I TEMPI CAMBIANO

di Vincenzo Ballo

Il cibo

 

[Salta al segnalibro: oggi - piatto - buone - adulterazione - contaminazione].

 

Fui svegliato dal richiamo di un venditore ambulante di frutta e verdura, un forestiero che col suo verso caratteristico mi evocò i vecchi tempi, quando ne passavano tanti e le donne li richiamavano per comperare le mercanzie, polemizzando sui prezzi e sul peso della frutta. Allora non circolavano auto e le strade erano rallegrate dal vociare dei fanciulli che giocavano e dalle donne che si scambiavano notizie paesane o parlavano di cose comuni di tutti i giorni.

E’ bello tornare al paese per ricordare gli anni della fanciullezza e della prima gioventù, rivedere vecchie conoscenze, luoghi cari ormai trasformati, e piace pure trovare cose nuove che indicano progresso. Amo tornare al paese anche per assaggiare cibi genuini; ma tante cose buone sono scomparse. Degli ortaggi non c’è più la gustosa agìa, dalla costa rossastra scura, sostituita da una bietola che prima non si conosceva, più grossa ma poco saporita. Rimane, nei tratti gerbidi, la gustosissima bietola selvatica. Non si coltivano più i buoni peperoni verdi a tre lobi; c’è ne sono altri a quattro, più grossi, di consistenza spessa, rossi e gialli, e un’altra varietà verde, puntuta. C’è ancora lu tinnirumi, che hanno imparato ad apprezzare anche nelle città dove siamo emigrati, ma qui è migliore, più carnoso, esclusivamente con cime delle piante di zucca color verde acqua, lunghissima e sottile.

Della frutta posso gustarmi i fichi maturati sull’albero, al sole. Ma ricordo con nostalgia le grossissime pesche gialle con sfumature rosa di una pianta che mio nonno aveva nella vigna. Quale differenza con quelle piccole che abbondano oggi, senza polpa né sapore! Certo, ce ne sono anche normalmente grosse, ma si privilegia l’alta resa, trascurando la qualità, e molte ottime varietà sono scomparse. C’è tanta frutta importata da altre regioni e anche dall’estero, magari bella, grossa e liscia, ma poco gustosa, perché geneticamente modificata, raccolta verde e fatta maturare e prendere colore nei frigoriferi con l’aiuto di prodotti chimici. Ovviamente non ha potuto arricchirsi di zuccheri e vitamine. E intanto aumentano le allergie alimentari. I giovani che la comprano al mercato non possono immaginare il prelibato gusto di quella d’una volta. Di buono c’è che oggi, con lo sviluppo dei trasporti e grazie alle tecniche di conservazione, abbiamo qualsiasi cibo da tutto il mondo, in qualunque mese dell’anno.

Allora si mangiava solo frutta locale e di stagione, d’inverno c’erano arance e mandarini. La frutta fuori stagione era quella adatta a conservarsi per l’inverno, messa a maturare su un tappeto di paglia. Lo si faceva con una varietà di pera, che diversamente non maturava, e coi fichi d’India di seconda fioritura (provocata staccando i primi fiori). Così nascevano tardivi, più grossi e più belli, venivano raccolti poco prima che maturassero, con un po’ di pala attaccata al picciolo, e sistemati con questo verso l’alto. Coperti da un velo, o senza, poco igienicamente, si mettevano a seccare al sole i fichi propriamente detti, interi, e i pomodori tagliati a metà, per fare li cchiappi (pomodori secchi conditi con olio, pepe, basilico, aglio e formaggio). Questi ultimi venivano conservati sott’olio, dentro vasi di terracotta con coperchio smaltati all’interno. In simili recipienti, poi sostituiti da vasi di vetro, si metteva sott’olio pure lu capuliatu (pomodori secchi a pezzetti, con basilico e pepe) per condire la pasta o altri alimenti, oppure cospargere su una fetta di pane.

Si sentiva parlare di qualche cibo esotico ritenuto abbastanza comune che noi però non avevamo mai visto. Le banane, oggi molto diffuse e a buon mercato, mio padre ce le portò da Caltanissetta, per soddisfare la nostra curiosità. Un’altra volta ci fece assaggiare la mortadella, che da noi non c’era.

