I TEMPI CAMBIANO

di Vincenzo Ballo

Il lavoro

 

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Una volta la vita era molto dura e il lavoro pesante. Erano tempi in cui anche chi stava bene faceva una vita misera. Le famiglie che potevano permettersi scarpe e vestiti, per i bambini li compravano più grandi del giusto affinché li potessero usare anche crescendo. E ovviamente poi li passavano ai fratellini più piccoli, o li regalavano a dei parenti. Braccianti e contadini poveri portavano abitualmente dei tipici calzari, una volta fatti con cuoio grezzo di bue e poi con pezzi di pneumatici. Erano detti scarpi canzati e sul lavoro in campagna li usavano anche quelli che avevano l’alternativa di scarponi normali, perché sul terreno smosso e umido non trattenevano la terra quando si arava o si zappava. Venivano indossati con una tela robusta che avvolgeva il piede e arrivava sotto le ginocchia, una cordicella passante da due anelli ai lati posteriori del calzare legava tutto alla gamba. Poi, col miglioramento del tenore di vita, i giovani si vergognavano anche di metterli durante il lavoro e furono gradualmente abbandonati. Ma con gli scarponi, che accumulavano la terra umida sotto le suole e i tacchi, era disagevole camminare.

 

Essendo poveri sarebbe stato logico avere meno figli, eppure se ne facevano di più, perché la mortalità infantile era molto elevata ed era necessario avere una discendenza numerosa per garantirsi il “bastone della vecchiaia”, come si diceva, poiché a quei tempi non c’era assistenza statale e chi invecchiava senza capitale e senza prole restava solo, abbandonato nella miseria, e moriva di stenti e di fame. Perciò i figli erano considerati dono della Provvidenza e si facevano per investimento, sperando nascessero maschi, che da grandi avrebbero aiutato la famiglia. Quando nascevano solo femmine si continuava a proliferare, con la speranza che arrivasse il maschio, se non veniva si dava la colpa alla moglie, non sapendo che era del marito. In un sistema di vita contadina che non includeva il lavoro delle donne in campagna (a meno che vi abitassero, ma da noi erano pochissime), esse costituivano un grosso problema per il loro peso economico, e poteva diventare drammatico, dato che in paese non c’erano molte alternative per guadagnarsi da vivere. Si occupavano delle faccende domestiche, rammendavano e rappezzavano i vestiti strappati, adeguavano quelli di un componente della famiglia a un altro, facevano la calza, la maglia, cardavano e filavano la lana a mano; le ragazze non poverissime ricamavano la biancheria per la propria dote. Ma era difficile trovare lavoro per conto terzi.

Gli uomini non facevano lavori domestici per non essere considerati delle femminucce e questa mentalità rimase fino all’inizio dell’emigrazione.

 

La stragrande maggioranza dei lavoratori erano contadini e, potendo disporre dei prodotti della terra, era probabile che stessero meglio di molti artigiani che avevano poco lavoro e quindi scarso guadagno. Basta dire che l’idraulico allora era lo stagnino, il quale rivestiva di stagno pentole e callaruna (caldaie per fare il concentrato di pomodoro, o per lavare la biancheria); i barbieri lavoravano rasando una o due volte la settimana (ancora non si conosceva il rasoio Gillette) e tagliando i capelli agli uomini ogni quaranta giorni circa, per cui dai contadini venivano pagati annualmente con frumento; ma le pettinatrici, così chiamate le parruchiere e ce n’erano due, non potevano vivere del proprio lavoro, in quanto le donne andavano da loro solo qualche volta nelle grandi occasioni, per farsi fare la permanente.

Tra artigiani e contadini, c’era forse un qualche, se pur lieve, reciproco dispregio, soprattutto nei confronti di quelli più poveri, anche se non mancavano matrimoni “misti”, (ricordiamo che il nostro Filippo Panvini, ritenuto l’esponente principale dell’artigianato italiano alla mostra di Tripoli, era figlio di un agricoltore e la madre era figlia di un “artigiano del legno”). Viddani (villani, che dal medioevo designava la gente di campagna) era l’unico termine per nominare i contadini, quindi senza offesa, ma poteva essere usato in senso offensivo parlando di qualcuno con disprezzo. I contadini ricambiavano chiamando gli artigiani poveri vastasi di chiazza (viziosi di piazza, ma il “vastasi” ha un’accezione più volgare di viziosi), in quanto i vizi erano più diffusi fra la gente di paese, e qualcuno mostrava gli effetti dell’alcol, ma nel chiamarli normalmente si usava anteporre il “mastru” o il “don” al nome di battesimo, come per i nobili e i ricchi. (Non per i preti (parrini), che erano chiamati “parrì”, o facendo precedere il nome da “patri”. Loro, prima della riforma voluta dal papa Giovanni XXIII, chiamavano i fedeli “figliuoli”, mentre ora siamo tutti “fratelli”). Il contadino invece era chiamato “massaru”; e le rispettive mogli “donna” o “’gnura” = signora.

Riguardo ai campagnoli, purtroppo è stata sempre opinione diffusa che fossero ignoranti e rozzi. Per quanto ciò possa essere vero, bisogna riconoscere che per la coltivazione della terra è necessaria una maggiore conoscenza di quanta ne occorra per altri lavori considerati più interessanti ma in realtà ripetitivi, che si possono imparare in poco tempo, mentre per l’agricoltura occorrono anni. Non ci dilunghiamo in questo argomento e restiamo nel tema della vita contadina e dei cambiamenti avvenuti nella seconda metà del ventesimo secolo, con maggior riferimento al passato di cui posso dare testimonianza, affinché rimangano nella memoria anche quelle cose non tenute in considerazione ma che sono di grande importanza per quello che hanno rappresentato nel vivere quotidiano. 

