe potuto ritenersi soddisfatto, ma le terre rendevano poco (anche perché di quelle fertili i proprietari avevano trattenuta la quota non scorporabile e vendute le altre prima della riforma), la vita rimaneva misera e ritenne conveniente emigrare.

Il contadino, all’epoca del grande esodo era bambino, quando ebbe l’età per lavorare sopraggiunse la crisi e l’emigrazione si fermò. Egli trovò impiego all’Ente forestale per il rimboschimento e, lavorando tre mesi all’anno, arrotondava coltivando un piccolo fondo di sua proprietà.

L’agricoltore, anche lui più giovane di noi, si trovò quasi nella stessa condizione. La famiglia però possedeva molti appezzamenti di terreno, in gran parte fertili, e in certi periodi,  per coltivarli tutti, assumeva braccianti. Eppure il fratello, maggiore di lui, decise di emigrare, creando con ciò molti problemi a suo padre, ma decidendo per il suo futuro.

In quegli anni l’emigrazione era come una piena che tutto trascina con sé. Lasciammo la terra moltissimi coltivatori diretti, considerati burgisi, cioè borghesi, anche se della piccola borghesia contadina un po’ rozza e conservatrice. Andammo via dal paese non perché giovani con spirito d’avventura; parecchi avevano moglie e figli. Pur coltivando campi propri, si preferì andare a lavorare nelle fabbriche del nord e qualcuno addirittura in miniera all’estero o nelle fonderie, non considerando i rischi per la salute né l’umiliazione della sottodipendenza, ma pensando al salario sicuro, senza doversi preoccupare dei capricci del tempo.

[Segnalibro: emigrammo]

Emigrammo perché la terra non ci consentiva di vivere decorosamente. L’agricoltura era condotta con mezzi arretrati. Ma i macchinari non sarebbero serviti per coltivare terreni di difficile accesso per le pendenze o la frammistione di rocce. Eravamo in troppi e con la zappa si cercava di sfruttare ogni angolo disponibile. Si coltivavano anche terre infeconde. Il lavoro era lungo e faticoso e la resa poca. Emigrammo per una vita migliore. E perché altrove c’era richiesta di manodopera non qualificata.

Richiedevamo il libretto di lavoro all’ufficio di collocamento del paese e alla voce “Qualifica” facevamo scrivere “Manovale”, un titolo buono per qualsiasi lavoro da ignoranti. Si poteva lavorare nell’edilizia per trasportare malta e mattoni, servire i muratori, molti dei quali, si erano improvvisati capimastri grazie ad un po’ di tirocinio al proprio paese, tanto nei cantieri c’erano i geometri che dicevano come fare e per mettere un mattone sopra un altro non occorreva molta esperienza.

Con la qualifica di manovale assumevano in fabbrica per lavorare alla catena di montaggio o facendo altri lavori ripetitivi che non richiedevano una specifica preparazione. Bastava una breve spiegazione di quello che si doveva fare e un po’ di assistenza iniziale per poi continuare autonomamente. (Negli anni successivi avrebbero assunto anche diplomati per lavori da operaio, ma allora si preferivano uomini che non erano andati oltre le scuole di primo grado. Posso testimoniare di quattro giovani che fecero domanda alla Fiat, due avevano la licenza elementare e gli altri la media inferiore. Ebbene, i secondi non ricevettero risposta, mentre i primi furono assunti).  Gl’improvvisati operai eseguivano il lavoro con meticolosità, erano contenti di farlo e si sentivano gratificati. La gratificazione veniva dal salario che sembrava compensasse molto quello che facevano. Si era contenti di lavorare senza preoccuparsi del tempo e del futuro, si facevano “le otto ore”, certi di essere pagati anche per i giorni in cui si restava a casa per malattia. Mentre al paese la vita era misera e tribolata, si lavorava duramente per un anno, senza la certezza del raccolto e, anche se poi era buono, non dava da vivere a sufficienza.

In seguito avremmo saputo che ci sfruttavano, ma almeno i ricchi settentrionali avevano creato industrie e dato lavoro; i ricchi meridionali invece sfruttavano e basta. Mettendo i soldi in banca o dandoli in prestito o investendoli al Nord, ci tenevano in miseria, non facevano progredire il meridione.