[Segnalibro: oggi]

Ora nei paesi industrializzati c’è sovrabbondanza di tutto, e i nati nel benessere non possono immaginare le miserie del passato, quando l’alimento più importante era il pane, considerato grazia di Dio e frutto della Provvidenza. Molti, prima di affettarlo, vi facevano con devozione il segno della croce, passandovi col coltello, senza intaccarlo, e lo baciavano come corpo di Gesù-Dio. Si mangiava pane e cipolla, oppure con olive, sia nere salate o conservate sott’olio, che verdi schiacciate e condite. Era già tanto avere una sarda, una sola, a volte bagnata nell’olio, in cui si sminuzzava un po’ d’origano: ad ogni boccone la si leccava, ogni tanto se ne mordeva un po’, badando a farla bastare sino alla fine del pasto, a volte alternata con un pezzo di cipolla. Vietato gustare il companatico da solo. Anche la frutta si mangiava col pane, a meno che si fosse in campagna davanti a un albero con i frutti maturi. Al pane si accompagnavano pure le noci. Era da benestanti il formaggio, comunemente pecorino, con un buon sapore che oggi non si ritrova più. Formaggio di mucca ce n’era pochissimo, perché l'allevamento bovino era scarso e di razza modicana. La ricotta si aveva solo quando nascevano gli agnellini e i capretti, perché si faceva col colostro, appena dopo la prima poppata dei neonati.

A colazione si mangiava il pane con uno dei cibi sopraddetti o inzuppato nel latte di capra appena munto, oppure nel caffellatte, o solo nel caffè, ch’era in realtà orzo tostato in casa, macinato col mortaio, bollito nel pentolino e filtrato col colino. Gli stessi liquidi a volte venivano bevuti da soli in una grande tazza.

Il latte, come il riso nei pasti principali, era pure l’alimento per gli ammalati e i convalescenti, e lo si comprava dal capraio, che passava tutte le mattine col suo gregge per le strade.

Qualche contadino aveva la sua capra, per avere il latte gratis, dopo aver mangiato i capretti. Anche noi ne avevamo una che mi ricorda un simpatico fatterello.

Eravamo andati a zappare in un terreno senz’alberi e, poiché la giornata era fredda,  lasciammo a pascolare i muli, maschio e femmina, con i basti addosso, assicurandoli per la briglia legata a una corda e questa a un cavigliuni (piolo piantato per terra). Successe che al mulo, straiandosi e rigirandosi, il basto andò sul collo e, restandogli trattenuto dalla cinghia, non seppe liberarsene. Allora la capra intervenne per aiutarlo ma, non riuscendovi, si rivolse verso di noi belando per chiedere soccorso.

Altri piatti della colazione, ma anche della cena e qualche volta a pranzo, erano le verdure lessate: cicoria, spinaci, cavoli rapa (questi anche in zuppa o soffritti, con l’eventuale aggiunta di qualche oliva nera), bietole (a volte passate in padella dopo lesse, magari con un po’ di sughetto) e tutte le altre verdure utilizzate per condire la pasta (ma non conoscevamo le cime di rapa). Qualche volta si mettevano due uova rotte nell’acqua bollente, nella quale di solito cuoceva un po’ di verdura.

Si faceva anche la zuppa di lenticchie e qualche volta di ceci, con pane normale (né fritto né tostato). Le fave secche bollite di solito si mangiavano senza pane. Gli amanti di povere bisbocce le gustavano in compagnia, bevendoci su ma senza esagerare (da noi non c’era il culto dell’ubriacatura).

Altri cibi cotti erano cardi, carciofi, zucche di colore arancione nella varietà affusolata e zucchine un po’ grosse di color verde-acqua da mangiare fritte o lesse, oltre a quelle lunghe e sottili che si lessavano soltanto.

Un piatto di pasta (e basta), che le mamme facevano in casa, era il pasto principale della giornata. Nelle case dei contadini si cucinava di sera perché durante il giorno gli uomini erano in campagna a lavorare. D’inverno si mangiava la minestra con legumi lessati separatamente (quasi sempre lenticchie; le fave e i piselli si utilizzavano quand’erano verdi, i ceci quasi mai, fagioli non ce n’erano) o con verdura: cavoli rapa, broccoletti (questi chiamati muzzatura, al singolare), sinàpi e mazzareddi (due specie di sénape, la seconda amarognola, che mangiavamo e conoscevamo solo come verdura), spinacciuli e zucchine, corte o lunghe).