I contadini, oltre al lavoro in campagna, svolgevano altri compiti inerenti ad essa, come fare ligami (corde di circa un metro e mezzo per legare i covoni). Solitamente erano fatti di ampelodesmo (ddisa), un’erba cespugliosa dalla fibra molto resistente, con foglie lunghe e sottili, dai bordi seghettati e taglienti. Nel modo più semplice (ma molto raramente) si contrapponevano due piccoli mannelli di piante più lunghe della media e si annodavano per le punte. Il sistema più comune era di accostare due mannelli di circa quattro piantine ciascuno, torcerli separatamente e attorcigliarli insieme, aggiungendo altre piantine fino a raggiungere la lunghezza voluta. Per avere ad entrambe le estremità la parte legnosa, prima di finire si invertiva la posizione delle piantine aggiuntive, oppure ci si fermava a metà lunghezza e poi si annodavano a due a due. In alcuni casi, ma non per legare i covoni di grano, i legacci si facevano con due o tre strisce di foglie di zammara, agave abbastanza grande. Inoltre c’era chi intrecciava ceste e cesti (cufina, con due manici laterali, e panara, con un solo manico sovrastante), fatti comunemente con polloni di ulivo e, nell’intreccio circolare, per lo più con listelli di canna. Questi lavori erano svolti di solito stando seduti nella strada, accanto o davanti la porta della propria casa.

[Nota 04-1: Pare che i contadini abitassero in paese sin dal Basso Medioevo per difendersi dalle bande che infestavano le campagne. Per lo stesso motivo i monaci della Cava si trasferirono al paese. Nel secondo dopoguerra i contadini lavoravano piccoli poderi, in mezzadria, affitto o propri comperati un po’ alla volta. Quelli che vivevano in campagna erano mezzadri di un solo vasto podere].

Per un mezzadro, la morte di una bestia da lavoro poteva causare la rovina della famiglia. Chi non aveva la possibilità nemmeno d’indebitarsi, diventava bracciante, sapendo di dover provare la fame, perché ci sarebbe stato bisogno delle sue braccia solo in determinati mesi dell’anno. E poiché la paga consentiva solo di vivere alla giornata, i mesi d’inattività sarebbero stati mesi d’inedia. D’estate c’era l’opportunità di andare nei campi dov’erano stati tolti i covoni (gregni) per trebbiarli e fra le stoppie si raccoglievano le spighe cadute durante la mietitura; poi, dopo la bacchiatura delle mandorle, si andava a cercare quelle rimaste attaccate agli alberi o non viste per terra durante la raccolta; e in autunno si faceva lo stesso con le olive.

      Anche per i contadini erano tempi duri, perché la quantità di terra che riuscivano a coltivare, se non era ubertosa, non consentiva di vivere nemmeno ai bassi livelli di allora, ed erano costretti ad indebitarsi, aggravando maggiormente le loro condizioni. Si sperava sempre, con l’aiuto di Dio, in un buon raccolto, che spesso deludeva.

Eppure il territorio di Pietraperzia era considerato fertile. Negli anni Cinquanta, con l’utilizzo di nitrati, la cerealicoltura, praticata però con metodi antiquati, dava rendite da dieci a venti quintali di grano per ettaro, con rari casi oltre questi limiti.

[Nota 04-2:  E’ il caso di ricordare però che allora si parlava di salme e tomoli (sarmi e tùmmina), da noi una salma = 16 tomoli, un tomolo di volume = 14 chilogrammi di grano, un tomolo di superficie agraria = are 21,43].

La coltivazione arborea, con prevalenza di mandorleti e uliveti, dipendeva dalle annate: regolare il buon raccolto delle olive ogni due anni, invece quello delle mandorle era soggetto alle gelate che, se arrivavano a metà marzo, uccidevano i teneri frutti appena formati e rovinavano l’annata. Il redditizio raccolto dei pochi pistacchi subiva i difetti dell’impollinazione, che se non avveniva regolarmente, per mancanza di piante maschili, dava frutti vuoti. Le vigne e gli alberi da frutta, spesso tra le viti, erano coltivati per uso famigliare. L’ortocoltura era quasi sufficiente al fabbisogno locale. Oggi purtroppo non ci sono più orti.

 

[Segnalibro: vita]

Ma raccontiamo la vita agricola di un anno.

Si cominciava dopo Ferragosto, bruciando le stoppie alte e portando in alcuni campi il letame che durante l’anno ogni contadino aveva depositato in un grande mucchio (stazzuni) a lato di una trazzera appena fuori dall’abitato. Il trasporto si effettuava ovviamente con gli equini, sui quali si montavano due casse con fondo apribile per lo scarico e si facevano mucchi di due carichi ben distribuiti sul campo, per spargerlo prima di seminarvi le fave. La coltivazione di queste era in perdita ma necessitava fare una buona favata per avere dalle radici più azoto, utile nel terreno per la coltivazione del grano nell’anno successivo.

Nello stesso periodo si faceva la raccolta delle mandorle. Appena portate a casa venivano liberate dalle valve, che a maturazione avanzata erano già aperte e molte cadevano durante la bacchiatura, ma quelle che restavano ancora chiuse bisognava toglierle a mano o, se ben congiunte all’endocarpo, aiutandosi con un martelletto, un ciottolo (cuticchia) piatto oppure una pietra adatta. Poi venivano fatte asciugare a terra sulla strada o sui balconi, a meno che si avesse un terrazzo. Quindi, se non le si vendeva così intere, le si “schiacciava”. Per questo lavoro, comunemente svolto dalle donne, ci si sedeva davanti a un ceppo alto fino alle ginocchia o davanti a una sedia, sulla quale si metteva una grossa pietra piatta oppure una sezione di tronco, e con un ciottolo o un sasso si rompeva il guscio delle mandorle, che man mano si prendevano dal grembiule o da un tovagliolo o da uno straccio senza buchi tenuto sulle coscie. Bisognava fare attenzione a non spezzare li spicchia e a non farsi male alle dita. Poi si approntava un tavolo di varie dimensioni, vi si versava il miscuglio e si separavano gli spicchi dai nòccioli rotti. (Gli spicchi, nell’insieme, erano dette al singolare ‘ntrita. Valve e nòccioli – esocarpo ed endocarpo – erano chiamati con lo stesso nome: scorci, dal singolare scorcia).