Una volta all’anno si tornava per le ferie, allegramente. Ma i primi anni era desolante vedere la campagna incolta, specialmente le distese alberate che si stavano spogliando e i pochi alberi rimasti avevano perso il rigoglio d’altri tempi, sembravano vecchi e macilenti, carichi di tristezza, come se soffrissero nel sentirsi abbandonati. I pastori avevano a disposizione abbondanza di pascolo gratuito, eppure sono emigrati pure loro o hanno cambiato lavoro per una vita più confortevole, e sono rimasti in pochi a continuare l’attività.

Finita la vacanza, ci si caricava di prodotti locali: olio, vino, olive, formaggio e tante altre cose buone e genuine, oltre a manufatti tipici, riempiendo valigie e scatoloni. Per olio e vino si usavano le damigiane di vetro, finché non si diffusero i bidoni di plastica. Quando qualcuno tornava al paese fuori dal periodo delle ferie, si sentiva chiedere da un parente o un amico il favore di portare un piccolo pacco a figli o fratelli che dimoravano nella stessa città. Così ci si caricava anche di regali altrui. A un mio amico fu chiesto il favore di consegnare un pacchetto a dei compaesani. Per gentilezza si mostrò disponibile e gli diedero una grossa valigia molto pesante, per cui all’arrivo in stazione, dovette richiedere l’aiuto d’un facchino (ora si dice fattorino), non essendoci allora carrelli a disposizione dei viaggiatori. Per giunta, i destinatari, baldi giovanotti, non si presentarono a ritirarla, e lui si assunse il peso di trasportarla a casa loro, con molto disagio, non avendo ancora l’auto.

Oggi non succede più perché la mentalità è cambiata e, con lo sviluppo dei trasporti, i buoni prodotti tipici di una regione si possono trovare in qualsiasi città, anche all’estero. Come d’altronde in paese ci sono prodotti prima sconosciuti.

 

[Segnalibro: bene]

«E ora come si vive?».

«In apparenza stiamo tutti bene, ma per i giovani non ci sono prospettive e uno alla volta continuano ad emigrare» disse il contadino impiegato alla “forestale”.

Sotto certi aspetti la situazione potrebbe apparire più grave degli anni Cinquanta e Sessanta, quando noi emigrammo in massa. Allora ci furono famiglie che resistettero ed ebbero la possibilità di far studiare i figli. Ma questi non trovano impiego e sono costretti ad andare via. Cosicché, molti genitori che prima erano rimasti, ora partono per seguirli. E il paese si spopola.

Oggi anche le ragazze abbandonano il paese e vanno a vivere da sole. Ai miei tempi una cosa del genere era impensabile, molte restavano anche se il padre e i fratelli si erano trasferiti, specie se all’estero. Emigravano dopo, quando si maritavano, perché al paese non c’erano più giovani e si univano agli emigrati. E le famiglie si frantumavano.

Qualche ragazza si sposava per procura con un giovane d’oltreoceano, che non poteva o non voleva fare spese per tornare, dopo essersi conosciuti in fotografia, magari solo a mezzobusto, ignorandone il carattere e il passato, senza un’idea di come sarebbe vissuta. Il matrimonio non era una gioia ma una necessità, e molto grande era il dolore per la separazione dai genitori, che forse non avrebbe più rivisto.

Allora si comunicava per posta. Ci si scrivevano le lettere, che quasi sempre cominciavano con la formula “ti faccio sapere che sto bene di salute e così spero sentire da te” o “che la presente venga a trovare te”. Non si aveva il telefono e, per sentire la voce dei propri cari, bisognava andare in un ufficio dei telefoni pubblici. Ma, anche per le comunicazioni all’interno dell’Italia, si aspettava delle ore prima di prendere la linea, poi c’erano difficoltà nell’ascolto e a volte cadeva: passava il piacere di telefonarsi. Però, udendo la voce della persona che stava al di là del filo, si poteva essere più o meno certi che stesse bene.

Ora tutti hanno il telefonino e anche al paese si vive uno stile di vita moderno come al Nord. Eppure…

“Il paese è morto” ci dicono.

Verso la fine del Settecento Pietraperzia contava circa 8.300 abitanti, negli anni Cinquanta del XX secolo sfiorò i quindicimila, ora ce ne sono meno di cinquemila.