Una o al massimo due volte alla settimana, di solito la domenica, si cambiava con sugo di concentrato di pomodoro, fatto cuocere a lungo in un apposito tegame di terracotta, magari con qualche foglia secca di lauro. D’estate la si condiva col pomodoro fresco e basilico. Grattugiarla era un lusso.

Il pomodoro veniva consumato di frequente anche in insalata, come unico piatto, raramente da solo però, sovente con cipolla, a volte con cetrioli di una varietà lunga, sottile e un po’ ricurva verso il picciolo, che noi chiamavamo cucummari (mentre i cocomeri, detti pure angurie, li chiamavamo muluna russi, per distinguerli dai comuni meloni). Un’ottima insalata era la lattuga romana, che mangiavamo per contorno e, più spesso, fuori pasto, staccandone una foglia per volta; oppure utilizzavamo le foglie grosse per insalata e quelle piccole per piluccare.

Si mangiava in piatti di ceramica decorata e quando si rompevano, se era possibile, li si facevano riparare dal cunzaturaru che periodicamente passava per le strade. Egli bucava i cocci con un trapano rudimentale fatto girare tramite due cordicelle avvolte al suo asse, che venivano srotolate e riarrotolate spingendo su e giù con la mano un’assicella; infine incollava i cocci e li rinforzava con dei punti di fil di ferro.

[Nota 02-1: Per una descrizione più completa leggere

“Pietraperzia anni ’40” di Giovanni Culmone, 1996].

[Segnalibro: piatto]

Era normale che marito e moglie mangiassero in uno stesso piatto grande. Una volta, specialmente in campagna, nelle famiglie numerose, o se ci si riuniva in molti e i piatti non bastavano, si mangiava nella madia, ciascuno prendendo dal settore davanti a sé.

Le stoviglie si lavavano in un vaso conico di terra cotta smaltata all’interno, di varia grandezza, chiamato llemmu. Si utilizzava il brodo sia per sgrassarli meglio che per risparmiare acqua.

Il pane e la pasta erano impastati in casa con farina di grano duro. Prima di portare il frumento al mulino, lo si puliva di ogni estraneità (semi, granelli di terra o pietruzze e persino dei chicchi poco belli) controllando a mano chicco per chicco. Poi la farina si abburattava in casa e alla crusca (caniglia) non si dava importanza. Le donne la usavano per sgrassare pentole, qualche volta le mani e c’era chi, raramente, se ne serviva per ammorbidire la pelle del viso. Inoltre si faceva un pastone asciutto per i polli, molto umido per gli equini e il pane (canigliuttu) per i cani, come quello che ora molti comprano per sé dal panettiere. E in farmacia vendono a caro prezzo pastiglie di crusca per la dieta.

Chi non aveva il forno in casa o non lo usava, dava il pane da cuocere alla fornaia, la quale ne tratteneva una forma per compenso. Di solito era una vedova con figli i quali, se erano grandicelli, a piedi nudi, per mancanza di scarpe, andavano a prendere i pani lievitati dalle clienti. Li trasportavano su una tavola fatta di alcune assi larghe, congiunte da due assicelle trasversali, che sorreggevano con la testa, sulla quale mettevano una corona di stracci per non sentire la durezza del legno e tenerlo meglio orizzontalmente. Ogni massaia imprimeva con la forchetta dei segni distintivi sul pane, e i buchi servivano pure a farlo lievitare meglio. A volte si faceva un panino da mangiare caldo, condito con l’olio all’interno, dopo averlo tagliato a metà. Una volta, fanciullo, volli che mia madre vi segnasse una croce col coltello. Il panino cosse meglio e in seguito continuò a fargli lo stesso segno, e sempre cuoceva con un colore più bello e la crosta più morbida. Ma tutto il pane, comunque, si manteneva morbido per mezza settimana.

La pasta era fatta in casa tutti i giorni, a mano, sfilandola per tagliarini e lasagni (tagliatelle strette e larghe), cavati (specie di piccoli gnocchi con solo farina di grano), filatiddi (spaghetti senza buco) e maccarruna (bucatini col buco prodotto lavorando la pasta con un filo di saggina dentro lo spaghetto).   

Quando fu immesso sul mercato il torchio casalingo, molti lo comprarono per fare gnucchitti e cannaruzzuna (ditalini e rigatoni). Ma era necessario fare l’impasto un po’ duro ed occorreva un grande sforzo per fare uscire i cordoni di pasta, per cui era preferibile aggiungere una prolunga e girare attorno al cavalletto. Occorreva però che qualcuno lo tenesse, affinché non si spostasse, e i bambini vi salivano sopra volentieri nei due lati più distanti.