[Nota 04-3: Nel nostro dialetto, le parole femminili al singolare finiscono in a e al plurale in i, viceversa le parole maschili al singolare possono finire in i col plurale in a, o finire in u e avere il plurale in i oppure in a].

Intanto, se era piovuto si arava la terra. Chi aveva solo una bestia, ed erano i più, doveva cercarsi un socio. C’era un aratro, detto trijorba, fatto per aggiogarvi una sola bestia, ma nessuno lo utilizzava perché non consentiva di fare un solco profondo. Questo lo si otteneva invece col famoso aratro a vomere-versoio illustrato nei libri, che rivolta la terra da un lato, e va trainato da buoi o da trattori. Ma poiché quasi tutti avevano muli, si utilizzava un aratro a due alette, più leggero, che spostava le zolle ai due lati. C’era ancora l’antico aratro di legno con il vomere stretto di ferro, ma non veniva usato perché faceva il solco senza rivoltare il terreno e non era in grado di strappare le radici della gramigna. Poteva essere utile nella terra bagnata se c’erano le stoppie alte, in quanto non le tratteneva; a differenza del precedente, nel quale restavano trattenute nell’incurvatura del braccio sopra il vomere, impedendogli di andare a fondo, anzi sollevandolo man mano che si accumulavano, perché collidevano col terreno.

Nei posti in cui non si poteva andare con l’aratro, come in certi angoli con alberi vicini o fra i massi delle terre rocciose, si usava la zappa per rivoltare il terreno e in un secondo tempo si scavavano dei fossi, possibilmente in fila, profondi circa dodici centimetri, per seminarvi. (C’era carenza di terra e tutti gli angoli venivano sfruttati).

Qualcuno aveva la vigna e vendemmiava. L’uva si pigiava coi piedi, calzando un paio di scarpe vecchie tenute solo per quell’uso. 

Finita l’aratura, c’era da seminare. E nel frattempo, o dopo, si faceva la raccolta delle olive e si portavano all’oleificio (tarpitu). Di solito si lasciavano riposare perché perdessero dell’acqua prima di metterle nel frantoio, dove solo una grossa mola le frantumava ruotando in rivoluzione attorno a un asse fatto girare da un asino o da un mulo col paraocchi, perché non gli girasse la testa. Poi le olive macinate venivano compresse nelle coffi (ceste a forma di disco) e queste, attraverso un foro centrale, infilate in un asse del torchio che poi veniva manovrato a mano per spremere l’olio, il quale andava a finire nelle vasche dove si lasciava decantare, affinché l’acqua in esso contenuta andasse a fondo, e poi veniva raccolto delicatamente. Alla fine si raccoglieva anche la sansa, che sarebbe stata utilizzata per le lucerne. A casa veniva conservato nelle giare e col tempo nel fondo si depositava la morchia (murga).

Semina

 

Per la semina del grano il seminatore seguiva oppure precedeva l’aratro, che con le zolle copriva leggermente la semenza, impedendo così agli uccelli di beccarla. Se la terra era buona, i solchi venivano fatti più vicini e vi si seminava alternativamente per dare più spazio al grano, che sarebbe cresciuto meglio. In questo caso, nel va e vieni del lavoro, all’andata il seminatore precedeva l’aratro e al ritorno lo seguiva. Quindi restava al limite del campo, aspettando che l’aratore facesse altri due solchi, uno per coprire la semenza versata in precedenza e l’altro per seminarvi nel giro successivo. Anche le fave si seminavano ogni due solchi, dei quali quello coi semi veniva chiuso dalla terra spostata dall’altro che invece restava aperto. Si creava così un caratteristico disegno di linee parallele che anche da lontano rivelavano il genere del seminato. Solo che in questo caso non c’era riposo per il seminatore, perché oltre alle fave, seminate a gruppi di cinque o sei-sette, doveva mettere il concime chimico, e quindi all’andata seguiva l’aratro versando pugnetti di “chimico” e al ritorno lo precedeva per lasciar cadere i semi su di esso. Ovviamente si seminavano altri prodotti meno comuni: erba medica, veccia, orzo, avena, lenticchie e, per uso famigliare, piselli e anche papaveri, di cui si utilizzavano i piccolissimi semi per metterli sul pane prima d’infornarlo, dopo averlo cosparso di uovo sbattuto, rendendolo più gustoso. A volte con la capsula secca si faceva il decotto per chi soffriva d’insonnia, ma si stava attenti a non esagerare, perché si sapeva che coi papaveri si fa l’oppio e nessuno li usava come droga.

Nel periodo dell’aratura e semina, per l’importanza del lavoro ed anche perché le giornate si accorciavano, si lavorava dall’alba al tramonto ed anche dopo: in sostanza si partiva e si tornava col buio.

[Segnalibro: natale]

Arrivava Natale ed era tempo di riposo. Ma per i pochi che avevano la vigna, era tempo di vangarla. Lavoro molto duro che si faceva con la zappa scavando un fosso lungo i filari. La distanza tra questi e la profondità del fosso era tale che si stava appena a cavallo del dosso che andava formandosi nel mezzo.

Alle bestie nella stalla si dava da mangiare paglia, che riempiva lo stomaco ma non forniva sostanza, per cui quasi tutte le sere si metteva nella mangiatoia qualche pugno di fave nutrienti e ogni tanto un po’ di fieno, così genericamente chiamata l’erba medica. Razioni supplementari di fave e a volte orzo, vi si davano nel corso dei lavori di aratura o d’altro. Durante le festività importanti e maggiormente quando pioveva a lungo, le bestie restavano legate alla mangiatoia per qualche giorno e per abbeverarle si portava loro dell’acqua in un secchio. Purtroppo raramente si metteva un po’ di paglia per lettiera, però il letame per concime senza strame era migliore.

La Natività era preceduta dalle novene, occasione aggregante con preghiere e canti natalizi che, eseguiti in musica dalla banda, rallegravano.

La sera del 24 dicembre era tradizione che si facesse una frittura: cavolfiore o cardi oppure, chi poteva permetterselo, baccalà. Il giorno di Natale finalmente si mangiava carne. Chi ci andava di mezzo solitamente erano i polli. Ma non tutti avevano la possibilità di mangiarne. I più poveri, se il pollo non lo avevano rubato, digiunavano, o comunque si erano privati nei giorni precedenti per accumulare il pasto di Natale. Essendo inverno, si mangiava anche carne di maiale.