Non c’è un cinema; per un trentennio, fino all’88, ce ne furono due. Prima c’era solo il Teatro Comunale, che aveva tribuna e platea, ma pochi posti. Davano film vecchi per mezzo di un proiettore vecchissimo. Spesso la pellicola si spezzava, a volte la si vedeva sfarfallare sullo schermo bianco, si accendevano le luci in attesa che l’operatore la incollasse, e il pubblico ne approfittava per guardarsi attorno, come durante gli intervalli, spesso alzandosi, per vedere chi c’era in sala. Quando l’interruzione si ripeteva a brevi intervalli, si levava una banda di fischi. Quasi in tutti i film mancavano spezzoni per tagli effettuati durante le riparazioni, e i ragazzi venivamo in possesso di alcuni fotogrammi di pellicola infiammabilissima. Per qualche anno, in occasione delle feste patronali, si proiettò il film all’aperto e così poterono usufruirne persone che altrimenti non ne avrebbero mai visto uno. Poi costruirono il cinema Marconi nell’omonima via, con tetto apribile che d’estate consentiva di vedere spettacoli all’aperto. Ci fu un periodo in cui, per concorrenza, diedero doppio  spettacolo, due film, e per qualche settimana giunsero a tre, ma quest’ultima offerta non ebbe successo perché molti amavano rivedere le scene per poter capire meglio il racconto.

Al Comunale facevano anche rappresentazioni teatrali, le compagnie restavano qualche giorno e ogni sera cambiavano spettacolo, seguito da una farsa finale. Il primo che vidi, ragazzo, fu “Fiat voluntas Dei” di Giuseppe Macrì, rappresentato dalla famosa compagnia dei fratelli Zappalà. (La fabbrica italiana di automobili torinese non c’entrava, il titolo ripeteva la frase latina pronunciata da un prete messo in difficoltà da due giovani innamorati che s’incontravano segretamente in parrocchia).

Quasi una volta all’anno veniva il circo equestre (cìrculu ecquestru) che portava il nome del clown (Fortunello o Scarpacotta). Di animali c’erano un paio di cavalli e un cane. Una sera ci fu l’esibizione di un giovane debuttante, che si presentò con una mascherina, come se provasse vergogna. Molto sicuro di sé, invitò una persona del pubblico e le chiese di dare una pedata a una scatola di scarpe per terra, dalla quale sarebbe dovuta uscire una sorpresa. Dato il calcio, saltò il coperchio, ma non venne fuori nulla. “Come avete potuto vedere” disse con naturalezza, “la sorpresa non c’è stata, ma” aggiunse rivolto all’ospite “lei è un grande rompiscatole”. Non sapeva che quello era il veterinario, un forestiero che esercitava nel nostro paese. Ma lo sapeva il direttore del circo e, mortificato e preoccupato, andò a scusarsi col professionista ch’era più mortificato di lui.

Poi arrivò la televisione, all’inizio si andava a vederla nei circoli-società, che furono i primi ad averla, quindi da parenti o amici, specialmente quando c’era Lascia o raddoppia?, Il Musichiere o il Festival di Sanremo. I cinema entrarono in crisi, quello nuovo divenne negozio e l’altro rimase chiuso.

Per i giovani non ci sono svaghi.

Per i bambini non ci sono giochi, tranne che all’interno della Villa Comunale.

Non c’è piscina.

C’è un distaccamento di vigili del fuoco, ma solo d’estate, perché capita spesso che ci siano incendi, anche dolosi.

Non c’è lavoro.

 

[Segnalibro: sfoggio

Eppure fanno tutti sfoggio di benessere, dimostrano di star meglio di quelli che lavorano in Continente. Ma si lamentano un po’ tutti, si lamentano di tutto, si sentono abbandonati. E non sanno che i settentrionali si lamentano di loro. La Stampa di Torino del 22 luglio 2002 si chiede: “Perché mediamente ogni siciliano riceva da decenni dal resto d’Italia un contributo fiscale netto di 2-3 migliaia di euro all’anno e la Sicilia continui a rimanere un disastro dal punto di vista della qualità dei servizi pubblici mentre, con cifre assai minori, altre regioni arretrate d’Europa, in Irlanda e Portogallo, per esempio, hanno conseguito risultati ben superiori?”.