Al paese c’era il pastaio (che nelle belle giornate metteva la pasta ad asciugare sulla strada) ma solo i ricchi la compravano.

Ora tutti comprano il pane e la pasta e non si sa che tipo di  farina ci sia.

 

Le proteine allora si assumevano coi legumi che, bolliti, si mangiavano tutto l’anno. Raramente si mangiava carne, le polpette erano di patate, molto buone. Qualche volta si aveva la salsiccia fatta in casa, perché qualcuno allevava i maiali e vendeva la carne e le budella. Ma di norma la carne a tavola c’era tre volte all’anno: Natale, Pasqua e Ferragosto, e in rare occasioni, come quando una gallina si metteva a cantare, cercando di imitare il gallo, per cui non avrebbe fatto più uova, oppure quando si ammorbava e le si tirava il collo prima che morisse. (Evidentemente quel morbo dei polli non contagiava le persone o il virus moriva con la cottura). Le galline si allevavano per guadagnare qualche lira con le uova, che per lo più si davano da mangiare ai convalescenti. Ma in primavera, ch’erano più abbondanti, si faceva la frittata, di solito aggiungendo un po’ di menta, eventualmente a Pasqua, e immancabilmente per la Pasquetta.

 

[Segnalibro: buone]

C’erano comunque tante cose buone che nella miseria si apprezzavano di più. Dei dolci fatti in casa ricordo le “anime sante” (armisanti) fritte, (com’erano buone quelle che faceva mia madre, mmh!) e li cuddireddi infornate, fatte entrambe come la e scritta a mano (ma i secondi si facevano anche per devozione a San Biagio, oppure con la stessa pasta si abbozzava una forma della parte del corpo per la quale si chiedeva la guarigione: esempio, la testa per l’emicrania, ecc.). Si facevano li pagnuccati (che i vocabolari d’italiano ci fanno l’onore di trascrivere pignoccata) unti di miele, l’ottimo torrone di mandorle, ovviamente i cannoli, con crema o con ricotta, e il buon pan di Spagna fatto solo con amido, uova e zucchero. (Chiedo a mia moglie le dosi: con cinque uova, 160 grammi di zucchero, 160 di amido, una bustina di vaniglina e un piccolo cucchiaino di lievito, frullati e fatti cuocere per 30 minuti in forno a 180 gradi, viene una buona torta. Meglio se farcita sopra e in mezzo con due strati di crema, fatta con un litro di latte, 190 grammi di zucchero, 95 di amido, una scorza di limone, un po’ di rum, cannella e, volendo, a una parte si può aggiungere del cacao dolce. Sopra può andare bene anche la panna montata con uno spolvero di pistacchi tritati). Mia suocera faceva degli ottimi dolci ripieni con pasta di mandorla (fatta con ugual peso di acqua, zucchero, mandorle e un po’ di scorza di limone grattugiata) e guarniti sopra con polvere di pistacchi (dopo aver spalmato il biscotto con albume d’uovo zuccherato). Non conoscevamo la famosa cassata siciliana ma le nostre mamme facevano li cassateddi (grosse mezzelune di pasta all’uovo ripiene di ricotta e fritte. Quando s’impastava il pane si approfittava per fare la focaccia o lu cuddiruni, (un disco di pasta schiacciata, fritta e poi zuccherata), oppure la pizza. Nel periodo natalizio si facevano i vucciddati (pane a ciambella infarcito di pezzetti di fichi secchi). Per devozione a Santa Lucia si faceva la cuccìa, che non è un dolce ma grano bollito, dopo averlo tenuto a mollo per tre giorni. La si cuoceva per almeno quattro ore la sera della vigilia e verso la fine qualcuno vi aggiungeva un po’ di ceci. Al mattino, dopo averla riscaldata, la si condiva con olio, volendo anche un po’ di pepe macinato, e prima di mangiarla si “diceva” un Padre Nostro e un’Ave Maria. Poi se ne offriva ai parenti, portandogliela a casa. Nell’eventualità che l’avessero fatta pure loro, si ricambiava.