La notte di Natale e quella di Capodanno era uso giocare a carte. Gli appassionati giocavano anche qualche altra sera, ma pochi avevano il vizio di continuare oltre il periodo natalizio.

A gennaio il grano era nato e si zappava la terra per smuoverla e togliere l’erba. Qualcuno aveva l’erpice ma la usava raramente verso febbraio, solo se il terreno era soffice e con poca erba.

Intanto, con l’Epifania cominciava il periodo di Carnevale e si ballava fino al martedì grasso, poi solo nelle tre domeniche successive. Ciò avveniva in casa di chi aveva una stanza grande e bella, al suono della “macchina parlante”, il fonografo a tromba, ma era più comune un modello a valigia con giradischi a settantotto giri e tromba incorporati. Per sentire la musica però non bisognava fare molto baccano. Si preferiva ballare al suono della fisarmonica, la quale aveva il volume più alto ed era meglio sentita. I pochi fisarmonicisti erano contadini che suonavano ad orecchio con molta bravura. (Alcuni barbieri avevano la chitarra o il banjo, chiamato bengiu, ma da soli non potevano bastare per far ballare. C’erano però un paio di complessini formati con la partecipazione di qualche suonatore di banda. Le famiglie benestanti tenevano il pianoforte). I balli più comuni erano valzer, mazurca, tango, fox-trot, polca e tarantella. Queste ultime e l’one-step, un altro ballo col cui nome letteralmente gli anziani chiamavano pure la polca, erano ballati indifferentemente tutti allo stesso modo andante o con tre passettini veloci per ogni battuta. La tarantella si ballava come tale solo qualche volta per sfizio. Il tango non lo si ballava in modo figurato, tipo argentino, ma liscio, con tre passetti consecutivi ed uno staccato, che si facevano in tre tempi. Il che, con la musica a due tempi, sembrerebbe illogico, eppure veniva bene, ed è il modo in cui generalmente lo si balla ancora oggi. (Ascoltando il tango sembra di sentire quattro tempi forti e nessuno debole, in realtà sono uno forte e tre deboli). Con gli stessi passi, eseguiti più velocemente, si ballava pure il fox-trot: ritmo e movimento rendevano l’esecuzione molto bella. I pezzi più ripetuti dai fisarmonicisti erano Piemontesina, Rosamunda e la Cumparsita, ma qualcuno si cimentava con variazioni del Carnevale di Venezia e addirittura con la Celebre mazurca di Migliavacca, imparando da altri, perché non conoscevano la musica. Ci fu un giovane, ortolano e contadino, che iniziò a studiarla ma, decidendo di lasciare il paese, ciò che però non fece subito, smise e mi regalò il metodo Bona con la grammatica musicale, da cui appresi i primi rudimenti. Era Liddu Cciacciaredda (Calogero Giusto), che suonava bene pure lo zufolo e l’armonica a bocca per divertirsi con gli amici, oltre alla fisarmonica con la quale però nelle “serate” si esibì raramente, essendosi diffusi i giradischi incorporati nelle radio, col volume più che sufficiente a far sentire la musica anche nel chiasso. Arrivarono i balli americani, ma In the mood, il famoso boogie woogie, che chiamavamo buchi buchi, lo ballavamo come un fox-trot; per la samba facevamo un moderato ondeggiamento avanti e indietro del bacino sincronizzato coi passetti, senza sensualità, nessun paragone con le brasiliane; la raspa era forse eseguita nel modo giusto, con la ripetizione di tre saltelli alternando le gambe avanti e indietro e poi girando a braccetto in posizione contrapposta.

Si ballava per divertirsi insieme, qualche volta anche tra uomini, come si vedono ballare donne tra loro ancora oggi. Si ballava senza malizia, a tutte le età. E i piccoli imparavano guardando i grandi. Le donne che accettavano di ballare con un uomo non potevano rifiutarsi con altri, ma tanto si era fra amici e parenti. Fra i giovani potevano nascere degli amori che, seppur non tutti portavano al matrimonio, di solito erano seri; difficilmente si corteggiava per passatempo, non essendo onesto specialmente nei confronti dei famigliari della ragazza, che comunque disapprovavano l’amoreggiamento, sia pure con intenzioni serie. Quando pioveva si continuava a ballare anche fin dopo la mezzanotte, perché l’indomani non c’era l’impegno di doversi alzare presto per andare a zappare. A volte sul tardi, in chiusura della serata, si faceva la quadriglia, chiamata anche contradanza, alla quale partecipavano rigorosamente coppie di sesso diverso. Ovviamente era gradito che sapessero eseguire le “figure” e capire gli ordini. Questi venivano dati inconsapevolmente con parole o frasi derivate dal francese: “A la contrè, a la sciangè, sciangè la dam, a la plas”. Pochi sapevano comandarla e non tutti erano capaci di eseguirla, pur non essendo difficile, e immancabilmente succedevano confusioni, per cui si interrompeva per spiegare e si riprendeva. La si ballava con la musica di qualche polca andante, poco brillante, perché non c’erano dischi specifici; solo una volta ne vidi uno con l’indicazione di quadriglia.

Qualche sera ci si vestiva in maschera e si girava per le case dove “tenevano serata” e consentivano l’ingresso. A volte, più che mascherarsi, ci si camuffava alla buona e ci si copriva il naso e la bocca con un fazzoletto: poteva essere per una decisione improvvisa e il desiderio di ballare, se non si aveva altra occasione, e intanto girare per curiosare qua e là, magari sperando di vedere la ragazza che interessava. Quando la decisione era presa in anticipo ci si poteva mascherare in modo elaborato e trovare costumi antichi molto belli, (mia madre a volte usava una ricca gonna della suocera). A volte ci si travestiva, l’uomo da donna e la donna da uomo; spesso era un gioco che facevano gli sposi. Lui sotto la gonna teneva i pantaloni con le caviglie rivoltate, ma le scarpe, non trovandone della propria misura, e in certi casi l’altezza, tradivano il sesso, pur nascondendo il viso dietro uno spesso velo. Di solito si faceva di tutto per non essere riconosciuti, ma gli “spettatori” studiavano i particolari per cercare di riconoscere, aiutandosi magari con la presenza di chi, a viso scoperto, accompagnava il gruppo, e non poteva essere che parente o amico. Alla fine del ballo si salutava e ringraziava con la frase “Ssa banadica, bonasira e grazii”.