“Esiste piuttosto la peculiarità italiana di un Meridione che non riesce a fare un cambiamento radicale di cultura, che riduce spesso il nuovo ai suoi vecchi vizi, alle sue istituzionali involuzioni” scrive Giorgio Bocca. “Qualsiasi intervento massiccio dello stato per finanziare il Meridione finisce nel gioco diabolico della politica clientelare alleata della malavita organizzata. (...) Il Meridione è cambiato ma continua a perdere l’autobus della rincorsa del Nord”.

[Nota 06-1: "Gli italiani sono razzisti?" di Giorgio Bocca, Ed. Garzanti, Milano 1988]

Il divario tra Nord e Sud s’è allargato, così come quello tra ricchi e poveri. Al Sud aumenta la disoccupazione, mentre  nel Nord-Est, una volta altrettanto povero, c’è richiesta di manodopera. I meridionali però non vogliono trasferirvisi. Eppure ripetono che non hanno lavoro e non hanno da vivere.

“Cca si campa d’aria” cantava il calabrese Otello Profazio.

«Almeno c’è l’aria buona» dico io. Ma pare che non sia tanto buona come sembra.

 

Pietraperzia è Comune d’Europa e Zona denuclearizzata, ma dicono che molti muoiono di tumore, e si dà la colpa alle scorie nucleari che verrebbero depositate nella miniera di Pasquasia, ora chiusa ma vigilata. Non ci sono conferme, e potrebbero essere chiamati in causa i vecchi serbatoi di eternit sui tetti delle case, i quali contengono amianto, ritenuto cancerogeno. Insistendo su Pasquasia, alcuni precisano che gli scarichi siano avvenuti quando la miniera era in attività e, pur essendo produttiva, si decise di chiuderla per evitare grosse contaminazioni. I dipendenti anziani furono messi in pensione e i giovani inseriti in organici statali o comunali, ma quelli che vi lavoravano per conto di ditte esterne rimasero disoccupati. Anche lo stabilimento petrolchimico di Gela, in cui erano impiegati molti pietrini, è stato ridimensionato e il problema occupazionale diventa sempre più critico.

E’ una maledizione che si ripete. Fino agli anni Cinquanta, nel nostro territorio, come in altre parti della Sicilia ma particolarmente nella provincia di Caltanissetta, c’erano molte miniere di zolfo e furono chiuse in piena attività perché poco remunerative, essendo condotte con metodi antiquati, per cui conveniva comperare lo zolfo dagli Stati Uniti d’America. Mi domando se non fosse stato più corretto adeguare i metodi estrattivi con le nuove tecnologie adottate nei paesi più avanzati.

Oggi c’è un ritorno all’agricoltura, che si è meccanizzata e un contadino – non zappa più, usa diserbanti – può coltivare molta più terra ed avere un maggior raccolto, grazie alle nuove sementi. Purtroppo, con l’abbandono della coltivazione del grano duro, che qui era il migliore, e l’introduzione generalizzata di grano tenero, si è costretti ad acquistare annualmente sementi brevettate dalle multinazionali.

Intanto rimane la preoccupazione del tempo. Piove sempre meno e, se l’inverno è secco, la siccità estiva diventa molto preoccupante. I settentrionali ci criticano per questo come se fosse colpa nostra, ma se da loro piove un po’ meno del solito, si preoccupano più di noi. Il tempo è cambiato dappertutto. A Torino, che negli anni Sessanta cadevano anche 30 centimetri di neve, ora non nevica più, se non qualche velo che presto si scioglie.

 

[Segnalibro: sederci

Passeggiare è piacevole ma a lungo stanca. Qualcuno propose di sederci. Ma dove? Noi “ospiti” non osavamo dire di andare al bar, perché loro non ci avrebbero permesso di pagare e sarebbe sembrato chiedere che ci offrissero da bere. Anche se qui ci si può sedere senza obbligo di consumare, ma a noi “forestieri” non sembrava corretto approfittarne. E’ uso anche sedersi dinanzi ai locali delle Società di mutuo soccorso per la tomba sociale, sorte quando le masse non potevano permettersi quella di famiglia. Si chiacchiera e intanto si guarda chi passa. Certe donne, non sopportando di essere osservate da vecchi oziosi e pettegoli, evitano di passare dalla piazza, quando possono. Sul marciapiede davanti alla Società Militari in congedo c’erano delle sedie libere e ci accomodammo, senza diritto ma con tacito consenso.