L’olio d’oliva era abbondante (almeno per chi lo produceva) e genuino, molto diverso da quello che adesso chiamano vergine o extravergine, dopo che l’hanno violentato in vari modi. Il gusto forte può non piacere a molti, perché abituati all’olio d’oliva industriale, che non differisce molto da quello di semi vari. Infatti sono comuni le frodi di olio d’origine ignota, anche minerale, spacciato per olio d’oliva vergine o extravergine. Negli anni Sessanta e Settanta la pubblicità aveva fatto preferire l’olio di semi, in particolare una certa marca. “Se non è Topazio io non lo compro” dicevano certe casalinghe per fare le snobs. Poi fu tolto dal commercio perché era cancerogeno.

 

[Segnalibro: adulterazione

L’adulterazione degli alimenti è una pratica diffusa. Negli anni Settanta ci fu lo scandalo del vino al metanolo che poteva rendere ciechi. Si disse allora che non bisognava fidarsi dei vini venduti a poco prezzo e di conseguenza divennero tutti più cari. Le sofisticazioni non conoscono limiti, è tutto raffinato, tutto manipolato. E gli alimenti perdono molte delle sostanze nutritive, che una volta mantenevano.

Certo si vive meglio oggi, considerando l’abbondanza alimentare, mentre prima, fra la stragrande maggioranza della gente, c’era poca cibaria e i bambini litigavano tra loro per averne un po’ di più. Ora invece litigano per averne di meno, dato che sono sazi per il troppo cibo, di solito quello consigliato dalla pubblicità.

L’invadenza dei prodotti industriali (presentati ingannevolmente come genuini e tradizionali) ha fatto cambiare i gusti dei consumatori.

Ai ragazzi d’oggi, troppo abituati con le merendine, la frutta non piace. I giovani frequentano i fast food all’americana, che confezionano cibi grassi, ma sono in voga e stanno distruggendo la buona cucina italiana fatta coi buoni prodotti mediterranei, che gli stessi americani apprezzano ma non assumono, essendo tutti ormai succubi dell’alimentazione industriale. 

Dei piatti italiani va molto la pizza, perché è un pasto completo e costa poco. L’ideale per mangiare fuori e non spendere molto, per cui anche i ragazzi squattrinati se la possono permettere. E’ comoda per le giovani coppie che non hanno voglia di cucinare ed è piacevole mangiarla con gli amici.

Oggi, per il fatto che la donna lavora fuori casa, e molti sono i lavoratori single, non si ha tempo da perdere in cucina. L’industria viene in aiuto con vari cibi quasi pronti, confezionati in scatola, sotto vuoto, surgelati, liofilizzati e precotti. Ma, per quanto possano essere naturali e genuini, molti necessariamente contengono conservanti, esaltatori di gusto e coloranti.

Alcune leggi, ispirate dalle multinazionali, impongono la definizione “di qualità” per prodotti che non ne hanno i requisiti, come qualificare “puro cioccolato” il suo surrogato.

Mangiare cibi naturali, genuini, è ormai impossibile anche con la cucina fatta in casa. Quello che si è guadagnato in igiene si è perso in genuinità. Ci dicono di mangiare frutta e verdura per prevenire il cancro, ma avendo subito trattamenti chimici c’è il rischio che il cancro lo provochino. Anche i prodotti affumicati, ritenuti genuini, contengono sostanze cancerogene. Pare che metà dei tumori siano causati dal cibo. Tutti gli alimenti sono in qualche modo contaminati.

 

[Segnalibro: contaminazione]

La contaminazione inizia nella preparazione del terreno e nelle sementi, per proseguire con i diserbanti e gli antiparassiti, che inquinano le falde acquifere. Perfino l’acqua piovana contiene sostanze acide che si riversano sulle piante e sul terreno. E che dire degli scarichi industriali, ed anche quelli domestici, che inquinano i fiumi e il mare? La legge impone certi limiti d’inquinamento ma, quando non si riesce a rispettarli, vengono alzati con decreti legge per restare entro la legittimità. La gente non si fida più dell’acqua potabile degli acquedotti, specialmente nelle grandi città che l’attingono dai fiumi, e la stragrande maggioranza compra la cosiddetta acqua minerale, della quale però non sempre si può dire che sia migliore di quella che sgorga dai rubinetti domestici. Così è aumentata l’industria delle acque minerali, che imbottigliano pure quella delle sorgenti da cui prima arrivava direttamente a casa a poco prezzo e, non bastando, hanno costruito pozzi, al pari di molti comuni, con la differenza di far pagare l’acqua più cara del petrolio.