[Nota 04-4: Con ‘Ssa banadica o benedica si salutavano quelli che avevano un’età superiore alla propria di almeno dieci anni e gli si dava del vossìa, che equivale al voi ma usando nel parlare la seconda persona verbale. Vorrei fare osservare che questa forma di saluto è stata criticata per quel chiedere la benedizione, ma il “ciao”, diventato saluto nazionale e considerato così tanto egualitario, deriva dal saluto veneto e significa “schiavo”, cioè a dire: ”Io sono suo schiavo”. Tornando alla Sicilia del dopoguerra, aggiungo che ai “galantuomini” la “plebe” si rivolgeva col “voscienza” e salutava “voscienza benedica” o “baciamo le mani”, titoli e saluti feudali, aboliti circa un secolo prima].

Poi qualcuno di chi teneva le feste in casa cominciò ad offrire agli invitati il bicchierino, qualcun altro anche il biscottino, le spese cominciarono a pesare e così, a poco a poco, complice anche la Siae che fece sapere di dover chiedere i diritti d’autore, finì l’usanza di ballare in casa. Le feste continuarono solo nei locali di associazioni, in cui si poteva accedere in maschera o se si era famigliare di un socio. Ma non era possibile trovare l’allegria che si creava in casa, dove si era tutti parenti o amici, e si persero molte occasioni per divertirsi.

[Segnalibro: zappare]

Con l’arrivo di febbraio cominciavano a fiorire i mandorli, annunciando la primavera.

A marzo si tornava a zappare la terra per la seconda volta. Nei confini dei poderi o lungo i torrentelli, magari in secca, cresceva l’erba e quand’era alta veniva tagliata per sostituire parzialmente la paglia nell’alimentazione del bestiame.

Cominciavano anche a maturare le fave, e i poveri, oltre alla verdura spontanea raccolta nei bordi delle trazzere, avevano un altro alimento che potevano rubacchiare. (Pitagora considerava peccaminoso mangiare le fave e francamente non capisco il perché).

Pasqua era una grande festa in tutti i sensi, anche per le processioni che si svolgevano in quei giorni, oltre all’occasione di poter mangiare carne, ora sacrificando gli agnelli.

Intanto ad aprile le bestie venivano alimentate con l’orzo in erba, fino a maggio, poi c’erano altre erbe spontanee, tra cui la sulla dai bei fiorellini color ciclamino. In questo mese le fave completavano la maturazione e le piante venivano tagliate. La mietitura di esse era un lavoro duro e logorante in quanto si tagliavano vicino alla terra, spingendoli indietro con l’avambraccio mentre venivano afferrate con la mano sinistra e la destra le falciava. Poiché si lavorava lesti e senza fermarsi, quando ci si levava si restava curvi per il mal di schiena. (Da noi erano sconosciute le falci da fieno, che comunque non sarebbero servite per le fave). La terra restava pulita, quasi senza un filo d’erba, tranne qualche pianta di spredda, carnosa e ruvida con fitte spine sottilissime, che si poteva afferrare con le mani nude, lasciata di proposito per darla, graditissima, alle bestie nel periodo estivo, quando tutte le altre erbe si erano seccate. Le piante delle fave tagliate si mettevano a piccoli mucchietti per farle seccare meglio prima di farne covoni, che venivano disposti a gruppi di quattro o di sei.

La mietitura del grano era più faticosa perché si lavorava fino a sedici ore al giorno. A giugno le giornate sono più lunghe e più calde e il grano alto contribuiva a far sudare maggiormente. Ora si coltiva grano che arriva appena alle ginocchia, ma il grano duro di allora superava l’altezza di un uomo, specialmente lu russiddu che faceva buona paglia ma poche spighe. Esso non si mieteva come si vede nei film e in vari dipinti, piegandolo a sinistra; noi lo piegavamo a destra, contro la falce, che rompeva la rigidità dello stelo e lo tagliava di netto, senza possibilità che scivolasse, col rischio di tagliare le dita, dei quali comunque il mignolo e l’anulare erano protetti da ditali di canna aventi una linguetta sporgente dal dorso. I covoni di grano si legavano in giornata.

In questo periodo ci si concedeva il lusso di portare il vino, perché fa sudare meno dell’acqua. E si faceva pure merenda, ma con limoni o scùmpuli (cedri), più carnosi, tagliati a pezzi nell’acqua zuccherata.

 La mietitura durava mediamente fino a San Giovanni. Per tradizione, da noi ora scomparsa, la vigilia di tale ricorrenza (come pure la sera del 14 agosto) si accendevano i falò nelle strade del paese, una fascina di stoppie per ogni falò, e i fanciulli si divertivano a guardare. Quelli che andavamo a scuola potevamo constatare che giugno non “luglio falcia le messi al solleone”, come diceva una poesia di A. S. Novaro.

Trebbiatura

 

A luglio da noi c’era la trebbiatura (lu pisari) che, se l’annata era buona, poteva durare fino a Ferragosto e per qualcuno anche dopo. Il lavoro si effettuava con gli equini su un’aia (aria) appositamente preparata.

