PARLA JOANN VILLENEUVE
F1. Parla Joann Villeneuve: «Vivo nel terrore per mio figlio, ma non posso dirgli di smettere»

«Se fermassi Jacques finirei per ucciderlo»

di MARCO DE MARTINO

ROMA - Joann Villeneuve risponde al secondo squillo. E’ nella sua casa di Montecarlo in rue de Giroflèes, un villino in stile liberty pieno di ricordi dove Gilles metteva il folle tra un Gran Premio e l’altro e dove il piccolo Jacques correva con la Ferrari a pedali, la Macchina che forse per lui resterà un tabù.

Johanna ha la stessa voce dolce di sempre, morbida e di una tenerezza infinita. Anche oggi che ha 51 anni; anche oggi che si è rifatta una vita ma che è comunque costretta a vivere dentro questo dannato mondo che fa brum brum, un mondo che contempla mondiale, ospedale e magari la vita buttata via.
L’Italia delle mamme apprensive potrà non capire, ma questa è davvero una donna speciale. Diciamo unica.

Signora Villeneuve, non è stanca di aver paura?

«Ho accettato sin dall’inizio di vivere così ed ormai è tardi per cambiare filosofia. Domenica ho visto l’incidente di Jacques in diretta tv e mi sono sentita morire un’altra volta, il rumore della macchina sul muro è stato terribile, sono stati attimi interminabili, poi il telecronista ha detto che era ok, poi finalmente mi ha chiamato Jacques e mi ha detto "mamma sto bene, ma quella persona è morta". Mi ha detto anche di non aver avuto paura perchè non ne ha avuto il tempo. E poi che quando sei in aria non puoi fare nulla e quindi devi solo aspettare di scendere... Ha aspettato lui ed ho aspettato io. Insieme anche stavolta». Molti hanno collegato il volo di Jacques a quello di Gilles...«No, per me sono state situazioni differenti. Stavolta ho visto tutto in diretta tv e mi sono ritrovata a mordermi le labbra di colpo davanti alle immagini. Invece quando Gilles volò via a Zolder io non ero là perchè ero rimasta a Montecarlo per la prima comunione di Melanie e la tv non trasmetteva ancora le prove. Mi telefonarono dopo per dirmi di Gilles».

Non pensa di aver già dato abbastanza all’automobilismo?

«Ho le mani legate. Jacques è come Gilles, ama le corse e vive per le macchine e quindi se lo fermassi lo ucciderei. Lui è felice così, questa è la sua strada, la sua passione, lui ha diritto di sentirsi libero e quindi io soffro ma è una cosa mia, tengo tutto dentro di me e al tempo stesso sono felice per lui. Come quando c’era Gilles la mia è una piccola vita dentro il suo grande sogno. Io non volevo che Jacques corresse e così da piccolo l’ho mandato a studiare in Svizzera perchè lì non si può correre nemmeno col kart. Ma lui è stato più forte. Ha lottato. Ha insistito. E così quando non era ancora maggiorenne ho firmato io per farlo correre in Formula 3. Diventando in quel modo sua complice...».

Oggi però la Formula 1 è molto più sicura...

«E’ vero, i piloti sono più protetti e le macchine infinitamente più resistenti. E poi nessuno guida più come faceva Gilles perchè oggi i piloti sono più calcolatori e molto meno personaggi. Però in fondo ai rettilinei si arriva a 350 orari e quindi il rischio c’è sempre, tanto è vero che si può morire oggi come si moriva vent’anni fa. E’ il caso che decide. E del resto nessuno di quelli che si buttano col parapendio possono considerarsi invulnerabili».

Lei sembra di ferro...

«E’ un’idea sbagliata, soffro anch’io, e tantissimo: come ogni moglie o come ogni mamma. Ho sperato mille volte che Gilles potesse godersi la seconda parte della sua vita come un uomo normale, ma non è stato possibile. Però, anche se lui ha avuto una vita molto breve, le sue imprese ancora vivono nei sogni degli appassionati di Formula 1 e questo è molto bello. Io non rimpiango nulla, è stato felice: l’unico rimpianto è che me lo sono goduto troppo poco, avrei voluto rubare al destino altri anni. Ora prego per Jacques, perchè sia felice ma non si faccia male. Ma il rischio resta forte, perchè il mondo è fatto di 7 miliardi di persone mentre la Formula 1 di 22. Ed uno è mio figlio».

Da "Il Messaggero del 07 Marzo 2001"

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