Anche l’aria è molto inquinata. Una volta si aprivano le finestre per fare entrare aria buona; oggi bisogna tenerle chiuse per limitare l’ingresso dei gas velenosi. Di notte si dovrebbe respirare meglio perché lavorano meno industrie, purtroppo si attivano quelle che trattano prodotti inquinanti, addirittura rifiuti tossici, e spesso provocano intossicazioni.

Si fanno denunce, seguono i controlli, ma gli esperti assicurano di non aver scoperto irregolarità e che non ci sono problemi. Vengono taciuti anche gli incidenti delle centrali nucleari, a meno che non si possano negare, come quello di Cernobyl nell’aprile dell’86.

Si allevano pesci nelle acque calde usate per il raffreddamento dei reattori nucleari. Gli animali terrestri mangiano erba e foraggio avvelenati, oppure vengono nutriti con farine di pesci e altri mangimi sofisticati, ingrassati con estrogeni e anabolizzanti. Quasi tutti sono allevati in spazi molto ristretti: le scrofe vengono tenute distese per evitare che schiaccino i maialini e permetterne l’allevamento continuo; i polli vivono in uno spazio di 25 centimetri quadrati sempre illuminato, nutriti con mangimi transgenici e imbottiti di antibiotici, per non morire prima d’essere ammazzati. Ci siamo abituati alla loro carne “tenera” e non ci piace più quella soda, migliore, dei polli da cortile. Perché purtroppo ci si abitua anche alle cose cattive.

L’agricoltura si è tecnicizzata e informatizzata. Nelle stalle i robot mungono e tosano. I cervelli elettronici controllano l’alimentazione, l’aerazione e persino la fecondazione, che da molti anni avviene ormai in modo artificiale: alle povere bestie si nega persino il piacere del sesso; devono solo mangiare e ingrassare per poi essere macellate.

C’è, è vero, la carne biologica di animali allevati come una volta, o quasi. E c’è anche l’agricoltura biologica che prevede l’uso di concimi naturali, combattendo i parassiti con gli insetti loro nemici. I cibi, così, oltre a non contenere residui di pesticidi, sono anche più nutrienti. Ma le grandi multinazionali dell’industria alimentare impongono in qualche modo l’importazione di alimenti geneticamente modificati. Anche con l’aiuto dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), che fa i loro interessi, mentre dovrebbe dirimere le questioni commerciali fra le nazioni, e condanna gli stati che si rifiutano d’importare alimenti ritenuti dannosi alla salute.

Gli Stati Uniti detengono il monopolio delle sementi di piante ibride che non si riproducono. Con ciò, i rischi di una crisi agricola sono incalcolabili. L’uso generalizzato delle coltivazioni transgeniche ha portato all’omogeneizzazione dell’agricoltura e alla riduzione della biodiversità: molte varietà di grano, riso, mais eccetera sono scomparse.

L’ingegneria genetica, con incroci e la modifica del Dna, cerca di ottenere anche piante che, oltre a essere ancora più produttive e resistenti al clima, possano crescere nell’acqua marina o in materiali sintetici, siano capaci di assorbire da ogni cosa il fertilizzante loro necessario e produrre tossine per difendersi dagli insetti e da materiali inquinanti.

 

Il futuro ci riserba nuovi alimenti ricavati dalle alghe, dalle biomasse, da batteri, dal petrolio, dal gas metano, dal letame e da chissà cos’altro. Purtroppo, manipolando geni e cromosomi da introdurre in qualsiasi cellula, c’è il rischio di provocare modificazioni genetiche non controllabili.

I fautori degli organismi geneticamente modificati (ogm) cercano di tranquillizzare con il fatto che le mutazioni avvengono anche in natura, seppure con un processo molto più lento, e assicurano che quelle provocate dalla scienza sono mirate a combattere la fame nel mondo e curare o prevenire le malattie con gli alimenti anziché con i medicinali.

[Nota 02-2: Da vari giornali].

Ma molti non si fidano, si teme per i bambini del futuro, e i gruppi di No-global manifestano contro la globalizzazione dell’industria alimentare e no in mano a poche multinazionali che ormai sono i padroni del mondo.

 

Cibarie - 1997, olio su tela 70x50 (compreso finto passe-partout)

 

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