In un posto piano e ventilato, ma non troppo, si rendeva quasi liscio un cerchio di terreno con raggio di circa tre-quattro metri, lo si pressava coi piedi, vi si spargeva acqua e lo si copriva con pula, pressandolo ancora prima che asciugasse completamente e s’indurisse. Poi vi si scioglievano i covoni e quindi vi si facevano girare sopra al trotto i muli (ma andavano meglio i cavalli), che con gli zoccoli sbriciolavano le spighe e riducevano gli steli in paglia. Allo stesso modo si procedeva con le fave. Per calpestare tutta l’aia, il contadino che teneva le redini stava fuori centro e avanzava in un immaginario cerchio. Il socio (ma in certi casi erano più d’uno) con un tridente raccoglieva i fili che schizzavano fuori dall’aia e li ributtava dentro. Gli steli escoriavano i polsi delle povere bestie fino a farli sanguinare e il contadino in mezzo all’aia le batteva con una frusta di corda legata a un bastone, che serviva da impugnatura, perché continuassero a trottare, e a volte cantava per tenerle allegre. Chiedo perdono se, pur bravo ragazzo, le ho tante volte maltrattate, come pure quand’erano aggiogate all’aratro o anche in cammino, per farle andare più speditamente. Pochi fasciavano loro i polsi, e non sempre di tutte le quattro zampe, con degli stracci protettivi. Anche alle costole si formavano delle escoriazioni rotonde (crustani, al  singolare crustana) di 4-5 centimetri, provocate dal basto durante i trasporti pesanti; chi gliele curava lo faceva con un po’ della propria urina. (Durante l’aratura, il pettorale escoriava loro il petto; sempre, lu capizzuni, un’accessorio della cavezza ad archetto di ferro con due fila di piccoli denti, quando lo si stringeva con la redine per sollecitare l’andatura, intaccava la pelle sopra il naso, fino a farla sanguinare). Rabbrividisco adesso al solo pensiero di quelle sofferenze degli animali, ma allora non ci facevo molto caso: l’abitudine può essere una brutta cosa.

Mio padre, molto severo in famiglia, con gli animali era mite: diceva che picchiarle, specialmente se forte da causare gonfiore, le stanca di più e rendono meno. Una volta un giovane gli vendette una mula merlina (più chiara di storna) perché gli scappava spesso e ci passavano giorni prima che riuscisse a riprenderla. Allora la picchiava di santa ragione (perché santa poi?) per farle passare la voglia di evadere. Ma la bestia, appena poteva, fuggiva più lontano. Quando scappò pure da noi ci preoccupammo di non riuscire a riprenderla facilmente. Mio padre cercò di avvicinarla facendole sentire il suono delle fave e provando a fargliele vedere. La povera bestia ne era allettata ma non si fidava. Riuscimmo a chiuderla in un angolo sbarrandole la via con una corda. Tremava terrorizzata mentre mio padre le si avvicinava lentamente continuando a mostrarle le fave, scuotendole per assicurarle che non era un inganno. A portata di mano, ancora non la prese e lasciò che fosse lei ad avvicinare il muso e accettare l’offerta. Poi l’accarezzò dolcemente, continuando a cibarla, e quando si fu tranquillizzata la condusse a li rrobbi, dov’era la sede provvisoria della giornata. Alla povera bestia non sembrava vero cavarsela con un regalo. Successivamente ripeté le scappatelle, ma duravano sempre di meno, finché capimmo che le piaceva trippari, farsi una bella corsa, una galoppatina, e poi tornava soddisfatta da noi. Tutte le bestie, per scuotersi dalla fatica, per liberarsi del fastidio del basto portato a lungo e per asciugarsi il sudore, si stricavanu per terra: coricate di lato, tentavano di rotolarsi, ma era un modo per grattarsi, poi si rotolavano, ma non tutte ci riuscivano, e ripetevano gli stessi movimenti dall’altro lato.

[Segnalibro: grano]

Torniamo al lavoro. Quando il grano, o altro, era abbastanza maciullato, veniva rivoltato coi tridenti di legno e ci si ripassava sopra per completare la sgranatura. A volte era necessario ripassarci una terza volta. Intanto si faceva pomeriggio, il vento si levava e si poteva spagliare. Coi tridenti si sollevava la paglia ad un’altezza adeguata alla forza del vento, finché non fosse volata tutta fuori dall’aia, dove si formava uno spicchio semicircolare. Essendo in due o più, ci si trovava a ricevere addosso la paglia sollevata da chi stava dietro, rendendo necessario coprirsi la testa e il collo con un largo fazzoletto trattenuto da un nodo sotto lu tascu e a volte anche sotto la gola. Se c’erano altri covoni da trebbiare nella stessa aia, solitamente si faceva l’indomani. Dopo che era stato separato dalla paglia, il grano veniva separato dalla pula, adoperando un tridente più stretto e poi una pala di legno. Alla fine lo si passava al setaccio per pulirlo ben bene.

Per trasportare cereali ed altro (escluse le olive, ché possono cedere olio e macchiare) si usavano le bisacce, diverse da come s’intendono in italiano, quali potrebbero essere li vìrtuli, che sono formati da due tasche alle estremità di una striscia di tessuto spesso e robusto, i quali venivano usati tutto l’anno generalmente per il cibo della giornata, quando si andava in campagna; e al ritorno si poteva mettere un po’ di verdura raccolta nei campi. Le nostre bisacce (dette visazzi, dal singolare visazza) erano fatte con un telo di olona ripiegato a metà e cucito trasversalmente in mezzo e nei due lati piccoli, ricavandone due tasche contigue che venivano chiuse arrotolando il lato aperto e legando le due punte estreme con una cordicella fissata al centro. Di solito si mettevano otto tomoli di grano (o dieci di fave) in due bisacce, per un peso complessivo di circa 110 chilogrammi netti. Il trasporto era affidato ai giovani, i quali approfittavano in certe occasioni per rubarne un po’ e mettere da parte qualche lira, che durante l’anno sarebbe servita per comperare le sigarette ed altre piccolezze, anche per non sfigurare con gli amici, dato che i genitori non contribuivano al minimo della sufficienza. L’immagazzinaggio avveniva per alcuni in un locale che fungeva da magazzino, per altri nelle fossi situate negli angoli dei soffitti a volta (i cereali o i legumi vi s’immettevano da una botola nel pavimento e potevano essere estratti poi da un buco sottostante); quelli che ne erano privi, li ammucchiavano in un angolo d’una stanza oppure sotto il letto, in questo caso solo il grano, trattenuto da sacchi pieni tutt’attorno. Da ricordare, poi, che in casa bisognava stare lontani dalle fave appena immagazzinate, perché nei primi tempi provocavano prurito, poi facevano i tonchi, chiamati addineddi (gallinelle), grossi un paio di millimetri, con piccole ali che li aiutavano a saltare. Anche il frumento, dopo qualche mese, faceva dei vermi chiari, lunghi meno di un centimetro ma con due ganasce laterali che davano morsi dolorosi. Ora il grano si deposita direttamente nei magazzini dei commercianti, per venderlo però quando si vuole. In quanto alle fave, non se ne seminano più per il commercio.