Capitai di sedermi vicino a un uomo elegante, con gli occhiali da sole, anche se eravamo all’ombra, che conoscevo da quando eravamo ragazzi e non avevo più rivisto da allora. Egli non si ricordava di me, ch’ero un po’ più giovane di lui. Quando lo aiutai ad andare indietro con i ricordi mi disse, in modo ricercato ma con qualche carenza:

«Sì, ora che mi hai “intervistato”, dalla “filosofia” mi pare di ricordarmi». Non si riferiva al mio modo di parlare, alquanto semplice, ma alla mia fisionomia. E non dubito della sua intelligenza: a Milano, dov’era emigrato, aveva svolto un buon lavoro di responsabilità.

Nella lunga vacanza al paese rividi molti conoscenti e qualche amico. E notai un particolare curioso: i miei coetanei, che avevo conosciuto ragazzi o giovanotti, li vedevo in un aspetto più giovanile di quelli della stessa età che non conoscevo, come se nel loro volto presente trasparisse un po’ di quello del passato.

 

Stavo seduto rivolto verso la chiesa di Santa Maria e, guardando la facciata con interesse, notai un particolare a cui non avevo mai fatto caso: il portale non è perfettamente in asse come la finestra che gli sta sopra e rimane spostato a sinistra, verso l’ingresso delle vecchie scuole maschili, ex convento francescano, che nel secondo dopoguerra ebbe alcuni locali adibiti a sede di un nucleo di polizia mobile.

 

 

 

Santa Maria e Teatro comunale - 2003, olio su cartone telato 50x40

 

«E quelli chi sono?» domanda qualcuno di noi emigranti.

«Saranno due albanesi».

«Ma se qui non c’è lavoro nemmeno per i nativi!…?».

«Vanno in giro con un foglio firmato dal comune a chiedere l’elemosina».

Più o meno come quando si girava per raccogliere i fondi per le festività.

 

Passa un funerale: una lunga processione, parenti compunti, molte corone, musicanti in divisa, con gli strumenti, in silenzio, come corpo d’onore. Un tempo invece la banda eseguiva marce funebri che destavano grande emozione. Ci alziamo in segno di rispetto e di saluto. Era morta una donna ultraottantenne che aveva i figli emigrati in varie parti del mondo e lei era rimasta al paese, servita da una donna estranea alla quale lasciava la casa. Purtroppo l’emigrazione ha portato anche a questo. Nel passato i vecchi erano serviti dai propri figli e loro consorti, ma oggi questo è difficile che accada anche qualora stiano insieme perché, se i figli lavorano, non possono prendersi cura dei genitori. Perciò molti anziani finiscono in gerontocomio, dove non sempre vengono trattati bene, e alcuni sono accuditi in casa da badanti immigrate. E’ un lato negativo del progresso.

 

Una volta, quando morivano parenti stretti, le donne si sentivano in dovere di piangere e raccontare fatti privati, per dimostrare di essere molto addolorati. Meglio lo si faceva e più si dimostrava il proprio affetto; diversamente gli astanti potevano pensare il contrario. Solo che certe donne veramente addolorate non sapevano o non osavano gridare il proprio dolore, mentre altre ne facevano sfoggio, pur senza sentimento, o addirittura avendo odiato. “Come faremo senza di te? Sei stato/a sempre buono/a. Ci siamo voluti/e sempre bene. Ti ricordi quando…” e giù a raccontare episodi “commemorativi”, spesso per “pubblicizzare” la propria immagine. Tutto ciò suscitava curiosità e malizia e certe frasi dette con vero dolore davano spunti comici. “Come faccio con questa che ho in mezzo alle gambe?” fu il lamento di un povero uomo preoccupato della piccola orfanella davanti a sé. Ma la gente maliziosa ne tramandò la frase pensando ad altro. In certi paesi c’erano i “piagnoni”, pagati per piangere i morti, ma ovviamente era un pianto recitato, con una cantilena, a volte alternata dalle frasi rievocative dei parenti, ad ognuna delle quali si rispondeva, citando il nome: “E daveru daveru iè, giustu dici la gnura Billò”, oppure, secondo i casi, “daveru fu”. 

 

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