La paglia veniva trasportata in apposite reti a grandi maglie di corda, detti rutuna. Il rutuni, di circa 70-80 centimetri di diametro e di profondità, aveva un’apertura formata da otto maglie in diagonale, nelle quali si facevano passare le corde per la chiusura. Veniva riempito con molta pressione e chiuso con una prima bracciata di paglia, più grossa possibile, la si stringeva con una doppia corda, che proseguiva in direzioni opposte per legare due grosse bracciate laterali e poi altre quattro più piccole, sempre contrapposte alle precedenti per impedire che la paglia fuoriuscisse. Poi si legavano tra loro due rutuna nella parte che sarebbe risultata più alta dopo averli caricati sulle bestie, con la rete avanti e le legature dietro. Mio padre preferiva legarli una maglia più sotto perché, diversamente da come si possa immaginare, restavano più stabili sul basto e più distanziati nella parte inferiore, per cui non disturbavano il cammino delle bestie che li portavano. Era solo più difficoltosa l’apertura nel caricarli. Ciò avveniva mettendo li rutuna coricati uno sopra all’altro e vi si faceva accostare l’animale; un contadino, di solito il più giovane del gruppo, vi saliva sopra mettendosi in ginocchio sul basto, afferrava il rutuni superiore e, al “pronti”, si alzava tirandolo per farlo scavalcare oltre la bestia, aiutato da altri due contadini che, uno dalla parte della rete e l’altro da quella delle legature, avevano afferrato l’altro rutuni, e li sollevavano entrambi. Occorrendo tre persone, per il caricamento era necessario chiedere aiuto, oppure lo si poteva fare in due mettendo li rutuna in posizione sopraelevata. Nel trasporto si andava a cavallo sulla mula più robusta.

Quando il lavoro sarebbe durato parecchi giorni nello stesso posto, si costruiva una capanna conica chiamata loggia o pagliaru, (il secondo termine indicava anche una capanna che potesse durare nel tempo). Quella provvisoria generalmente era costruita con tronchi d’infiorescenza di agave (ferli), molto leggeri. I più grandi s’interravano un po’ dalla parte più grossa (diametro  massimo circa dieci centimetri) e si univano in cima, di traverso vi si legavano pezzi piccoli (diametro medio cinque centimetri).

[Nota 04-5: Le misure di rutuna e ferli sono approssimative, in base ai ricordi, ma non controllati].

Allo scheletro così preparato venivano appoggiate e legate fascine di stoppie, lasciando aperto un ingresso, che non fosse esposto a sud. Anche se fuori faceva molto caldo, all’interno c’era un fresco ristoratore ed era molto utile per consumare il pasto di mezzogiorno, che poteva consistere in un’insalata di pomodori e cipolla, magari con l’aggiunta d’un cetriolo (diverso da quello comunemente conosciuto).

Durante questi lavori estivi, poteva capitare di restare letteralmente a secco ed essere costretti a bere acqua sorgiva, se ce n’era in qualche torrente delle vicinanze e che non fosse salata. Con l’aia impegnata, si restava a dormire a cielo aperto, veramente aperto nell’universo fitto di stelle, e terso da vederle brillare. La sera si ascoltava il canto dei grilli, nelle ore calde cantavano le cicale. A sentirle, mio padre amava ricordarmi la favola della cicala e della formica, apprezzando questa anche quando lunghe file di imenotteri facevano la spola tra i loro magazzini sotterranei e la nostra aia, per rubarci chicchi di frumento.

Finita la raccolta, restava qualche settimana di tempo libero che poteva essere impiegato per bruciare le stoppie, pulire le terre pietrose dai sassi e sistemarli a mucchi, oppure metterli lungo il confine, o costruire muri a secco di sostegno nei terreni scoscesi. Infine portare nei campi il letame accumulato nell’anno, come abbiamo illustrato all’inizio di questa brevissima esposizione sul lavoro agricolo di una volta.

[Nota 04-6: Per approfondimento sui lavori leggere

“Pietraperzia anni ‘40” di Giovanni Culmone].

 

[Segnalibro: bestie]

Oggi non ci sono più bestie da soma e quindi non c’è letame. Di conseguenza sono scomparsi li vùcculi, gli anelli all’angolo delle porte per legarvi le bestie in sosta prima di partire o al ritorno dal lavoro. Per vedere animali domestici dal vivo bisogna andare in alcuni parchi zoologici. (Mentre purtroppo, fra certi snob fanatici presuntuosi arroganti esibizionisti e danarosi, va diffondendosi l’andazzo di tenere animali feroci in casa o nel proprio giardino). I contadini si sono motorizzati, non zappano, spargono diserbanti e fanno tutto con le macchine agricole. Le mietitrebbiatrici compiono due lavori contemporaneamente e alla fine di giugno il raccolto è finito.

Luglio potrebbe essere un mese di riposo ma ora molti arano, perché coi trattori non c’è bisogno che sia piovuto. La pioggia può essere utile per l’uva e per le olive. Ma in Sicilia, nel periodo estivo, sovente non piove per sei mesi consecutivi. Le terre argillose si restringono e formano delle crepe comunicanti in cui potrebbe sprofondare una gamba di mulo. Le terre sabbiose s’induriscono in basso ma lasciano qualche centimetro di sabbia in superficie, che aumenta se viene calpestata e diventa polverosa.

Agosto, per gli operai e gli impiegati delle città è il mese delle ferie, che la maggior parte passano al mare; per i contadini del mio paese è certo mese di riposo, ma se vanno al mare tornano in giornata. Quando i giovani cominciarono ad andarci qualche giorno per divertimento e la scusa di abbronzarsi, se erano contadini venivano criticati, perché si riteneva essere più che sufficiente il sole preso in campagna, ignorando il beneficio dello iodio.

 

Ma per i pietrini è soprattutto importante il Ferragosto, perché ricorre la festa dei Santi Patroni, la Madonna della Cava e San Rocco. Quando non c’erano le mietitrebbiatrici, se per quel tempo eccezionalmente la raccolta non fosse già finita, si cercava di essere liberi almeno nei giorni 15 e 16 per godersi le festività.

Nella seconda metà di agosto si bacchiavano i mandorli e, finita la raccolta, venivano potati. Mio padre, che si risparmiava nel lavoro ma lo faceva rendere molto bene ed era un contadino che sapeva fare di tutto, potava i suoi alberi meglio dei potatori di professione, li rrimunnatura. Non tagliava grossi rami, se non era strettamente necessario, ma sfoltiva le chiome togliendo i ramoscelli superflui o rinsecchiti, lasciando l’albero grande e rigoglioso che avrebbe fruttificato meglio. Un grande ulivo poteva produrre oltre tre quintali di olive belle grosse, perché avevano spazio per prendere luce. Invece sarebbe invalsa la moda di ridurre i rami degli ulivi, lasciando quattro pennacchi che, sì, avrebbero prodotto olive grosse, ma in poca quantità.

Nel periodo di raccolta, i proprietari terrieri che avevano fondi dati in mezzadria, andavano sul posto per curare i loro interessi. Non avendo mezzi per recarvisi (forse solo un paio avevano il calesse), il mezzadro andava a prenderli con la mula. Si vedevano così procedere il padrone a cavallo e il mezzadro a piedi. Anche se c’era la moglie di questi, andava a piedi pure lei. (La cavalleria non era usata verso le donne povere).

Per i lavori agricoli, la manodopera dei braccianti (detti jurnatara, in quanto lavoravano a giornata) era richiesta maggiormente per la mietitura e per la zappatura (che oggi non si effettua più in quanto si spargono i diserbanti e perché la terra, arata col trattore a maggior profondità, rimane soffice). Raramente c’era bisogno d’aiuto per la raccolta delle mandorle, poiché si effettuava in un periodo vuoto. Invece per le olive, che si raccoglievano nel tempo di semina, poteva essere necessario ricorrere all’aiuto bracciantile.

Per la richiesta di manodopera si andava al mattino presto in piazza, dove in un angolo c’erano i braccianti in attesa dell’arrivo di qualche contadino che avesse bisogno delle loro braccia. Si trattava il prezzo, e di solito quello offerto bastava per un giorno a sfamare la famiglia. Se ci si accordava si partiva, il contadino a cavallo e il bracciante a piedi, magari a digiuno da qualche giorno, e bisognava camminare anche per un’ora. Quando si arrivava, sul levar del sole, ci si metteva subito al lavoro, perché la pagnotta bisognava guadagnarsela prima di consumarla. Si sdigiunava con pane e olive, o cipolla, a volte formaggio, acciughe, ma solo una cosa per ogni pasto, stando adagiati sul terreno come gli antichi romani sul letto del triclinio. A mezzogiorno poteva esserci la frutta, che si mangiava col pane. Si beveva tutti dallo stesso bùmmulu o dalla quartana, (recipienti di terracotta con manici, la seconda più grande del primo). La sera si tornava e si era a casa col buio. Il bracciante aveva dovuto rifare la strada a piedi. Era tutto normale.

Fortunatamente è arrivata l’emigrazione e i braccianti sono tutti partiti. Ma son partiti anche i contadini, seppure proprietari, perché anche loro stentavano a vivere. Basti dire che quando i braccianti avevano acquisito qualche diritto alla giusta ricompensa, una giornata per mietere le fave costava quanto il ricavato di tutte quelle mietute nella giornata. Dunque si poteva vivere lavorando in economia.

Il lavoro era molto duro eppure, specialmente durante la mietitura ch’era forse il travaglio più lungo e più pesante, si cantava, non per contentezza ma per distrarsi dalla fatica. Quando si mietevano le fave però, obbligati in posizione piegata sullo stomaco, era meglio stare zitti. Lo stesso durante l’aratura, perché occorreva premere forte sull’aratro per farlo andare più a fondo e non bisognava distrarsi dal tenerlo bene per fare il solco diritto. (Da lontano, i solchi dovevano sembrare un’opera d’arte). Si canticchiava zappando, ma raramente, perché bisognava mandare giù la zappa con forza. Invece, durante la trebbiatura, si cercava di tenere allegre le bestie, per farle girare più volentieri. Inoltre a cavallo, specialmente nel periodo del raccolto, si cantavano versi tradizionali con motivo diverso  dalle stornellate col marranzanu. Io non ero un buon “cantatore” e ricordo solo una strofetta, che trascrivo:

 

Haiu saputu ca du’ suru siti,

ca tutti du’ ‘ntre un littu vi curcati.

‘Na frazzatedda leggia vi mintiti.

Ma cumu di lu friddu no’ aggrancati!

Stasira vignu ì, si mi vuliti,

mi mintu ‘nti lu mizzu e calliati.

 

[Traduzione: Ho saputo che siete due sorelle / e vi coricate nello stesso letto.

/  Vi coprite con una coltrina leggera. / Ma come non tremate dal freddo!

/ Stasera vengo io, se mi volete, / mi metto in mezzo a voi e vi scaldate].

 

E due versi che sembrano un motto:

 

La schetta si nni prea di li minni,

la maritata di li figli ranni.

 

[Traduzione:  La signorina va fiera del suo seno, / la maritata dei suoi figli grandi].

 

La cantilena, forse non bella e certo strana per i gusti odierni, aveva anche la caratteristica di iniziare il verso, a volte, con una nota espressa da un vocabolo sordo che stava tra la a e la e, oppure tra m e n. Provo a trascrivere l’essenziale, pur se non sono un musicista e non saprei ripetere bene la melodia come altri invece erano capaci.

 

Canto contadino

 

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